domenica , 22 Dicembre 2024

La Colombia nelle strade: dalla paura alla rivolta

di JUAN SEBASTIÁN SANTOYO e LAURA FERNANDA GOEZ

Dal 28 aprile la Colombia si è sollevata con uno sciopero nazionale – il Paro Nacional – che non accenna ad arrestarsi. Il presidente Ivan Duque aveva proposto una riforma fiscale e una serie di interventi sul piano sanitario e pensionistico di stampo ultraneoliberale, facendo gravare il peso delle imposte prevalentemente sulle classi popolari e sulla classe media, aumentando il prezzo dei beni di prima necessità, privatizzando servizi e ospedali pubblici. La risposta a queste riforme, in un paese dove il tasso di povertà dopo la crisi pandemica è salito al 42% e in cui ci sono stati 60mila morti per Covid-19, è stata un’enorme sollevazione sociale che ha bloccato tutte le regioni colombiane. Lo sciopero ha avuto una partecipazione estremamente eterogenea – precari, disoccupati, donne, campesinos, indigeni, neri, migranti, giovani, lavoratori informali – e un’organizzazione che ha scalzato il monopolio sindacale e ha prodotto nuove forme organizzative, come il Comitato del Paro Nacional, che mira a portare le voci dei protagonisti della mobilitazione nelle trattative con il governo, in un processo di mediazione rivelatosi – come si mostra nell’articolo – complesso e conflittuale. Facendo leva sulla potenza che lo strumento dello sciopero sociale ha già ampiamente dimostrato a livello globale con il movimento femminista, il Paro Nacional sta riuscendo a connettere lotte e posizioni differenti, ad attivare nuove forme di azione collettiva in maniera inedita nel paese. L’ampiezza e la forza di questa sollevazione di massa hanno prodotto una repressione e una violenza poliziesca e paramilitare inaudita, che ha provocato un altissimo numero di morti, feriti, desaparecidos, abusi e violenza sessuali, fosse comuni e centri clandestini di detenzione. Nonostante la brutalità della risposta del governo, le mobilitazioni continuano al grido «el paro no para» (lo sciopero non si ferma). La determinazione di questa lotta ha portato al ritiro della riforma fiscale, alle dimissioni del ministro delle Finanze Carrasquilla, al blocco della riforma della Salute e alle dimissioni dell’Alto Commissario per la Pace. Ciononostante, la rivolta non si è fermata e anzi la partecipazione continua a crescere, grazie all’inestinguibile volontà di mettere fine al governo neoliberale di Duque, alla violenza dell’Esmad (Squadroni mobili antidisordine) e delle forze paramilitari e del narcotraffico, alla violenza patriarcale e razzista, ai tagli alle politiche sociali, all’educazione e alla sanità. Di fronte alla paura seminata dalla sistematica brutalità del governo, le donne e gli uomini colombiani hanno risposto con la forza collettiva prodotta da uno sciopero che sta dando luogo a nuovi processi organizzativi capillari e che sta permettendo di sfidare e minare un sistema neoliberale e autoritario che ha fatto della violenza sociale lo strumento della sua tenuta.

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Dal 21 novembre 2019, la Colombia sta attraversando un processo senza precedenti nella sua storia, che si è prodotto nel corso di molti decenni, ma che, dall’inizio del governo di Iván Duque nell’agosto 2018, sta raggiungendo il suo apice. Le mobilitazioni sociali e le loro molteplici espressioni costituiscono esplosioni popolari che si stanno dispiegando in tutto il territorio nazionale. La forza di queste manifestazioni in termini di scontro con la forza pubblica, come l’emergere di nuove forme di azione collettiva, sta proprio nel proliferare di proteste diverse, disperse e autonome. Le piazze sono stracolme in ogni regione, comune, città o quartiere con messaggi chiari: l’opposizione frontale alle politiche neoliberali dell’attuale governo, il rifiuto della violenza e della repressione della polizia e dell’ESMAD (squadre mobili anti-disordine), così come la rivendicazione storica dell’eguaglianza sociale e della pace.

