di MATILDE CIOLLI
A vent’anni dall’Argentinazo – la crisi scoppiata nel 2001 con la confisca dei depositi privati per ripagare il debito con il Fondo Monetario Internazionale – il presidente argentino Alberto Fernandez e il rappresentante del Cono Sur di fronte al FMI, Sergio Chodos, stanno negoziando con il Fondo la ristrutturazione del debito esterno di 57mila milioni di dollari contratto nel 2018 dal governo neoliberale di Mauricio Macri. I contenuti della proposta non sono ancora noti, ma si stanno definendo in questi giorni i limiti da porre alla spesa pubblica e al deficit. Dal primo comunicato ufficiale dell’FMI risulta chiara la pretesa di un ajuste fiscal volto al raggiungimento della stabilità e non della crescita e un «piano di spesa sociale focalizzato», ovvero di tagli alla spesa pubblica. La richiesta del FMI che l’accordo sia approvato anche dall’opposizione rende ulteriormente difficile avanzare pretese redistributive e più verosimile l’adeguamento alla ricetta d’austerità cara al Fondo: svalutazione, deregolamentazione, flessibilizzazione. Proprio in questi giorni il partito d’opposizione, Juntos por el cambio, sta tentando di bloccare la legge di bilancio per il 2022 e di ostacolare così la negoziazione del debito. La posizione del partito di governo rimane poco chiara e manifesta tensioni politiche al suo interno: venerdì 10 dicembre in Plaza de Mayo, di fronte alle 250 mila persone venute a celebrare i 38 anni dal ritorno della democrazia nel paese, Cristina Kirchner ha chiesto maggiore fermezza nella negoziazione e ha dichiarato di non avere fiducia nell’accordo, ricordando la condotta dell’FMI nel 2001 e la sua storica opposizione alle politiche peroniste, cui difficilmente verrà meno in questa occasione. Alla proposta della vicepresidente di indagare sui beneficiari privati del debito macrista e di pagare il debito con il denaro finito nei paradisi fiscali – che nel 2020 ammontava a 86mila milioni di dollari – Fernandez non ha risposto, ma ha promesso di non firmare nessun piano che comprometta la crescita economica argentina o che la garantisca solo a pochi. Come questo sarà possibile resta ancora da capire, tanto più con un ministro dell’economia come Martin Guzman che sembra molto ossequioso rispetto alle direttive dell’FMI. Nel frattempo, il governo, utilizzando il motto «dobbiamo pagare crescendo», sta cercando di approvare prima della fine dell’anno un pacchetto di leggi – la legge sull’elettromobilità (legata alla riconversione della produzione elettrica), la legge sull’agroindustria e la legge sull’industria automobilistica – che mirano a mostrare al FMI quali settori stimoleranno l’economia per essere in grado di soddisfare i pagamenti.
Di fronte alle negoziazioni del debito si fa vivo il ricordo della crisi del 2001 e delle proteste, dei cacerolazos, dei blocchi delle strade di tutto il paese, dei saqueos di supermercati e alimentari. Proprio in questo periodo, il 19 e 20 dicembre 2001, la cosiddetta batalla de Plaza de Mayo, esplosa dopo la proclamazione dello stato d’assedio da parte del presidente Fernando De la Rua, aveva costretto il presidente alla fuga in elicottero dalla Casa Rosada. Quello che, invece, oggi sembra mancare di fronte alla crisi economica prodotta dalla pandemia e alla preannunciata austerità legata al debito, è un movimento di piqueteros, donne, precari pronto a sfidarle. Non tutto tace, ma in questa fase mutata la sfida è ricostruire una risposta collettiva. Se nel 2001 le proteste erano state prevalentemente spontanee, oggi donne, lavoratrici migranti, lavoratori informali, persone Lgtbtq+ si sono organizzate in gruppi, reti, collettivi, sindacati fortemente radicati nei quartieri popolari, nelle zone dove l’economia popolare è più estesa e dove la precarietà è più acuta. Questa crescita organizzativa ha permesso, durante la fase più dura della pandemia, di rispondere, soprattutto nelle villas, agli effetti economici, sociali e sanitari prodotti dal lockdown. E tuttavia, in questa nuova fase pandemica, essa non riesce a produrre un coordinamento collettivo capace di spingere oltre la lotta per la sussistenza immediata o le estemporanee manifestazioni di piazza, e assumere una prospettiva conflittuale condivisa di fronte allo stato di cose presente.
