Impressioni di settembre 1973 – Merci, monete e sangue, o delle fantasie del neoliberalismo
11 settembre 1973: il neoliberalismo viene al mondo sporco del sangue versato agli ordini di un generale cileno. Covato per decenni all’ombra di più o meno oscuri adoratori della moneta, il neoliberalismo trova le condizioni per uscire allo scoperto tracciando un nuovo spazio globale in cui il capitale può tornare a valorizzarsi libero da strettoie e rigidità nazionali. Il nazionale non scompare, ma viene piegato al nuovo ordine in maniera tale che Stato e capitale possano ritrovarsi dietro il paravento del mercato globale: qui la libera circolazione delle merci detta le regole della circolazione degli uomini e soprattutto delle donne che, in nome di una tradizione che non cessa di ipotecare il presente, dovrebbero ritornare a presidiare il domestico per continuare ad assicurare la riproduzione della società. Il globale è allora la via indicata dal neoliberalismo non solo per lasciarsi alle spalle anni di fastidiosi compromessi social-democratici attorno allo Stato-nazione, ma anche per spezzare movimenti che con le loro lotte avevano reso difficilmente praticabile quel piano dell’accumulazione. Ma quanto sarebbe durata la fantasia neoliberale di un globale liscio e privo di attriti o, per dirla altrimenti, senza lotta di classe?
Impressioni di settembre 2001 – Terrore e tremore, o delle fratture del neoliberalismo
11 settembre 2001: un’organizzazione terroristica di base al confine tra Afghanistan e Pakistan, finanziata con denaro saudita e dotata di cellule sparse in mezzo mondo attacca due grattacieli americani, inventandoli come simbolo di quell’ordine globale. La ferita all’Occidente è stata in fondo questa: la presa di coscienza che il globale non è quel safe space dove regnano soltanto libero commercio, proprietà, diritti umani e Fukuyama. Una frattura si apre nell’ordine neoliberale e la guerra al terrore è il maldestro e sanguinario tentativo di ricomporla. Questo non significa che la storia ricominci quell’11 settembre di vent’anni fa. Non bisogna scambiare gli accidenti della storia per una sua presunta direzione ultima. E la storia non puntava certo verso la fantasia neoliberale di un globale contro cui da tempo altri attori stavano facendo valere un proprio spazio alternativo: uno spazio transnazionale che non seguiva le rotte globali del valore, ma le metteva costantemente in tensione fino ad arrivare a sfidarle apertamente. Perché se la lotta di classe si era arroccata nelle sue forme sindacali per difendere quel poco di diritti e salari che la furia neoliberale aveva risparmiato, se in un comprensibile spaesamento pezzi di movimento avevano cercato rifugio in isole felici al (presunto) riparo dalle leggi del valore, uomini e donne in tutto il mondo hanno approfittato degli spiragli aperti dai sommovimenti dell’ordine globale per rivendicare un’inedita libertà di movimento. In altre parole, quell’ordine aveva cominciato a tremare ben prima che le Torri gemelle scomparissero dallo skyline di Manhattan. Dal 1999 al 2001, da Seattle a Genova, quello stesso ordine era stato apertamente sfidato da movimenti di massa che nel transnazionale avevano riconosciuto il vero campo di battaglia. Di quei movimenti chiamati sbrigativamente no global, che alle fantasie logistiche del capitale opponeva non orizzonti angusti ma un mondo diverso (e) possibile, ci è rimasta una nostalgia corredata da un radicale senso di impotenza. L’imponente corteo migrante che apriva le giornate contro il G8 a Genova è la memoria di un tempo in cui i soggetti reali non rappresentavano il conflitto ma lo incarnavano nel movimento: non si limitavano ad attraversare il movimento ma lo sceglievano come spazio altrettanto reale delle lotte. E il movimento era reale perché stabiliva una posizione di parte, dalla quale affrontare il problema dell’organizzazione all’altezza transnazionale della sfida lanciata dal capitalismo neoliberale e globale. Pur con tutti i limiti dovuti alla complessità dell’impresa, i social forum hanno avuto questo senso e gliene va dato atto.