Questo articolo intende analizzare la situazione di crisi sociale che la Colombia sta attraversando ed esporre alcune delle ragioni che hanno portato una parte importante del popolo colombiano a manifestare nelle strade contro il governo di Iván Duque. Oggi, due anni dopo il 21N, risulta evidente che la pandemia ha esacerbato la rabbia e l’indignazione di un popolo che, dal 28 aprile 2021, è tornato nelle strade nel quadro dello «Paro Nacional», lo Sciopero Nazionale, indetto tanto da sindacati come la Confederacion General del Trabajo (CGT), la Federación Colombiana de Educadores, FECODE, la Central Unitaria de los Trabajadores (CUT), quanto da movimenti contadini, indigeni e afrodiscendenti, movimenti LGBTIQ+, tra gli altri.

Proponiamo di delineare l’attuale panorama di crisi a partire dall’identificazione di diversi «punti di svolta», cioè questioni che convogliano tensioni di ordine storico e nazionale. Proprio dalle tensioni strutturali, storiche e circostanziali possiamo rintracciare le molteplici variabili che hanno portato la società colombiana dall’indignazione alla rabbia disperata.

La crisi della rappresentanza

Il primo punto di svolta è la crisi della democrazia rappresentativa. La sconnessione del popolo colombiano con la sfera politica, finanziaria o militare, cioè con le strutture del potere, è profonda. Questo divario, in termini economici, separa e oppone i suoi estremi, perché pochi occupano spazi privilegiati e hanno grottescamente molto più potere d’acquisto, più istruzione, opportunità, sostegni, aspettative e garanzie della maggioranza della popolazione. Le classi medie e basse sono quelle che più soffrono delle condizioni di vita in cui versano e della mancanza di opportunità. Esse sono le prime a essere colpite dalle politiche neoliberali, come la riforma fiscale e quella sanitaria promosse da Duque, che hanno fatto esplodere in questi ultimi mesi la mobilitazione popolare. In questo senso, le manifestazioni attuali rifiutano e protestano proprio contro la disuguaglianza e l’elitismo prodotti nel corso di molti anni, ma acuite fortemente da questo governo. Un elemento che accresce questo malcontento è la corruzione che invade e permea tutte le sfere della società e del potere. Molte delle decisioni prese dal governo di Iván Duque hanno alimentato l’indignazione e la sfiducia dell’opinione pubblica: l’eccessivo acquisto di armamenti per l’ESMAD; la decisione di finanziare la compagnia aerea privata Avianca e non quelle nazionali; l’aumento dello stipendio dei deputati di 1.676.000 pesos mentre il salario minimo dei lavoratori è aumentato di soli 30 mila pesos tra il 2020 e il 2021; l’utilizzo di fondi europei diretti all’attuazione dell’accordo di pace (2016) per migliorare la sua immagine presidenziale; la profilazione dei giornalisti e degli influencer per classificarli come amici o nemici del governo, sono alcune delle scelte politiche e delle pratiche corrotte che il popolo colombiano ha osservato  e rifiutato durante la pandemia. Con l’aggravarsi della crisi di rappresentanza, il conflitto armato in Colombia si è intensificato in tutto il territorio e gli scandali che collegano il governo con il narcotraffico sono aumentati dopo la scoperta di un laboratorio per la produzione di cocaina nella proprietà privata dell’ambasciatore Sanclemente o l’acquisto di voti sulla costa atlantica per mano di un trafficante di droga come il «ñeñe» Hernandez che ha fatto vincere Iván Duque al secondo turno. Questa situazione ha aumentato la sfiducia dei cittadini, che si riflette nei sondaggi: la disapprovazione del presidente Iván Duque è al 76%.

