di FELICE MOMETTI
Da New York a Filadelfia ci sono 150 km, 15 milioni di abitanti, le sedi di gruppi finanziari come BlackRock, Vanguard, JP Morgan, Goldman Sachs, una trentina di università, i porti e le logistic city del New Jersey che movimentano migliaia di container al giorno. La quantità e l’intensità dei flussi di merci, servizi e informazioni nell’area compresa tra le due città e all’esterno con il resto del pianeta, ne fanno un nodo centrale delle reti globali del valore. C’è la presenza di una delle maggiori concentrazioni territoriali al mondo di migranti – 170 nazionalità ‒ con e senza documenti. Alla periferia di Filadelfia inizia il paradiso fiscale del Delaware. È la metropoli contemporanea. Non un ambito geografico o un ente amministrativo ma un processo di valorizzazione del capitale che per riprodursi riorganizza e trasforma incessantemente le forme della cooperazione sociale, i tempi e gli spazi urbani. Si valorizzano tutte le forme che il capitale assume, compreso quello culturale.
A New York c’è il Whitney Museum progettato dall’archistar Renzo Piano e realizzato come una macchina espositiva dell’arte contemporanea in grado di cancellare il confine tra opere d’arte e prodotti per il mercato finanziario. Luogo di sperimentazione delle nuove tecnologie blockchain per la transazione di parti o dell’intera proprietà intellettuale di opere d’arte digitali e multimediali mediante criptovalute e «token non fungibili». Il Philadelphia Museum of Art, fino a una decina di anni fa, poteva essere considerato un museo «tradizionale» per organizzazione degli spazi espositivi, gestione finanziaria e valorizzazione del patrimonio artistico. Tra le numerose conseguenze della crisi del 2007/2008 c’è stata anche la ricerca, da parte di settori del capitale finanziario, di nuove fonti di valorizzazione, tra le quali l’arte contemporanea. Infatti, nel 2010, il Museo di Filadelfia inizia un percorso di «pianificazione strategica» che investe l’aspetto commerciale, finanziario e di governance. Si incarica l’archistar Frank Gehry di riorganizzare completamente la forma e la sequenza degli spazi interni. Cambiando così anche il rapporto tra un esterno che ricorda un tempio greco con tanto di colonne simil-corinzie, con una scalinata di accesso diventata iconica per la saga cinematografica di Rocky/Stallone, e un interno progressivamente destrutturato come dev’essere una macchina espositiva. Come nel caso del Whitney Museum anche per il Museo di Filadelfia è la stessa architettura dell’edificio che deve diventare spettacolo.
Dalla fine di settembre i due musei ospitano insieme la più grande retrospettiva mai fatta di un artista contemporaneo: Jasper Johns, Mind/Mirror. Principale sponsor: Bank of America, tra le prime dieci banche del mondo. Collocate tra le due sedi, più di cinquecento opere tra dipinti, stampe, sculture, installazioni dell’ultimo artista vivente della stagione artistica americana tra la metà degli anni ’50 e i primi anni’60. Prendendo spunto dalle riflessioni di Pierre Bourdieu si potrebbe parlare di un’operazione, in grande stile, in cui il capitale culturale viene oggettivato da due macchine espositive. Certo, più dal Whitney Museum, che conferma la sua funzione di interfaccia con il mercato finanziario, che non dal Philadelphia Museum of Art. Per il Museo di Filadelfia la mostra su Jasper Johns è l’evento che accelera un processo: da infrastruttura culturale a «exihbition making», luogo di intersezione tra marketing delle esperienze artistiche, turismo culturale e alta finanza.
