di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM
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Pubblichiamo la prima parte di un doppio intervento sulle trasformazioni e gli scontri che rendono la mobilità e il lavoro migrante un terreno di lotta fondamentale nell’Europa transnazionale. Dopo lo scoppio della pandemia da coronavirus abbiamo sostenuto l’urgenza di approfondire la nostra iniziativa politica transnazionale. Mentre l’attenzione pubblica era concentrata sulle chiusure, abbiamo sottolineato come la pandemia rendesse evidente la centralità del lavoro migrante: tra i lavoratori e le lavoratrici essenziali dei trasporti, della logistica, della cura o dell’agricoltura, la presenza di migranti è molto alta. Non solo: la pandemia ha reso evidente come la mobilità sia un terreno di scontro tra gli Stati con l’obiettivo di governare il lavoro migrante nel tentativo di renderlo più disponibile allo sfruttamento, da una parte, e dall’altra gli uomini e le donne che con la loro mobilità cercano di migliorare le proprie condizioni di vita. In questi mesi, sono nati e si sono allargati diversi percorsi di lotta che hanno cercato di favorire la discussione e la possibilità di organizzazione transnazionale su questi terreni. La rete Essential Autonomous Struggles Transnational (EAST) ha posto al centro le lotte delle donne legate alla riproduzione sociale, sottolineando il ruolo essenziale delle donne migranti. EAST ha costruito uno spazio di discussione e organizzazione che mette in comunicazione in particolare l’Europa Centro-Orientale con la più ampia dimensione transnazionale, che si è fatto promotore di una giornata di mobilitazione femminista per il 1 luglio contro gli attacchi alla Convenzione di Istanbul, partendo dalla Turchia per contrastare l’attuale attacco patriarcale che si fa sentire a livello globale. Il Coordinamento Transnazionale dei Migranti è nato grazie alla comunicazione tra coordinamenti di migranti e sans papier italiani e francesi, ma si è poi allargato a decine di realtà in Europa, Turchia, Marocco e America Latina. Come spazio di discussione e organizzazione capace di unire esperienze di autorganizzazione di migranti, donne, uomini e Lgbtq+, rifugiati, richiedenti asilo e sans-papier e collettivi in loro sostegno, il Coordinamento Transnazionale dei Migranti ha promosso il 1° maggio una giornata di lotta transnazionale dei e delle migranti. L’appello, firmato da decine di collettivi, sottolineava l’importanza di attaccare i l regime europeo dei confini e il ricatto degli Stati sulla pelle dei migranti, rivendicando un permesso di soggiorno Europeo slegato dal lavoro, dal reddito e dalla famiglia. Questo ha favorito un’inedita comunicazione tra diverse realtà di migranti e ha reso visibile la voce dei migranti nelle mobilitazioni del 1° maggio. Le discussioni avviate verso il 1° maggio continuano a sottolineare l’importanza di considerare le lotte dei migranti, comprese quelle contro il regime dei confini europeo, nella loro dimensione transnazionale e di insistere nella connessione tra le lotte contro i confini, le lotte contro lo sfruttamento e quelle contro la violenza patriarcale. Questo primo intervento è dedicato al nuovo patto contro i migranti che è in discussione in UE e allo scontro attorno al sistema dell’asilo. La seconda parte colloca il nuovo patto nel contesto di un mercato del lavoro transnazionale composto dai movimenti dei migranti e dai tentativi di governarli per fare profitti. I due testi vogliono avviare una discussione collettiva sulle poste in gioco delle trasformazioni in atto nell’Europa transnazionale della ricostruzione post-pandemica, per elaborare strumenti per lottare e organizzarsi attraverso i confini.