Tuttavia, non si può dire che la crisi della rappresentanza sia limitata agli organi di governo. «I rappresentanti dello sciopero non ci rappresentano» gridano in strada molti giovani colombiani che non si sentono rappresentati dai dirigenti del Comitato dello sciopero che stanno negoziando un accordo con il governo. In effetti, il fatto che il Comitato dello sciopero non rappresenti più i sentimenti e i bisogni della gente che è in strada, in «prima linea», aumenta l’incertezza della direzione di queste insurrezioni e mette a rischio la vita di un numero sempre maggiore di giovani. Questa crisi della democrazia rappresentativa è dovuta anche alla mancanza di una leadership nuova, chiara e differente; questo vuoto rappresenta una prima chiave per leggere l’insoddisfazione e quindi l’insurrezione nelle strade.

I media come apparati ideologici dello Stato

Durante le manifestazioni, in diverse città della Colombia, sono stati sparati molti colpi di pistola contro i manifestanti dello Sciopero Nazionale da parte della polizia e di cittadini armati non identificati. Questo grave fenomeno è in parte il risultato del discorso egemonico, che sembra riproporre, fuori tempo massimo, un’assurda retorica ereditata dalla guerra fredda e riprodotta dai principali media come RCN, «Caracol», «Semana» ed «El Tiempo», tra gli altri: la Colombia sarebbe sull’orlo di una presa di potere socialista da cui nessuno si salverà, tutto sarà espropriato e i principi morali inculcati dalla Chiesa, dai militari e dai valori familiari saranno perseguitati e proibiti. Questa retorica da parte dei leader colombiani e degli ex leader dell’estrema destra è amplificata dai media privati e statali che hanno il pubblico maggiore nel paese. Essi hanno infatti giocato un ruolo fondamentale nel distorcere l’immagine della protesta sociale e nel delegittimarla.

La dottrina del nemico interno è usata per dividere l’opinione pubblica, demonizzare la protesta sociale e incitare la violenza armata di gruppi di cittadini e fazioni paramilitari. In questo senso, le strade colombiane vivono una contraddizione: da un lato, la festa, l’arte, le proteste, il lutto e la resistenza dei manifestanti che animano lo Sciopero Nazionale, dall’altro, civili vestiti di bianco che condividono armi e ricaricano pistole con la polizia, sparando indiscriminatamente sui manifestanti e minacciando la stampa, le squadre HRD3 e APH4 che vigilano sulla sicurezza e sul buon andamento delle manifestazioni.Questo ha portato a una crescente delegittimazione, anche nelle strade, del monopolio dell’informazione e della sua chiara inclinazione a legittimare la violenza del governo e a proteggere i poteri economici del paese. Inoltre, sempre più giornalisti, attivisti, analisti, influencer e ricercatori usano nuove piattaforme e spazi alternativi per condividere la loro analisi e opinione. La moltiplicazione delle fonti di giornalismo investigativo così come la copertura in diretta dalle strade aumentano le fonti dirette di informazione, rafforzano la mobilitazione e provano a muovere le posizioni nell’opinione pubblica. Infatti, possiamo vedere in tempo reale quello che succede nelle strade, denunciare le persone scomparse, riconoscere gli abusi di autorità, il non rispetto dei protocolli da parte della polizia, vedere e sentire testimonianze dirette grazie al moltiplicarsi degli streaming pubblicati su Facebook o Instagram.

Nuovi attori nelle strade, diversificazione dei repertori di azione e ampliamento delle rivendicazioni

Di fronte a queste prime due svolte, è facile immaginare che le mobilitazioni dello Sciopero Nazionale abbiano nuove sfaccettature, metodologie e attori. Il tradizionale corteo organizzato dai sindacati e dalle organizzazioni studentesche è stato messo in ombra dalla massa eterogenea e straripante che pure riesce a produrre unità e determinazione: giovani, lgbtq, donne, perfino famiglie, commercianti, camionisti, l’INPEC (Instituto Nazionale Penitenziario e Carcerario), gruppi di assistenza pre-ospedaliera (APH), lavoratori di strada, tassisti, giovani della «prima linea», madri di giovani della prima linea, persino preti della prima linea danno vita a una nuova esplosione sociale che non rientra del tutto nelle analisi degli esperti. Con queste nuove espressioni continuano a emergere nuove richieste, sia che si tratti di denunciare la disuguaglianza e la mancanza di garanzie per il futuro lavorativo, di esigere l’applicazione degli accordi di pace, di denunciare l’assassinio sistematico di leader sociali, di rifiutare la violenza contro le donne, di rivendicare la protezione dell’ambiente, di protestare per la dignità e la memoria delle comunità indigene, di pretendere la protezione dell’ambiente, o di opporsi ai processi di «uberizzazione» del lavoro, di rifiutare le politiche escludenti e neoliberali come il modello proposto dall’«economia naranja» (industria creativa), o, infine, di pretendere che si faccia luce sui tantissimi desaparecidos, che si sono moltiplicati anche durante lo Sciopero Nazionale. Tutti questi aspetti compongono una nuova polifonia che si alza in mezzo alle proteste.