L’esaurimento di quelle esperienze, la difficoltà di dare continuità a quella tensione, ha spinto i movimenti a ripiegare sul nazionale, mentre sullo sfondo restava l’ombra di un’ambizione transnazionale che il no alla guerra del terrore e alla libertà duratura targata George W. Bush tentava di afferrare. Quando nel settembre del 2008 alcune grandi banche statunitensi dichiarano la loro bancarotta, diviene evidente la crisi che ha segnato una nuova e più profonda frattura nell’ordine globale su cui anni più tardi il populismo del capitale avrebbe tentato di mettere una pezza. Dopo la fiammata degli Occupy, che al globale della finanza aveva contrapposto la parte del 99% transnazionale, dopo che i movimenti contro l’austerity avevano riacceso le piazze europee per poi finire a sbattere contro le illusioni del giovane Tsipras e le dure realtà della Troika, non siamo più riusciti a mettere in campo discorsi e pratiche che non fossero tendenzialmente pulviscolari. Siamo andati sì alla ricerca del reale, ma in miniatura, con il risultato di accontentarci di volta in volta di un nuovo paradigma in assenza di riscontri materiali nella realtà: in questa condizione tutto allora diventa movimento senza che però si muova quasi più nulla. Le donne e gli uomini migranti che continuavano ostinatamente a muoversi hanno dovuto accontentarsi nel migliore dei casi di un refugee welcome e proseguire in tendenziale solitudine la propria lotta dentro e oltre l’accoglienza. Certo, il movimento delle donne ha inventato uno sciopero transnazionale come pratica per aggredire la saldatura tra la libertà neoliberale e la gerarchia patriarcale, ma oggi quella prassi sembra avere perso forza espansiva, incontrandosi e scontrandosi con un nazionale che si presenta nei diversi contesti come compromesso progressista, come reazione conservatrice o come violenta repressione. Nella debolezza del nostro movimento è sorto il mito del neoliberalismo invincibile, del capitalismo che si alimenta tramite la crisi senza che ci sfiori l’idea che la crisi è in tutti i sensi una nostra responsabilità, lasciandoci invece un senso di sconsolata, autoassolutoria, disperazione. Mentre le fratture si moltiplicano, approfondite da una pandemia che sta lasciando il posto a una nuova normalità, non c’è più tempo per sfogliare l’album dei ricordi, anche quando ci rimandano alle gloriose giornate di quel luglio genovese. Quanto a lungo un movimento può vivere della poesia del passato?
Impressioni di settembre 2021 – Libertà e rifiuto del terrore
11 Settembre 2021. Vent’anni dopo il primo razzo su Kabul non c’è più traccia dell’esercito americano sul suolo afghano. Un ritiro con più infamia che gloria che, quello che un tempo avremmo definito l’uomo più potente del mondo, ha sintetizzato grosso modo così: gli Stati Uniti non possono dare la libertà al popolo afghano se il popolo afghano non la vuole, con buona pace dei suoi predecessori a capo della ditta che usava esportare democrazie. Le donne e gli uomini afghani avevano e hanno buone ragioni per diffidare della libertà americana senza per questo lasciarsi conquistare dalla “nuova” libertà talebana. D’altra parte, dubitiamo che a qualcuno degli attori in gioco importi realmente qualcosa di quello che gli afghani e le afghane vogliono. Ben più rilevanti sono le esigenze di un capitale alle prese con ristrutturazioni post-pandemiche, transizioni “verdi” e annesse scarsità di materie prime, gli spettri di un gigantesco crac immobiliare in Cina, ma che soprattutto deve fare i conti con la crisi di quello che ritiene essere il suo ordine globale di proprietà. La necessità di puntellarlo di nodi di autorità val bene allora la Sharia talebana, specie se la ricostituzione di forme spietate di patriarcato si combina con la dichiarata apertura agli investimenti stranieri. Per passare dall’umanitarismo all’autoritarismo il neoliberalismo non deve d’altronde ricorrere alla fantasia, ma semplicemente ripassare la sua storia di merci, monete e sangue.