La grande novità politica degli ultimi anni in Argentina è stata l’irruzione travolgente del movimento femminista che ha saputo trasformare la battaglia contro la violenza maschile in una presa di posizione contro le politiche neoliberali macriste mobilitando milioni di donne, persone Lgbtq+, ragazze giovanissime, ma anche lavoratrici e lavoratori precari, informali o migranti, sindacati e perfino alcuni partiti. L’attuale congiuntura economica, che rischia di avere effetti devastanti per chi ha alimentato quelle mobilitazioni, pone al femminismo una sfida importante che richiede di tornare a produrre uno schieramento sociale dotato di quel peso politico che in passato ha obbligato governo e istituzioni ad ascoltarne le istanze.
In questo contesto la lettura femminista che negli ultimi anni è stata data da Ni Una Menos dell’indebitamento privato in relazione alla crescita del debito esterno torna ad avere rilevanza e a esigere attualizzazione e discussione collettiva. Lo slogan la deuda es con nostras, che continua a circolare nelle piazze argentine, muove non solo dal riconoscimento della centralità del lavoro delle donne nella riproduzione sociale, ma anche dalla volontà di sottrarsi a un meccanismo che produce subordinazione e quindi rende più stringente la presa della violenza maschile. Il debito è infatti una forma di vincolo che disciplina la condotta, organizza i tempi di vita e limita fortemente la libertà e l’indipendenza, incatenando alla necessità asfissiante di accettare qualsiasi lavoro per qualsiasi salario. Il debito esterno con l’FMI funziona in questo momento da acceleratore dell’indebitamento privato. Insieme all’inflazione e agli effetti della pandemia esso genera, infatti, la dollarizzazione dei settori chiave dell’economia – alloggi, cibo e medicine – che impoverisce e obbliga a chiedere prestiti. La percentuale più alta fra i percettori di credito è quella delle donne con figli a carico o incinte, che si indebitano in misura maggiore degli uomini perché la divisione sessuale del lavoro pone sulle loro spalle tutto il peso dell’economia domestica. Il sistema del debito – che impone tassi di interesse usurai che vanno dal 180 al 200% e che sono pressoché impossibili da ripagare – finisce così per essere una leva dell’organizzazione patriarcale del lavoro e della società perché, mentre da un lato incrementa lo sfruttamento delle donne obbligandole ad accettare qualsiasi tipo di lavoro per ripagarlo, dall’altro continua a vincolarle all’onere del lavoro domestico.
La minaccia del debito esterno incute ancora più timore in un paese colpito profondamente dalla pandemia e da politiche del governo che hanno limitato le spese sociali e trattato con reverenza il settore imprenditoriale. Negli ultimi due anni si è prodotta una contrazione del mercato del lavoro che lo ha portato ai livelli di dieci anni fa. Gli strati medi della società si sono ridotti esponenzialmente per via della diminuzione dei salari e dell’occupazione: il 42% della popolazione argentina è oggi in stato di povertà (ovvero 3 milioni in più del 2019). Eppure, diversamente dal 2001, il lavoro non manca, anzi si moltiplica sovrapponendo giornate lavorative, formali e informali, in una corsa perpetua per arrivare a fine mese. Se i media dichiarano un’importante ripresa economica del paese, a ben vedere, il prezzo del miglioramento dell’economia è stato l’aumento vertiginoso delle disuguaglianze: negli ultimi quindici mesi infatti il trasferimento, attraverso l’aumento dei prezzi, delle risorse dai lavoratori ai profitti aziendali è stato di 5.3 milioni di pesos, cioè l’11.3 % del PIL. La precarizzazione è estrema, i salari sono sensibilmente più bassi e incapaci di reggere gli aumenti dei prezzi dovuti all’inflazione. Tra agosto e ottobre 2020 nel 20% delle case dell’area urbana di Gran Buenos Aires si è smesso di pagare l’affitto o non sono stati pagati gas, luce e acqua. L’80% della popolazione, durante la pandemia, si è dovuta indebitare per pagare affitti, trasporti, alimentazione, entrando nel vortice neoliberale che obbliga a vivere