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Dieci anni fa, lo sciopero di Nardò

di MIMMO PERROTTA e DEVI SACCHETTO

Dieci anni fa, il 30 luglio 2011, iniziava lo sciopero dei lavoratori migranti occupati come braccianti nell’area di Nardò (Lecce) [vedi «Quando migrano le lotte» 12345]. Ospitati nella Masseria Boncuri e nelle sue immediate vicinanze, i migranti, tutti uomini originari di diversi Paesi africani, potevano contare sul sostegno delle loro forze e reti sociali, della Onlus Finis Terrae e delle Brigate di solidarietà attiva che gestivano la Masseria e di qualche altro volontario. Lo sciopero non fu certo una rivolta, come qualche intellettuale ama ricordare, ma piuttosto un momento di organizzazione dei lavoratori, che cercava di superare le fratture linguistiche, di colore della pelle, di nazionalità. Durò circa due settimane, durante le quali non mancarono i tentativi né dei caporali di rompere il fronte né della Cgil locale di fare propria l’iniziativa. Pur con i suoi limiti, lo sciopero di Nardò fu un tentativo di autorganizzazione dei lavoratori migranti occupati nelle campagne dell’Italia meridionale, che sembrò segnare un passo avanti rispetto a quanto accaduto a Rosarno un anno e mezzo prima, nel gennaio 2010. Si trattò di un momento importante non solo perché, dopo pochi giorni dalla sua conclusione, il 13 agosto 2011, l’allora governo Berlusconi approvò un decreto (n. 138) che introdusse all’articolo 12 il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, che sarebbe stato la base per la “lotta al caporalato” da parte di istituzioni, magistratura e forze dell’ordine negli anni successivi. Ma anche perché quello sciopero accese molte speranze: nei mesi e negli anni seguenti moltissime iniziative sono state intraprese per costruire sia filiere agricole mutualistiche e sostenibili sia forme organizzative che potessero sostenere i lavoratori agricoli nelle loro mobilitazioni per spuntare migliori condizioni lavorative e abitative.

Questi sforzi non sembrano in grado, almeno per il momento, di destrutturare il sistema complessivo su cui si basa la produzione agricola nell’Italia meridionale. Piuttosto, alcune peculiarità si sono diffuse anche in ampie aree dell’Italia settentrionale e in diversi settori produttivi. A dieci anni da quello sciopero, è necessario chiedersi perché le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti migranti occupati nelle raccolte sembrano essere addirittura peggiorate. È utile, a questo proposito, fare un paragone con il settore della logistica, nel quale – soprattutto nella Pianura Padana – in questi dieci anni abbiamo assistito a un intenso ciclo di lotte, di cui sono stati protagonisti soprattutto lavoratori migranti, che hanno invece ottenuto importanti miglioramenti nei salari, nelle condizioni di lavoro, nell’organizzazione sindacale. Proprio nell’estate 2011 si verificarono due delle prime e più importanti vertenze in quel settore, nella filiale di Piacenza di Tnt, all’epoca il più grande corriere privato in Italia (oggi proprietà di Fedex), e nel polo logistico di Pioltello (Milano) della catena di supermercati Esselunga.

Proviamo qui a individuare alcuni elementi che ci paiono importanti per comprendere le diverse traiettorie delle lotte sul lavoro nell’agricoltura dell’Italia meridionale e nella logistica dell’Italia settentrionale.

Innanzitutto è differente la composizione della forza lavoro migrante. Nell’agricoltura, accanto a migranti da lungo tempo presenti in Italia, troviamo prevalentemente persone arrivate recentemente, senza documenti, con permessi di soggiorno di breve periodo, o stagionali comunitari, caratterizzati dalla relativa scarsa stabilità sul territorio, anche per via della stagionalità del lavoro. Si tratta di migranti il cui obiettivo principale è smarcarsi dal settore agricolo e dalle aree rurali per cercare un’occupazione in altri settori e in aree dell’Italia centro-settentrionale dove sperano di spuntare migliori condizioni. Sovente essi percepiscono la loro situazione come fortemente fluida e sono quindi relativamente poco interessati al miglioramento delle condizioni di lavoro. Nella logistica dell’Italia settentrionale lavorano invece soprattutto migranti presenti da anni sul territorio, con la carta di soggiorno, permessi di soggiorno di più lungo periodo, o la cittadinanza italiana: questi lavoratori, che non hanno, nella maggior parte dei casi, prospettive o progetti di ulteriore mobilità, sono stati protagonisti del ciclo decennale delle lotte che mirava a migliorare le loro condizioni di lavoro. Negli ultimi anni, però, anche nella logistica sono confluiti migranti iper-precarizzati, spesso fuoriusciti dai centri di accoglienza per richiedenti asilo (o dal settore agricolo, appunto), e questo ha creato frizioni e sta modificando profondamente anche i rapporti di lavoro tra gli stessi migranti, oltre che all’interno delle organizzazioni sindacali di base che hanno in larga misura sostenuto questo ciclo di lotte.
Un secondo elemento è il diverso rapporto tra lavoratori e aziende, nonostante le forme di intermediazione del lavoro siano simili. Nella logistica si ritrovano grandi concentrazioni di lavoratori dentro magazzini e poli logistici, che svolgono una mansione simile e, nonostante siano occupati in subappalto con cooperative e altre forme societarie, hanno un datore di lavoro principale molto riconoscibile (ad esempio, Fedex, Gls, Dhl, Sda, Amazon). Al contrario, in agricoltura le squadre di lavoratori sono costituite al massimo da 30-40 membri, ma molto più spesso si tratta di gruppi che non superano la decina. Nonostante l’azienda agricola sia di solito riconoscibile anche quando si è assunti attraverso un caporale, i lavoratori sono solitamente occupati da più aziende durante la stagione, magari pochi giorni per ogni agricoltore. Inoltre, le aziende agricole sono a loro volta subalterne in catene del valore guidate da soggetti più potenti (grande distribuzione, industrie di trasformazione, commercianti), che però spesso non sono riconoscibili dai lavoratori per delle eventuali vertenze. Durante le stagioni di raccolta, i lavoratori migranti si ritrovano invece in gran numero nei “ghetti”: negli ultimi anni sono stati molti i tentativi di sostenere forme di autoorganizzazione in questi insediamenti, ma ci si è scontrati direttamente con le strutture gerarchiche e comunitarie create dai caporali per l’organizzazione del lavoro e della vita quotidiana.