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La discussione sul nuovo Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo deve confrontarsi con una ripresa dei movimenti delle e dei migranti dopo mesi di calo sul fronte degli arrivi. Il relativo blocco delle frontiere legato alle politiche di contenimento dei contagi viene meno non solo per graduali riaperture degli spostamenti, ma anche per la reazione di massa alle macerie economiche e sociali lasciate dalla pandemia. Benché il patto sia pensato per superare la crisi del sistema d’asilo esplosa in seguito alla tempesta del 2015, l’hotspot di Lampedusa che trabocca di uomini e donne sta lì a ricordare ai pianificatori europei che la loro rincorsa ai movimenti dei migranti è strutturalmente in ritardo. D’altra parte, le immagini di queste settimane di migranti di ogni età respinti dall’esercito spagnolo sulla spiaggia di Ceuta sono una manifestazione plastica della normalizzazione della violenza europea contro i migranti. Ma la continua e al contempo sempre ‘contingente’ pressione delle e dei migranti sui confini europei, così come la rapidità con cui, qualsiasi sia la loro condizione giuridica, saltano da un posto di lavoro a un altro e riescono a organizzarsi nei più disparati luoghi di lavoro e di vita, mostrano l’esistenza di una faglia di scontro che deve essere colta nel suo insieme. Di fronte all’apparente chiusura dei confini, assistiamo infatti a una crescente moltiplicazione e frammentazione degli schemi di governo della mobilità e a un’enorme eterogeneità di condizioni in cui i migranti e le migranti finiscono per trovarsi.
Nel corso degli anni, di fronte al rifiuto da parte dei e delle migranti di sottostare alle politiche dei flussi e di accettare un’integrazione nello sfruttamento, la risposta degli Stati e dell’Unione europea è stata una progressiva riduzione degli spazi per la migrazione regolare, ingabbiandola all’interno di rigidi schemi di reclutamento internazionale. Questo ha dirottato verso il sistema d’asilo una parte sempre più consistente di migranti, con una doppia conseguenza: se, da un lato, uomini e donne hanno continuato a muoversi al di fuori di ogni autorizzazione, dall’altro questo ha spinto i governi europei e la Commissione a una continua attività di invenzione di schemi in grado di legare in modo sempre più efficiente le politiche di accoglienza con quelle di inserimento nel mercato del lavoro. È su questo sfondo che possiamo leggere che cosa si cela dietro l’apparente caos della situazione europea e il ruolo del nuovo Patto sull’immigrazione e l’asilo.
Il Patto si occupa principalmente di asilo poiché questo costituisce oggi il fronte principale dello scontro tra le pretese di libertà dei migranti e il tentativo di indirizzarla entro i canali di una mobilità controllata, ma occorre leggerlo all’interno di un complesso sistema che lega l’Europa transnazionale a numerosi paesi ‘terzi’ formalmente esterni ai suoi confini. In una situazione caratterizzata da un’elevata frammentazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, ampi margini operativi per i singoli Paesi e strategie basate su meri calcoli elettorali, infatti, la Commissione europea tenta di avanzare un disegno comune accompagnato dalla minacciosa promessa, reiterata in questi giorni dalla commissaria Johansson, di «bloccare le partenze».
Il sistema attuale, fondato sul regolamento di Dublino, vincola i paesi di primo arrivo in Europa a farsi carico delle domande d’asilo, e soprattutto blocca i migranti in questi paesi impedendo loro l’ingresso in altri Stati dell’Unione (i cosiddetti «movimenti secondari»). Le politiche migratorie dell’UE sono così attivate sia alle frontiere esterne sia all’interno dello spazio Schengen per impedire la libera mobilità dei migranti ostacolando il loro accesso a una presenza «regolare». A questo si accompagna il ruolo attivo che i governi dei paesi che fanno da corona all’UE, in primis Turchia, Tunisia, Libia e Marocco nel lato meridionale, e Ucraina in quello orientale, svolgono all’interno di questo sistema. L’obiettivo europeo non è quello di bloccare la mobilità, ma di governarla e controllarla. Per farlo è necessario innanzitutto ostacolare nei limiti del possibile l’autonomia di movimento dei e delle migranti. Per questo, concentrandosi sul «consolidare la strategia di prevenzione degli arrivi», il nuovo Patto punta a una riduzione «efficiente» dell’apparente ingovernabilità degli accessi in Europa. Così facendo, il Patto di fatto riconosce l’uso da parte dei migranti del diritto di asilo e lo punisce attraverso l’esternalizzazione dei controlli e lo svuotamento de facto delle procedure di accesso allo status di rifugiato.