per pagare il debito e a indebitarsi per vivere. I nove milioni di persone che lavorano, in maniera informale, nell’economia popolare, sono stati messi in crisi dal blocco dell’attività lavorativa e da sussidi pandemici irrisori e interrotti a causa del debito esterno. L’indebitamento privato si è così trasformato nell’unico, cinico, garante della riproduzione sociale e in un ammortizzatore del peso della crisi: si è, cioè, sostanziato nel più brutale sostituto neoliberale delle politiche pubbliche. Gli sgomberi, per via della speculazione immobiliare e della conseguente incapacità di pagare gli affitti, si sono moltiplicati, soprattutto nelle villas e nel conurbano. Nei quartieri popolari la sopravvivenza quotidiana è stata affidata alle reti popolari e femministe che si sono incaricate di produrre mascherine, fornire assistenza sanitaria, cibo in contesti dove spesso l’acqua non arriva e i bagni sono divisi fra dieci, quindici persone, pretendendo però che tale lavoro venisse sussidiato da piani sociali. Le donne sono state in prima linea nei comidores e nelle ollas populares e tante sono state le Ramona Medina, Gladys Algarañaz, Susana Campos, che sono morte nelle villas contagiandosi proprio per fornire l’assistenza che lo Stato non ha saputo dare. Eppure, mentre sono state soprattutto le donne a farsi carico della sopravvivenza durante la pandemia, la violenza maschile nella sfera domestica è aumentata esponenzialmente, portandole a organizzarsi moltiplicando i cacerolazos e i momenti di protesta.
La sfida politica posta dalla crisi economica deve fare i conti anche con la progressiva avanzata della destra e con i consensi trasversali che essa riceve. L’insoddisfazione per il Frente de todos, il partito peronista di governo – che ha avuto l’ingrato compito di gestire il debito ereditato da Macri e la crisi pandemica – è emersa a novembre nelle elezioni di medio termine. Sebbene il peronismo abbia recuperato alcune province e abbia ottenuto buoni risultati in quella di Buenos Aires, ha perso – per la prima volta dal ritorno alla democrazia nel 1983 – la maggioranza in Senato, per cui sarà più difficile costruire la maggioranza parlamentare. Già adesso il partito d’opposizione ha ostacolato la discussione di alcune leggi rilevanti, come l’estensione dell’emergenza territoriale indigena, che blocca gli sgomberi dalle terre occupate dalle comunità, mentre provvedimenti come la ley de alquileres, cioè la legge sugli affitti, che a giugno 2020 aveva tentato di porre argini agli sfratti, viene ora messa in questione da più fronti. Se il partito macrista, Juntos por el cambio, ha ottenuto il 42,19% dei voti contro il 33,83% del Frente de Todos, il partito di estrema destra di Javier Milei, che mescola conservatorismo morale e politiche economiche neoliberali, è risultato la terza forza nella città di Buenos Aires. L’avanzata della destra conservatrice non è, del resto, un fenomeno che in America Latina preoccupa solo l’Argentina: in Bolivia a novembre la destra ha convocato per giorni uno sciopero nazionale che ha paralizzato il paese, dichiarando l’intenzione golpista di far crollare il governo di Luis Arce. Durante lo sciopero il governo ha sollevato dall’incarico cinque comandanti della polizia dipartimentale a causa delle accuse di uso eccessivo della forza e di abusi. Anche in Perù l’estrema destra ha da poco tentato – fallendo – un golpe parlamentare per destituire il presidente Pedro Castillo, ex sindacalista e maestro elementare rurale, eletto da quattro mesi. In Colombia la corruzione estrema e la violenza spesso letale esercitata contro l’opposizione rischiano di far vincere nuovamente, alle elezioni dell’anno prossimo, il partito che quest’anno ha represso brutalmente lo sciopero nazionale durato mesi, provocando un numero inaudito di morti, feriti e desaparecidos. Il Cile ha invece appena impedito, con la clamorosa vittoria al ballottaggio di Gabriel Boric, rappresentante del centro sinistra ed ex leader del movimento studentesco, il ritorno di un governo pinochetista, conservatore, familista e neoliberale.