D’altra parte, lo spirito “collaborativo” con cui i talebani hanno inaugurato la presa del potere non dispiace neanche a Occidente, dove lo sdegno di rito per il “barbaro pregiudizio” riservato alle donne afghane non vale per le donne che, pur vivendo in condizioni di oppressione del tutto simili, sfortunatamente risiedono in paesi alleati dell’Occidente preoccupato e progressista. E in fondo, di fronte alla promessa talebana di sigillare i confini alla popolazione in fuga, l’Unione Europea ha tirato un sospiro di sollievo. Nelle capitali europee sanno bene che un’altra crisi dei migranti come quella siriana può essere scongiurata solo grazie alla fermezza dei talebani al potere, i quali hanno avuto anche il merito di mettere a nudo la nuova logica dell’ordine globale post-pandemico. Niente più diritti umani da far rispettare, né democrazie da esportare, ma un modello “cinese” delle relazioni internazionali per cui ciascuno si gestisce casa sua, perché apparentemente il solo universale possibile a questo mondo è il mercato, costituzione materiale degli altrettanto universali diritti del capitale. Uno spazio globale liscio e omogeneo così come partorito dalla prima fantasia logistica del capitale non è invece più possibile. Per far fronte alle fratture e alle crisi, il globale deve ripiegare su se stesso e riarticolarsi volta per volta sul piano nazionale: un cambio di rotta necessario in primo luogo per tenere a bada i movimenti transnazionali di uomini e donne che ostinatamente sfidano i confini e le imposizioni degli Stati. L’aeroporto di Kabul, perfino nei giorni dopo l’attentato, ha sotto questo aspetto un significato incontrovertibile. La libertà di movimento che sfida il terrore e la morte per sottrarsi a sfruttamento e Sharia, alla fame, alla guerra o agli effetti del cambiamento climatico è non solo un potente fattore di trasformazione in circolo per il mondo, ma il segno di una crisi duratura e trascritta nella genetica del mercato. È una pretesa di libertà senza confini che l’ordine globale tenta con alterne fortune di regolare. È una pretesa che va ben al di là di qualsivoglia corridoio più o meno umanitario che obbedisce a una logica selettiva non dissimile da quella che orienta le politiche migratorie dell’UE, che proprio nelle ultime settimane ha cercato sponde in Iran, Pakistan e Turchia per fermare i profughi afgani. È infine una pretesa che risuona nei movimenti delle donne. Non solo di quelle afgane che vogliono sfuggire alla schiavitù, alla violenza e alla morte, ma di tutte le donne che in ogni parte del globo stanno lottando contro governi che, complice la pandemia, vorrebbero obbligarle nelle gerarchie sociali che esse stesse quotidianamente sfidano.
Per farla finita con le ripetizioni di settembre
Occorre allora prendere sul serio le crisi del neoliberalismo e dell’ordine globale in cui Stato e capitale sembravano poter cooperare senza imprevisti e intralci. E occorre farlo perché quest’ordine in crisi di fronte ai movimenti transnazionali reagisce accumulando e dispensando riserve di autorità da investire sul piano nazionale. Questo è vero tanto che si tratti di integralisti del Corano quanto di oltranzisti del vangelo europeista del capitale. Perché, anche al di là dei numeri della sua maggioranza o degli indici di popolarità, non c’è dubbio che l’azione del governo Draghi goda di una legittimazione inusuale – alcuni dicono extracostituzionale – oltre che di una dotazione finanziaria adeguata a sorreggerla. Dalla riforma della pubblica amministrazione a quella dell’università, dalla transizione ecologica a quella fiscale e degli ammortizzatori sociali, il governo sta già facendo ricorso a questa riserva, sospinto dai fondi del PNRR, dalla ripresa post-pandemica e dal sostegno incondizionato di Confindustria, sempre più apertamente partito di maggioranza relativa. Non si annunciano svolte epocali, bensì provvedimenti puntuali e dotati di un impianto coerente e ad alta realizzabilità: che si tratti di reclutamento universitario, di impiego pubblico, di reddito di cittadinanza, di green pass o di politiche energetiche, l’obiettivo è quello di annullare ogni spazio di resistenza o quantomeno di rifugio dalla valorizzazione del capitale. Il carattere antipopolare della politica governativa si sta poco per volta palesando, ma non è per nulla scontato che questo tratto smaccatamente industriale dell’esecutivo ne scalfirà la riserva di autorità.
