Un normalista normale, ordinario professore dell’Università di Trento, è stato molto infastidito dal discorso pronunciato il giorno della consegna dei diplomi da tre studentesse della Scuola Normale Superiore di Pisa. Sentendo il suo mondo vacillare, ha consegnato le sue riflessioni al Post in modo che tutti sappiano come stanno veramente le cose. Le normaliste anormali – o, se anormali suona male, diciamo quanto meno anomale – hanno denunciato la complicità della Scuola nella trasformazione neoliberale dell’Università e questo, per lui, non è normale. Come possono rivoltarsi contro le logiche dell’élite di cui, si suppone, dovrebbero invece sentirsi parte in virtù dei propri studi eccezionali? Hanno giocato a un gioco di cui conoscevano le regole, ora non possono mica metterle in questione. Non hanno crediti da reclamare.
Invece, il normalista normale ne ha eccome di crediti da reclamare. Deve molto alla Scuola Normale, che già a vent’anni lo ha fatto sentire eccellente, fuori dal comune, unico e lontano dai mediocri. Per questo, è spiazzato dalla critica anomala delle tre studentesse, colto da un fastidio che vuole spiegare «anzitutto a se stesso», come nelle pagine di un diario personale, al quale spesso, come si sa, sono destinate le confidenze più ripugnanti e le antipatie più indicibili. L’ordinario normalista rivela così un fastidio per se stesso, per il professore che deve trascorrere ore in aula con quei «più giovani» che dovrebbero tacere di fronte agli aspetti di quella vita associata di cui non hanno «sufficiente esperienza». Perciò, che le tre studentesse siano normalissime eccellenze non basta a rendere il loro gesto ammissibile. Hanno pur sempre vent’anni! E tuttavia, il loro discorso sembra cogliere il punto, visto che gli studenti e le studentesse dell’ordinario professore sono, nelle sue parole, fruitori di un servizio al pari di chi fa rifornimento alla pompa di benzina: mi fa 12 crediti di Dante per cortesia?
A differenza di queste anomale studentesse, che secondo il normalissimo sconterebbero un’incapacità naturale, benché temporanea, per via della loro giovane età, il giovane normalista sapeva già che cosa l’aspettava varcando la soglia del magnifico Istituto. A meno che la formazione d’élite che egli rivendica non sia talmente eccezionale da scalzare la logica, ci viene il sospetto che l’ordinario professore sia a corto di argomenti.
Leggendolo ci si accorge che il nostro normalista normale ripete a capra tutti i luoghi comuni di quelli convinti di essere l’élite, i migliori, i prescelti. La sua insofferenza verso la critica gli fa però dire che il discorso delle normaliste anomale è una «lezione ripetuta a pappagallo». Parlano di un’università neoliberale, ma non bisognerebbe ricorrere alle «grandi teorie macroeconomiche», per parlare dei difetti del presente. Bisognerebbe invece «riflettere sugli ordinamenti, i regolamenti, i concorsi, i finanziamenti», dimostrando così una competenza specifica, senza criticare il discorso del merito e della competenza. Al massimo si potrebbe riflettere, «sulle leggerezze commesse anche da parte di coloro che oggi tuonano contro l’ordine neoliberista», che è il modo più stantio di delegittimare chi osa criticare, incolpandolo di essere comunque corresponsabile dello stato delle cose presenti. Ci sono, è vero, spregevoli professori impegnati, ma in quanto tali sono «vanesi»! Non certo modesti come lui, che già in tenera età pensava «di essere meglio degli altri», o «almeno un po’».
Ma cosa ha davvero turbato i sogni di mezza estate del normalissimo? Tanto per cominciare, il fatto che le studentesse abbiano sostenuto che per loro il neoliberalismo non è affatto una grande teoria macroeconomica, ma un programma politico. Mentre il normalista normale rifletteva sui regolamenti, questo programma ha investito anche l’Università prescrivendo alla ricerca e alla formazione la loro finalità, orientandole al profitto, decretandone il valore in ragione esclusiva della loro capacità di riprodurre l’ordine sociale dell’impresa. Le normaliste anomale hanno riconosciuto e dichiarato, di fronte a una platea sorpresa per la loro audacia, che mentre riduce la cooperazione a competizione e condanna chi studia alla gabbia dell’individualismo prestazionale, il programma neoliberale legittima le gerarchie come un fatto incontestabile, a partire da quelle sessuali. Persino il normalista normale sa che è vero, perché anche ai suoi tempi, si ricorda, le donne incontravano maggiori difficoltà, «specie nella classe di Lettere». Lo shock momentaneo dettato dall’esistenza di una divisione sessuale del lavoro intellettuale lascia però subito spazio al vecchio rassicurante adagio, quello che da sempre pacifica il sonno di tante e tanti come lui: sono le regole del gioco. È tutto normale.
Che tutto è sempre “normale”, l’ordinario normalista ha dovuto ripeterselo molte volte. Dai ricordi dei suoi anni alla Scuola Normale traspare il fastidio verso chi non è disposto a sottostare alle regole del gioco, a soffrire quanto lui, a sopportare per restare a galla nel mare delle Competenze, della Competizione, dell’Adattabilità e del Sacrificio. Che adesso tre normaliste anomale gli facciano balenare il dubbio che non era necessario sopportare tutto in silenzio gli pare francamente insopportabile. Per far tacere questo dubbio, dall’alto della ordinaria cattedra dà lezione di maturo realismo, decretando con impareggiabile sagacia che «l’università italiana è in difficoltà da decenni soprattutto a causa di problemi oggettivi di difficilissima e forse impossibile soluzione».
È chiaro allora che l’intento della sua infastidita replica sia quello di stabilire che tutto è come deve essere, e chi osa prendere parola per indicare una diversa possibilità semplicemente non sa quello che dice. Figurarsi poi se a parlare sono tre giovani e per di più donne! Tanta anormalità tutta d’un botto è difficile da reggere! Il normalista normale vive in realtà in un mondo semplice e regolamentato e non può mandar giù la critica. Lui che è fan della complessità è infastidito dal banale «passe-partout dell’ordine neoliberista», ma senza accorgersene è irrimediabilmente irritato dal fatto che a contestare e criticare la sua normalità siano tre giovani, intellettuali e donne che osano sfidare le regole del gioco, reagendo in maniera imprevista all’«infame» e «americanissimo» modello del Rate My Professor! Questo per lui è troppo complicato.
In una straordinaria difesa della normalità, di fronte alla pretesa delle studentesse – condivisa da molti altri e altre con loro – di avere una voce in capitolo nella determinazione di ciò che l’Università potrebbe essere, il professore passa dal rimprovero paternalistico all’ingiunzione patriarcale. Accecato o meno dal fastidio, l’ordinario normalista la sua posizione l’ha presa.
Invocando una cooperazione tra chi lavora e studia nell’Università e una chiara presa di posizione dei docenti, anche le studentesse e gli studenti hanno preso la loro, scegliendo di contestare apertamente quella normalità che lui tanto difende.