Un terzo elemento è proprio il diverso rapporto tra lavoratori migranti e territorio. Mentre gli operai della logistica della Pianura Padana vivono in abitazioni situate nelle città e nei comuni, sviluppando rapporti sociali con altri migranti relativamente stabili nel territorio, nell’agricoltura meridionale i braccianti vivono per lo più separati dai cittadini autoctoni, appunto in ghetti o centri di accoglienza, in forme di vera e propria “segregazione”, dovute anche alla stagionalità del lavoro, che rende difficile la creazione di legami stabili. La questione abitativa per i braccianti è centrale: non è un caso che Soumaila Sacko, attivista sindacale della Piana di Gioia Tauro in Calabria, sia stato ucciso nel giugno 2018 mentre aiutava dei compagni a recuperare lamiere per costruire baracche di fortuna. Una delle chiavi dello sciopero di Nardò fu proprio l’accoglienza abitativa dei braccianti alla Masseria Boncuri, dove erano presenti associazioni di “italiani” con una forte sensibilità politica, mentre i caporali risiedevano in larga misura all’esterno. I ghetti oggi sono sempre più isolati e il prezioso intervento dell’associazionismo rimane sovente finalizzato ad alleviare le durissime condizioni di vita, mentre le forme di organizzazione sindacale che hanno cercato di intervenire non paiono in grado di scardinare la gestione del lavoro migrante da parte del caporalato. Vero è che in alcuni casi anche i migranti occupati nella logistica del centro-nord sono ormai alloggiati all’interno di centri per rifugiati: un modo come un altro per abbassare il costo della loro riproduzione.
Un quarto elemento riguarda le forme di lotta. Nella logistica, lo sciopero e il picchetto colpiscono direttamente l’azienda principale, attraverso il blocco del processo di valorizzazione, fermando il transito di tir e furgoncini. Nell’agricoltura invece non sono state individuate forme di lotta che incidano a fondo sulla produzione di valore, anche perché l’eventuale sciopero colpisce solo alcune aziende agricole, mentre i trasformatori e la Gdo possono rifornirsi da altre aziende, anche in altri territori. Come ha mostrato il blocco della Princes, la più grande industria di trasformazione del pomodoro d’Italia, organizzato a Foggia nell’agosto 2016 con il coinvolgimento di centinaia di braccianti, riuscire a trasportare in agricoltura le forme di lotta della logistica può pagare, ma è difficilmente replicabile.

Infine, i risultati delle lotte in agricoltura e nella logistica sono stati profondamente differenti. Nella logistica, anni di vertenze, lotte congiunte tra i diversi stabilimenti di una stessa multinazionale, scioperi generali, coordinamento tra diversi sindacati di base, hanno ottenuto sensibili miglioramenti nelle condizioni di lavoro, e questo nonostante la pesante repressione operata sia dalle forze dell’ordine sia da squadracce spesso assoldate dalle aziende. Non va dimenticata l’uccisione di due attivisti sindacali durante i picchetti: Abd Elsalam Ahmed Eldanf nel settembre 2016 alla Gls di Piacenza e Adil Belakhdim nel giugno 2021 davanti a un magazzino Lidl a Biandrate (Novara). In agricoltura, invece, le mobilitazioni hanno portato soprattutto a modifiche legislative (il decreto del 2011, la legge 199/2016), che hanno spostato la battaglia contro il caporalato soltanto sul piano penale e non su quello delle politiche attive per il lavoro. Contemporaneamente, la retorica “umanitaria” con cui le amministrazioni hanno rappresentato lo sfruttamento del lavoro bracciantile ha portato alla creazione di centri di accoglienza stagionali in molte aree di raccolta, senza effetti concreti sull’organizzazione del lavoro, mentre molti insediamenti informali sono stati sgomberati, spesso con violenza e con conseguenze drammatiche.

In generale, è da notare come nei media i facchini in lotta e i loro sindacati di base siano rappresentati spesso come violenti e facinorosi, mentre i braccianti sfruttati del Sud siano solitamente descritti come vittime da salvare, negando quindi la possibilità che essi diventino soggetti attivi.

Tuttavia, i braccianti migranti hanno già mostrato varie volte la loro volontà di azione collettiva. Quindi, se è probabilmente impossibile replicare in agricoltura le forme di lotta della logistica, è necessario tuttavia continuare a costruire – assieme ai lavoratori migranti – le forme di organizzazione, lotta, coordinamento e intervento sul territorio più adeguate alla situazione dell’agricoltura nelle campagne italiane.

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