Finora l’assenza di alternative plausibili che ha tenuto a battesimo questo governo ne ha anche assicurato la tenuta sociale. Eppure, la “nostra” marcia dei 40mila attorno all’appello degli operai e delle operaie della GKN ha aperto uno squarcio nella narrazione rassicurante di questo emissario nazionale di un globale europeo che elargisce fondi – e debiti –, nel tentativo di far dimenticare il suo passato austero e piegare alle sue fantasie d’ordine un transnazionale che non si lascia addomesticare. Essa non ha solo rimesso in movimento lavoratrici e lavoratori, studentesse e studenti, attiviste femministe e LGBTQ, ma ha soprattutto creato le condizioni per la condivisione di un punto di vista di parte. Un punto di vista che, mentre è stata ufficialmente aperta la stagione dei licenziamenti e della caccia al lavoratore, esprime un rifiuto soggettivo a quella riserva di autorità di cui Draghi è l’esecutore per delega. Quel rifiuto può stabilire il segno di una sottrazione alla logica del “patto per la crescita” proposto a Confindustria dall’uomo definito della “necessità”, giacché la provvidenza era già impegnata: un patto unilaterale in nome del Pil al 6%, un patto “produttivo e sociale” in cui per scoprire chi dalla produzione guadagna più fatica e chi guadagna più denaro basta guardare le facce in deliquio degli imprenditori in sala. L’economia in corsa necessita di liberarsi di antiche zavorre sindacali e burocratiche, di vecchi arnesi giuslavoristici e welfaristici, e se per la velocità manderà il lavoro al macello poco importa: è il capitale il motore della crescita, il lavoro è un elemento accessorio. La necessità è la faccia globale di un neoliberalismo autoritario che, con forme diverse, sta provando a tenere insieme i frammenti di un ordine sotto pressione.
Le fruste contro i migranti al confine tra Usa e Messico non sono la stessa cosa dei manganelli contro i lavoratori di Alitalia. Ma – come è noto – whatever it takes… Quando l’accordo si rivela impossibile o troppo costoso riemerge l’autoritarismo neoliberale che altrimenti critica i modi brutali dei talebani. Uomini e donne in marcia tra i confini, che sfidano soldati e terroristi all’aeroporto di Kabul o celerini all’aeroporto di Fiumicino, ci danno un’indicazione: la necessità non è un destino, l’autorità non è intoccabile. Ci indicano cioè la possibilità che i movimenti prendano sul serio l’ipotesi di essere l’alternativa che non c’è ancora. Un’alternativa che parta dalla constatazione che la nostra parte è in movimento, ma noi no. Ricongiungerci con la nostra parte richiede di abbandonare le vie usuali dell’attesa dei soggetti di una ricomposizione che suona di volta in volta come una stanca profezia. Richiede anche cautela di fronte a movimenti sospetti, il cui carattere scomposto e spurio rischia di farci dimenticare che non si può colorare di rosso una porta nera. Richiede soprattutto il coraggio di attraversare quella porta stretta che ci conduce al transnazionale non come spazio liscio o istituzionale ma come campo di battaglia dove il capitale si scontra con i movimenti reali. Perché è qui che globale e nazionale si toccano ed è qui che si gioca la partita del presente. Libertà di movimento e rifiuto dell’autorità, rifiuto cioè di sottostare all’ipoteca che il capitale pone sul nostro presente e il nostro futuro: una suggestione di cui anche le piazze ambientaliste sono una voce. Si tratta di indicazioni e suggestioni appunto, ma sufficienti per individuare un piano transnazionale sul quale lotte importanti ma disperse possono confluire per aggredire il nuovo assetto in cui Stato e capitale, nazionale e globale, convivono. Contro la necessità dell’autoritario, la rivendicazione di un altro spazio e di un altro tempo: uno spazio che ci libera dall’attesa e un tempo che ci libera dai confini.