→ vedi anche Frammenti di welfare #1: formare al lavoro nei piani di ripresa post-pandemica
La Commissione Europea, da sempre sedicente paladina nella lotta contro le discriminazioni, ha recentemente rimproverato all’Italia il blocco dei licenziamenti, che «discrimina» ingiustamente tra lavoratori dipendenti e precari. Non sarebbe quindi più rinviabile, per la Commissione, il momento in cui far saltare questo fastidioso intralcio al processo di ristrutturazione delle economie europee che dovrà accadere, con una facile battuta, whatever it takes. La stagionata retorica che schiera i «garantiti» contro i precari sembra non passare mai di moda. A poco serve notare che in verità il blocco dei licenziamenti non ha affatto impedito un’enorme perdita di posti di lavoro, in special modo per donne e precari, e così il salvataggio dei profitti dal crollo della domanda, perché prioritario è rimuovere ogni ostinato tentativo di resistenza da parte di lavoratrici e lavoratori alla precarietà come destino.
Lo stesso sentimento di giustizia della Commissione anima evidentemente anche il nostro premier che, a spron battuto e a colpi di decreti-legge, si impegna nel dare nuova forma al mercato del lavoro post-pandemico. E così, vediamo fare capolino nel Decreto Sostegni bis l’innovativo «contratto di rioccupazione»: un contratto di lavoro subordinato indeterminato ma con i primi sei mesi ‘di prova’, al termine dei quali le due parti possono decidere se continuare con un regolare contratto a tempo indeterminato o recedere. Il datore di lavoro beneficia per i sei mesi di prova di uno sgravio contributivo totale sui versamenti INPS (che deve poi restituire nel caso decida di non assumere) mentre al lavoratore spetta un non meglio precisato «piano formativo individuale». In continuità con lo spirito del PNRR e con le direttive europee, diventa centrale la coazione alla formazione come mezzo per governare le competenze e il sapere della forza-lavoro e attorno al quale ricostruire il nesso tra lavoro e prestazioni sociali. Il messaggio politico mandato ai lavoratori è comunque ormai chiaro e conosciuto: se non lavorate è per la carenza della vostra formazione, quindi è una vostra mancanza che deve essere necessariamente e obbligatoriamente colmata. Poco importa se poi la formazione impartita sia il più delle volte inutile, quando non è parte dell’ormai fiorente industria della formazione continua al lavoro.
Non tutti possono accedere al ‘privilegio’ di firmare un «contratto di rioccupazione». Va detto, in primo luogo, che saranno esclusi i settori del lavoro domestico e di quello agricolo, ovvero settori largamente basati sul lavoro migrante e così tanto essenziali che durante la pandemia è stata promossa una sanatoria ad hoc per garantire la presenza della forza lavoro necessaria a portarli avanti. Ma si tratta, evidentemente, di settori nei quali l’arbitrio padronale e il ricatto del permesso di soggiorno devono regnare incontrastati al di là di qualsiasi orizzonte di regolazione, e non è un caso che la stessa sanatoria sia stata niente più che una farsa. In secondo luogo, la mano che potrà firmare un «contratto di rioccupazione» deve essere attaccata al corpo di un disoccupato: non di una qualsiasi lavoratrice precaria o di un giovane ancora inoccupato, ma soltanto di chi ha già firmato un accordo con lo Stato impegnandosi a trovare presto un lavoro. Riassorbire la sacca di sussidiati causata dalla pandemia – anche se magari per solo sei mesi – non risponde solo all’imperativo di riportare la spesa pubblica ai livelli pre-pandemici, ma si pone in linea con i target occupazionali europei che hanno fissato la soglia ‘costituzionale’ di disoccupazione. D’altronde, che qualcuno possa prendere qualche quattrino senza lavorare ha già causato troppe notti insonni ai confindustriali. Certo, la condizione per accedere allo sgravio contributivo è che l’azienda non abbia licenziato per motivi oggettivi nei sei mesi precedenti all’interno della stessa unità produttiva, e che non licenzi nei sei mesi successivi lavoratori con lo stesso livello di inquadramento contrattuale. In prima battuta, la misura sembra allora essere pensata non tanto per aiutare aziende in crisi, ma come premio semmai alle aziende che dalla pandemia magari ci hanno pure guadagnato. In seconda battuta, va notato che sarà del tutto ammissibile assumere lavoratori con un livello di inquadramento inferiore rispetto ai lavoratori che si intende poi licenziare, sostituendo insomma la manodopera con quella a costo più basso.
A ben guardare, se la logica del contratto di rioccupazione appare formalmente consona al vecchio contratto di apprendistato targato Jobs Act – in fondo si scambiano ancora, sotto l’arbitrato dello Stato, sgravi contributivi e la formazione necessaria alla congiuntura economica – a rappresentare però una significativa novità è l’estensione data dalla rimozione dei limiti di età e della soglia del 20% di obbligo di assunzione. In una parola: nell’Italia post pandemica non si è mai troppo vecchi per mettersi in gioco e farsi sfruttare! Bisogna che quest’anno tutti tornino al lavoro in un modo e nell’altro e saltino quei vincoli che assicuravano una minima quota di conversioni in contratti a tempo indeterminato. Quale migliore formazione al lavoro si può immaginare se non quella di accettare a qualsiasi età un salario misero, un azzeramento della propria esperienza e un futuro assolutamente incerto? Insomma, la rioccupazione sembra incidere su processi avviati già in piena pandemia: ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro e ulteriore concentrazione di capitale a favore delle imprese forti. Tra tanta professione di unità nazionale, confuse pianificazioni di riprese e resilienze, appare chiaro che si stiano rinnovando gli strumenti di sfruttamento, in particolare di donne, migranti e operai, sì, ma che nessuno e nessuna si senta escluso!