Di fronte a questo moltiplicarsi di espressioni, il governo colombiano non ha risposto adeguatamente: venerdì 28 maggio, durante la giornata di celebrazione a un mese dall’inizio dello sciopero nazionale, almeno 7 manifestanti sono stati uccisi a Cali e si sono registrate molteplici sparatorie indiscriminate da parte di agenti della Procura Generale. Di fronte a tutto questo, il governo non si è assunto nessuna responsabilità: si è rifiutato di continuare il dialogo con il Comitato di Sciopero e ha optato per un dispiegamento delle forze armate nel paese attraverso il decreto 575 del 2021, mettendo a rischio l’integrità del popolo colombiano. Ciò che è chiaro è che la manovra dello Stato per mantenere il controllo sociale è del tutto arbitraria e basata sulla violenza, e viola sistematicamente i principi della democrazia e tutti gli statuti internazionali dei diritti umani firmati dalla Colombia.

Istituzioni di controllo, controllate

Nel quartiere di La Luna, nella città di Cali, il 28 maggio, durante le mobilitazioni, un funzionario della Procura Generale ha sparato e ucciso dei manifestanti. Non si tratta di un evento isolato ma sistematico. Mostra con chiarezza che in Colombia il Pubblico Ministero non vigila sui diritti dei cittadini, perché è un organo di controllo e supervisione cooptato dal partito al governo.

In effetti, gli organi di controllo come l’ufficio del difensore civico, gli uffici distrettuali e municipali e l’ufficio del procuratore generale non danno prova di obiettività e imparzialità nelle loro azioni o decisioni. Le dichiarazioni del difensore civico che appoggia la militarizzazione delle manifestazioni e il procuratore generale della nazione che vuole smantellare lo sciopero minacciando i camionisti che bloccano le strade con la confisca della proprietà sono alcuni dei recenti segni di repressione dell’insurrezione popolare che si vede nel paese. A peggiorare le cose, il governo di Iván Duque si oppone a qualsiasi accompagnamento da parte della Commissione Interamericana dei Diritti Umani così come delle ONG che svolgono il ruolo di osservatori e garanti del rispetto delle norme nazionali e internazionali del diritto umanitario durante la protesta. In questo senso, non sorprende che la posizione dell’attuale presidente si adatti perfettamente al discorso ideologico dell’ex presidente Álvaro Uribe Vélez il quale, fin dall’inizio del suo mandato nel 2002, si scagliò contro le ONG e le organizzazioni per i diritti umani che denunciavano le violazioni durante il suo governo, etichettandole come mediatrici del terrorismo internazionale che «producevano il collasso sociale della nazione».

La recrudescenza della violenza

Il governo di Iván Duque segue la linea politica dell’uribismo opponendosi all’attuazione dell’accordo di pace firmato nel 2016 tra lo Stato colombiano e le FARC-EP. Dall’inizio dell’attuale governo, abbiamo sperimentato una serie sistematica di massacri e minacce ai leader in tutto il paese e un rafforzamento del paramilitarismo. Questo fenomeno di violenza ha avuto una presenza particolare in alcune città e centri urbani; c’è stato uno spostamento della violenza dalla campagna alla città. Allo stesso modo, l’esercito colombiano ha violato il principio di proporzionalità nel quadro del diritto internazionale umanitario, bombardando minori che erano stati reclutati con la forza da gruppi al margine della legge.