Di fronte all’avanzata di una destra conservatrice e al rischio di un ajuste con il FMI, il movimento femminista non è immobile, ma deve riprendersi la visibilità che ha avuto negli ultimi cinque anni di sciopero femminista globale e riconnettere le varie istanze al suo interno. Il 6 novembre la marcha del orgullo ha visto sfilare 1 milione di persone Lgbtq+ e giovani ragazze e ragazzi, nel più grande pride che ci sia mai stato a Buenos Aires. Nonostante l’organizzazione piuttosto estemporanea, il 25 novembre migliaia di donne si sono riunite di fronte al tribunale della capitale per esprimere il loro rifiuto della violenza maschile e per gridare che la deuda es con nosotras, mostrando in questo modo che, pur essendo una condizione generale che grava su un intero paese, il peso del debito stabilisce una differenza che mette in primo piano la divisione sessuale del lavoro, le condizioni patriarcali della riproduzione sociale, ma anche il credito irrisarcibile che le donne hanno accumulato garantendo quella riproduzione con il loro lavoro. Questo mese è stato avviato un primo dibattito fra diverse componenti del movimento femminista attorno alle prospettive organizzative di fronte alle negoziazioni con l’FMI, ma ancora le analisi e le proposte restano chiuse in spazi ristretti. L’11 dicembre, il Frente de izquierda – coalizione della sinistra trotskista – ha convocato una marcia contro il pagamento del debito, cui hanno partecipato decine di migliaia di persone, alle quali però non si sono unite le organizzazioni più radicali del fronte peronista e le organizzazioni popolari indipendenti. Una parte ridotta del movimento femminista è stata presente per ricordare che il denaro che il governo destinerà al pagamento del debito contratto con il FMI sarà sottratto al pagamento del gap salariale che colpisce le donne, alle case rifugio per le donne che subiscono violenze, alla garanzia di alloggi per chi non ha reddito sufficiente per pagarsi un affitto, ai servizi previsti per sgravare le donne dal lavoro di cura, obbligandole a una sempre maggiore precarietà. Dopo l’ottenimento della legalizzazione dell’aborto (di fatto spesso ancora ostacolato e criminalizzato in molti luoghi) e la cancellazione dell’Encuentro plurinacional de mujeres y disidencias per via del Covid-19, il movimento femminista resta, insomma, scomposto in vari settori che ancora non hanno una posizione comune di fronte alle scelte di governo sul debito e politiche di ristrutturazione “post”-pandemica. La presenza delle molte militanti arrivate al governo con la spinta della marea verde e dello sciopero femminista – fondamentale per dar seguito alle rivendicazioni del movimento – pone uno scarto rispetto al rapporto con le istituzioni in epoca macrista, ma continua a richiedere al movimento femminista una postura critica capace di fare pressioni affinché la crisi non sia pagata con ulteriore precarizzazione e l’esito delle negoziazioni del debito non sia solo una concertazione a ribasso con le destre di governo e l’FMI.
Il prossimo sciopero dell’8 marzo costituisce dunque un importante banco di prova per il movimento femminista argentino che dovrà ripensare la sua organizzazione alla luce degli effetti economici e sociali della pandemia e dei programmi di aggiustamento che si profileranno proprio a marzo con la chiusura delle negoziazioni con il Fondo. La potenza delle istanze femministe risiede nella capacità di mettere in luce il carattere patriarcale della società neoliberale fondata sul debito e di mostrare chiaramente che non è possibile opporsi al debito senza mettere in questione l’organizzazione patriarcale dell riproduzione sociale sostenuta dalla violenza maschile. Facendo valere il credito accumulato dalle donne contro la società neoliberale, il processo dello sciopero apre allora la possibilità di superare la frammentazione e creare connessioni e schieramento proprio a partire dalla posizione differente occupata dalle donne nella società del debito. Il 13 dicembre la rete Feministas Transfronterizas ha convocato una riunione transnazionale, cui molte argentine hanno partecipato, per discutere dell’avanzata della destra neoliberale a livello transnazionale e la costruzione di un’agenda politica comune verso lo sciopero femminista. L’8M offre l’opportunità di connettere l’opposizione al debito a una lotta globale contro le misure patriarcali che molti governi stanno adottando nella ristrutturazione delle economie post-pandemiche, di articolare l’opposizione al conservatorismo neoliberale e cattolico con cui avanza la destra locale al rifiuto globale delle politiche familiste, razziste e autoritarie messe in atto in molti paesi per sostenere la ripresa economica e neutralizzare la pretesa da parte di donne, precari e migranti, di condizioni di vita migliori e di maggiore libertà.