Seguendo una logica à la McKinsey, la società di consulenza alla quale fanno ricorso diversi Stati Membri nella gestione dei rifugiati e la stessa Commissione per disegnare il sistema ‘hotspot’, in base al nuovo Patto le procedure di accertamento devono essere guidate da una logistica di efficienza. In primo luogo, esse sono esternalizzate attraverso la costituzione di spazi che, pur essendo interni all’UE, non lo sono formalmente per i migranti, legalizzando così il sistema di respingimenti di massa messo in atto in questi anni. In secondo luogo, viene rafforzata la «nazionalizzazione» del diritto d’asilo attraverso l’uso della categoria di «paese terzo sicuro»: non soltanto la garanzia dell’asilo e della protezione è in capo a uno Stato, ma la stessa possibilità di un suo riconoscimento viene sempre più legata al paese di provenienza. Il marchio della propria nazionalità diventa così un elemento centrale per l’efficienza del sistema e per velocizzare la distinzione tra i migranti economici, da respingere, e i richiedenti asilo a cui concedere, col contagocce, un qualche documento per la permanenza nell’UE. Questo sistema in realtà è piuttosto raffazzonato e funziona in modo solo relativamente standardizzato: se si appartiene a una nazionalità che negli anni precedenti ha avuto pochi riconoscimenti delle domande d’asilo (meno del 20%) le procedure di rigetto vengono accelerate. Di fatto, con un escamotage statistico intere regioni del globo – Africa e Asia in primis – vengono praticamente dichiarate sicure e i migranti arrivati negli scorsi anni o in procinto di arrivare in Europa sono condannati già in partenza all’irregolarità strutturale. Una sorte che già tocca ai migranti provenienti da paesi quali l’Afghanistan, destabilizzati da anni di guerre e la cui sicurezza, sancita dal ritiro delle truppe statunitensi, certifica l’aumento esponenziale di espulsioni e deportazioni. Il patto prevede poi anche alcuni strumenti per far fronte a contingenze impreviste, grazie alla possibilità di «legalizzare» azioni di deroga alla direttiva sull’asilo, sospendendo fino a un mese le procedure di registrazione delle domande. In ogni caso, è dichiarato nullo il carattere individuale del diritto d’asilo, come del resto già avviene di fatto nei respingimenti di massa nel Mediterraneo o lungo i confini orientali dell’Unione.
L’intento evidente è quello di opporre ai movimenti dei migranti e alla loro capacità di forzare in massa le maglie dell’asilo una solidarietà tra Stati, sancita dalla promessa reciproca di chiudere velocemente le pratiche di richiesta di asilo e di contribuire allo sforzo comune dell’espulsione. Di fronte alle tensioni esistenti in seno all’Europa, tra Europa e Commissione e tra UE e paesi confinanti come Turchia o Marocco, il principio che tutti vogliono riaffermare è quello secondo il quale per i migranti non devono esserci spazi di libertà e manovra. Nelle intenzioni europee questo dovrebbe anche aiutare a incrementare il numero delle espulsioni di richiedenti protezione umanitaria già presenti sul territorio, che oggi avvengono anche in paesi tradizionalmente più inclini ad adempiere agli impegni previsti dalle convenzioni internazionali sui rifugiati, quali la Svezia o la Germania, senza più alcuna considerazione per le condizioni effettive di rischio o pericolo dei respinti.
Questa criminale solidarietà tra Stati resta tuttavia per ora a carattere volontario e flessibile, cosa che rende lampante come la questione dell’asilo resti, nei fatti, un ‘problema’ dei soli Stati dell’Europa meridionale e occidentale. Al fallimento conclamato delle proposte di un sistema di quote rigide di ricollocamento dei migranti subentra infatti un principio che, permettendo di scegliere tra ricollocamento o sponsorizzazione (ossia copertura della gestione e spesa) dei rimpatri, contabilizza economicamente la gestione dei migranti, ma non supera affatto il sistema di Dublino: i criteri per stabilire lo Stato competente a esaminare la domanda di asilo sono mantenuti anche in questo nuovo regolamento. Nulla, quindi, lascia prefigurare che questo nuovo Patto sia in grado di superare le condizioni che lo hanno generato, anche perché la politica dei rimpatri pare funzionare più come monito al disciplinamento delle e dei migranti e al controllo della loro mobilità che come effettivo strumento per impedire gli arrivi o eseguire le espulsioni. È tuttavia chiaro il messaggio politico rivolto ai migranti: gran parte delle richieste di asilo saranno rigettate ancor prima di giungere formalmente sul suolo europeo, anche grazie all’impiego della nuova guardia di frontiera e costiera europea – il primo corpo armato dell’UE –, alla reclusione indefinita in centri di detenzione o all’incarcerazione a cielo aperto in paesi che le stesse politiche migratorie europee e dei suoi Stati hanno trasformato in veri e propri Stati-frontiera, quali la Turchia, la Tunisia, la Libia o il Marocco.