Durante le manifestazioni, ci sono tuttavia civili che agiscono e riproducono un pensiero paramilitare che si è rafforzato soprattutto da quando il discorso dell’attuale partito di governo si è concentrato nel dire che, con la firma dell’accordo di pace, il paese sarebbe stato consegnato alle FARC.

Il fenomeno paramilitare e la sua relazione con le sfere del potere a partire dagli anni ’90, è ormai un avamposto nelle strade e nei centri urbani sostenuto da gruppi di cittadini armati protetti dalla polizia che vigilano, secondo loro, sulla sicurezza dei loro affari e della proprietà privata. Questa posizione incoraggia la discriminazione chiamando i leader indigeni e contadini mobilitati «narco-indiani» e criminalizza il diritto a manifestare, facendone semplicemente un meccanismo socialista per destabilizzare il governo e prendere il potere. In breve, in Colombia, il linguaggio e la violenza egemonica impartita dal governo e dagli apparati ideologici a sua disposizione hanno disumanizzato la protesta e ignorato la grave realtà sociale del paese, contrapponendo i ricchi – capitalisti o narcotrafficanti – alle popolazioni più povere del nostro paese.

La situazione elettorale

In Colombia si parla generalmente di politica e di democrazia ogni quattro anni, alla vigilia delle elezioni. Il sistema che sostiene le élite del paese ha radicato la logica del clientelismo nei settori subalterni e umili, condizionando il voto in cambio della soddisfazione dei bisogni primari come l’accesso alla casa, ai servizi sanitari, all’istruzione e al lavoro. Con il denaro, l’estorsione, le promesse e le pallottole sono state configurate le roccaforti politiche in questo paese.

In questo senso, e di fronte all’ondata incontrollabile di manifestazioni che la Colombia sta vivendo da anni, le elezioni del 2022 giocano un ruolo molto importante in questo sciopero. Il governo di Iván Duque cerca, come ultima risorsa, di presentare il movimento sociale come strategia sovversiva dei partiti di sinistra. I media stanno cercando di responsabilizzare i partiti politici o figure politiche come Gustavo Petro di fronte alla disperazione delle strade: niente di più sbagliato. Perché nelle strade, la disperazione non ha niente da dire né a qualche partito né a qualche messia. Vogliamo dire che nelle proteste si sentono diversi canti e cori di protesta contro un sistema, ma non di sostegno politico a qualcuno. Tuttavia, questo è il discorso del governo che i media diffondono e che le famiglie colombiane che non sono uscite a protestare (per qualsiasi motivo) cominciano a credere: «Quelli che sono nelle strade vogliono imporre il loro candidato», o «il vandalismo è promosso da settori di sinistra».

La questione viene allora spostata sul piano elettorale, poiché la tensione nelle strade non è solo un problema per l’attuale governo ma per la continuità di un sistema politico neoliberale ed elitista che è sempre esistito. La corda è quindi tesa tra la delegittimazione della protesta, facendo della sinistra la responsabile, e la demonizzazione dell’espressione popolare: in effetti, la politica della paura di questi governi cerca di costringere l’elettore a scegliere tra la barbarie di una rivoluzione che dicono essere anarchica e guerrigliera, aizzata da Cuba e dal Venezuela, e la continuità di un progetto nazionale fondato sul cattolicesimo, i suoi valori e le sue disuguaglianze. In ogni caso, non è certo che ci sarà una svolta elettorale nelle elezioni legislative e presidenziali che si stanno avvicinando. In primo luogo, a causa della corruzione politica elettorale che riesce a corrompere chi ha più bisogno di sostegno economico, e in secondo luogo, perché la sfiducia generale dei giovani colombiani verso la politica istituzionale sta crescendo. Vincere la paura nelle strade è l’obiettivo e il fattore di mobilitazione che ha fatto sì che migliaia di persone stiano continuando a scendere in piazza oggi in Colombia.

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