Per far funzionare le macchine ci vuole anche una narrazione che sia all’altezza. A questo ci pensano i due curatori, Scott Rothkopf e Carlos Basualdo, il catalogo della doppia mostra e i social media dei due musei. Uno storytelling multimediale che ruota attorno alla ripetizione, al raddoppiamento e al rispecchiamento: come è stato, secondo i curatori, il percorso artistico di Jasper Johns negli ultimi sei decenni. Si evoca un ruolo centrale di Johns nel superamento dell’espressionismo astratto americano e nell’aprire la strada alla pop-art, alla minimal art, all’arte concettuale ridimensionando fortemente l’attività artistica e le opere di Rothko, Rauschenberg e Warhol. Le bandiere americane, i bersagli, le mappe, i numeri ripetuti e reinterpretati lungo tutto l’arco del lavoro artistico di Johns sono letti senza crisi, fratture, vicoli ciechi che invece appaiono evidenti. L’intenzione dei curatori è di veicolare un’evoluzione lineare nell’attività di Jasper Johns: dalle ripetizioni e dai rispecchiamenti alla resilienza e alla riconciliazione senza specificare con che cosa si afferma la resilienza e con chi e quando ci si riconcilia. Il prodotto Johns per essere appetibile dev’essere depurato dalle contraddizioni, dalle ambiguità, dalle ambivalenze. Non è quindi casuale che per rappresentare i luoghi che maggiormente hanno segnato l’arte di Jonhs si sia scelto la Carolina del Sud al Whitney Museum e il Giappone al Museo di Filadelfia. Stando alla larga dalla New York del decennio a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni’60: troppe contrapposizioni, convulsioni, «rivoluzioni» artistiche. Al visitatore vengono offerte solo due asettiche ricostruzioni delle mostre di Johns, nel 1960 e nel 1968, alla galleria di Leo Castelli a New York. Quelle furono due mostre nella e sulla metropoli. La doppia mostra di oggi attraversa una metropoli di dimensioni maggiori, con altri rapporti e condizioni sociali, con il solo scopo di valorizzare, dal punto di vista finanziario, un’intera carriera artistica. Un approccio che ha lasciato interdetto lo stesso Jasper Johns che, dallo sperduto villaggio del Connecticut in cui vive, un paio di mesi fa ha dichiarato: «Non voglio essere citato. Queste non sono le mie idee».
Tuttavia si tratta di un approccio, o meglio di un modello, che si sta sempre più affermando: l’arte contemporanea, l’industria culturale e il capitale finanziario non sono ambiti distinti che si incontrano nelle grandi case di aste oppure nelle numerose fiere d’arte sparse per il mondo; l’arte contemporanea, l’industria culturale e il capitale finanziario hanno raggiunto tali livelli di integrazione che nelle punte avanzate diventano un modo di accumulazione del capitale stesso. Dicendo che i musei, le grandi gallerie, le biennali sono delle imprese con consigli di amministrazione popolati da rappresentanti di grandi società finanziarie non si scopre nulla di nuovo. Ciò che invece sta emergendo negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti, sono delle forme di contestazione da parte di artisti/attivisti e di organizzazione di una forza-lavoro precaria assunta durante i grandi eventi. Prendendo il Whitney Museum come esempio, già durante il movimento Occupy si era formato a New York il gruppo Occupy Whitney. Ma è stato nel 2019, con i collettivi che hanno dato vita a Decolonize this Place, che è stato occupato l’ingresso del museo contro la presenza di produttori di armi nel Consiglio di Amministrazione. Recentemente la contestazione ha riguardato anche il Museum of Modern Art di New York con le iniziative del gruppo Strike MoMA, durate un paio di mesi, contro la «filantropia tossica» del Consiglio di Amministrazione che valorizza finanziariamente anche l’antirazzismo e le identità di genere. Non meno importanti sono le vittorie nei referendum svolti al Whitney, al MoMA e al Museo di Filadelfia tra tutti i lavoratori e lavoratrici per dotarsi di un’organizzazione sindacale di base per affermare i propri diritti. Sono iniziative, contestazioni, lotte che ancora non hanno grandi dimensioni ma che cominciano a essere prese ad esempio e diffondersi in molte istituzioni culturali e artistiche.