Nel complesso sistema che ruota intorno all’Europa transnazionale questi Stati svolgono sempre più una funzione di zone di contenimento speciale che si accompagna alla svalutazione e al controllo coercitivo del lavoro migrante di passaggio o impiegato al loro interno. Mentre diventano camere di decompressione della forza lavoro in eccedenza se visti dalla prospettiva europea, infatti, questi paesi rappresentano a loro volta bacini di sfruttamento integrati all’interno dei circuiti produttivi e finanziari globali al servizio del capitale europeo e transnazionale. Va dunque rifiutata la tentazione di vedere la funzione del patto e ciò che accade ai confini dell’Europa semplicemente con le lenti del transito o del blocco rispetto all’Unione Europea. Certamente, l’Europa agisce come catalizzatore regionale tanto della riorganizzazione produttiva e finanziaria – forte di capacità economiche e militari che si riflettono nelle geometrie variabili delle politiche dell’asilo, dei ricongiungimenti famigliari e della gestione degli accordi bilaterali – quanto delle strategie di mobilità del lavoro migrante. La centralità di questi Stati-frontiera per il governo della mobilità dell’Europa transnazionale fornisce loro una leva di pressione per ottenere finanziamenti europei, utilizzando cioè i migranti come moneta di scambio, come mostrano le vicende di Ceuta, le periodiche minacce turche e gli attuali rapporti dell’Italia con la Tunisia e la Libia.
Mentre il governo europeo della mobilità pretende di fissare il tempo in un eterno presente, uomini e donne migranti continuano a muoversi al di fuori delle legislazioni contribuendo a modificarle, e con la loro presenza trasformano costantemente e in modo non previsto il mercato del lavoro. I richiedenti asilo costituiscono così un bacino di forza lavoro le cui condizioni sono il risultato dalla stessa crisi del sistema dell’asilo. Ma, nonostante il prezzo che sono costretti a pagare sia sempre quello di una brutale degradazione e ricattabilità, l’affannoso tentativo di formalizzare un sistema realmente ‘europeo’ e la moltiplicazione degli interventi e delle figure giuridiche sono il segno dell’alto tasso di ingovernabilità del lavoro migrante, capace di insinuarsi nelle maglie delle politiche dei confini così come in quelle del mercato del lavoro.
È dunque lecito chiedersi, davanti al Patto in discussione, se ci si trovi di fronte a un ritorno in pompa magna della Fortezza Europa. Non è la nostra opinione. Questo evidente irrigidimento dei confini esterni dell’Unione europea si colloca infatti all’interno di un quadro più ampio, nel quale la Commissione Europea riconosce la necessità di forza lavoro per alimentare le varie catene produttive e ambisce a essere un attore capace di avanzare un sistema continentale di controllo e governo della mobilità. Non si tratta certo di una omogeneizzazione dei sistemi nazionali o dei diversi regimi di controllo, ma di un processo di centralizzazione il cui scopo è armonizzare le esigenze dei singoli Stati e del sistema complessivo, sostenendo la differenziazione e gerarchizzazione delle forme di mobilità. La violenza dei confini serve, in questo senso, per permettere un sistema che leghi sempre più la mobilità alle effettive esigenze di un mercato del lavoro europeo differenziato al suo interno e si presenta come una costante minaccia nei confronti delle istanze di libertà del lavoro migrante e delle condizioni produttive e riproduttive di tutta la forza lavoro. Se gli Stati membri continuano spesso a seguire logiche nazionali, sovente sostenute da meri calcoli elettorali, nell’imporre in alcuni casi politiche economicamente disfunzionali di governo delle migrazioni, la Commissione Europea punta ad aumentare l’efficienza dei processi produttivi cercando di far valere gli interessi complessivi del capitale europeo. Per comprendere come questo avviene, occorre perciò allargare lo sguardo e riconoscere le tensioni che percorrono la politica dei confini europea. Se da un lato questa contribuisce a sedimentare spazi differenziati di mobilità e contenimento tra i paesi europei, dall’altro queste tensioni sono parte di interventi che riconfigurano complessivamente le condizioni e il movimento del lavoro migrante nell’Europa transnazionale. Queste condizioni e questo movimento saranno oggetto di un prossimo intervento.