di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM
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L’attacco patriarcale alle donne contenuto nella decisione di Erdogan di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul non è un evento isolato ma sta accadendo in altri paesi europei e non europei: ecco perché il 1 luglio 2021 E.A.S.T. ‒ Essential Autonomous Struggles Transnational chiama a una giornata transnazionale di mobilitazione. La Polonia ha praticamente proibito l’aborto e sta preparando una convenzione alternativa che criminalizza le persone Lgbtq+ e riafferma la famiglia come destino proprio di ogni donna. Il recovery plan europeo rafforza un’idea di welfare e ricostruzione economica che riproduce le gerarchie patriarcali e razziste e lo sfruttamento, mentre alcuni stati membri come l’Italia e la Grecia stanno già approvando misure – come i regolamenti sul divorzio e gli assegni familiari – che di fatto svuotano la Convenzione di Istanbul di ogni significato. Eppure, in questi mesi le donne non sono state in silenzio e hanno iniziato a organizzarsi. All’ultima assemblea pubblica di E.A.S.T. abbiamo discusso delle diverse facce di questi attacchi patriarcali e delle lotte che possiamo costruire insieme verso una grande mobilitazione transnazionale. Questa intervista a Kalina Drenska, parte di E.A.S.T. e di LevFem (Bulgaria) è la prima di una serie di articoli che, a partire dalla Convenzione di Istanbul, intende gettare luce sulle lotte attuali contro la volenza contro le donne e le persone lgbtqi+, nelle loro connessioni con le lotte contro le politiche razziste e lo sfruttamento. Kalina discute del significato politico attribuito in Bulgaria alla Convenzione di Istanbul e sottolinea i nessi tra gli attacchi alle donne e alle persone Lgbtq+ e le politiche dei tagli al welfare che spingono molte donne e cercare migliori condizioni di vita e lavoro all’estero. In più, Kalina mostra la strada difficile che le lotte femministe devono percorrere – in Bulgaria e oltre – per rovesciare l’isolamento e accumulare potere a livello transnazionale. Lo sciopero è una pratica politica essenziale di cui riappropriarsi in questo processo.
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Transnational Social Strike Platform: Erdogan ha recentemente annunciato il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul e anche altri paesi dell’Europa centrale e orientale stanno minacciando di farlo. In altri Stati europei la ratifica non ha impedito il perpetrarsi della violenza patriarcale, spesso favorita dagli stessi Stati attraverso le loro politiche di precarizzazione e razzismo istituzionale che rendono più difficile alle donne sfuggire alla violenza. La CI è già stata dichiarata incostituzionale in Bulgaria nel 2018, anticipando così gli ultimi sviluppi in Europa centro-orientale. Come si sta sviluppando ora in Bulgaria il dibattito sulla Convenzione di Istanbul e più in generale sulla violenza contro le donne?
Kalina Drenska: La convenzione di Istanbul è stata dichiarata incostituzionale nel 2018, il che significa sostanzialmente che in questo momento nessuno parla di ratifica. Quello che si dice di solito è: “la convenzione è incostituzionale, non dovremmo parlarne, e non dovremmo nemmeno discutere di temi legati alla Convenzione”. L’atteggiamento generale è molto ostile anche da parte dei partiti politici. Nessuno vuole davvero discutere di Convenzione. Anche gli attori politici che in passato difendevano la ratifica della Convenzione ora dicono: “ok, è incostituzionale, quindi non ne parliamo”. Per quanto riguarda la più ampia questione della violenza contro le donne, specialmente nel 2018 c’è stato un dibattito enorme. C’era accordo generale sul fatto che la gente sia contraria alla violenza. Anche gli oppositori più radicali della Convenzione di Istanbul dicevano sempre: “sì, vogliamo proteggere le donne dalla violenza, ma non vogliamo la Convenzione”, adducendo soprattutto argomenti anti-lgbtqi. In questo momento il tema non è più caldo come un tempo. Tuttavia, quest’anno il Parlamento ha proposto una nuova legge sulla prevenzione della violenza domestica, una legge molto progressista. Si concede alle donne maggiore accesso alla protezione contro la violenza, si prendono misure di prevenzione e cose del genere, ma solo nell’ambito della violenza domestica. Altre forme di violenza, come la violenza economica, la violenza razzista, ecc. sono sì menzionate in questa legge, ma non sono così centrali. Fondamentalmente, l’idea è che la violenza domestica sia qualcosa di sistematico che accade nelle case, ma deve essere affrontata lì, nella sfera privata. Naturalmente, la legge non traccia connessioni con problemi più ampi e strutturali. Soprattutto dal 2018 in avanti, le femministe in Bulgaria sono riuscite a focalizzare l’attenzione sulla violenza domestica non solo in senso stretto, soltanto fisico, come avveniva prima. Negli ultimi 30 anni, di solito, quando si parlava di violenza contro le donne, si parlava soprattutto di violenza domestica in senso prettamente fisico. Adesso, invece, vedo in ambito femminista uno spostamento verso una narrazione più ampia della violenza. In questo momento, molti gruppi femministi stanno iniziando ad avvicinarsi e a parlare di argomenti come lo sfruttamento economico sul posto di lavoro, il razzismo e questioni simili e stanno iniziando a collegare la violenza contro le donne con questo quadro più ampio. Specialmente in quest’ultimo anno di pandemia, ci siano stati moltissimi casi di violenza domestica e molte donne sono morte a causa della brutale violenza domestica. Tuttavia, il tema della violenza domestica e dei femminicidi non è stato messo così attivamente all’ordine del giorno, come è stato fatto nel 2018. Eppure, c’è maggiore attenzione pubblica allo sfruttamento economico e alle condizioni di lavoro delle donne, soprattutto durante la pandemia. Questi sono i cambiamenti che vedo.
Come era discussa la Convenzione di Istanbul nel 2018 in Bulgaria? Che rapporto c’era tra questo dibattito e questioni economiche come ad esempio la spinta alle riforme neoliberali richieste dall’Unione Euuropea? E come si legava il problema della Convenzione ai dibattiti sulle migrazioni?
KD: È molto difficile ricostruire quello che è successo nel 2018, perché il dibattito si è sviluppato molto intensamente e molto velocemente. Di base, la retorica reazionaria contro la Convenzione di Istanbul ha vinto alla grande. Hanno usato e strumentalizzato il dibattito sulla Convenzione per minare il consenso intorno a essa, e hanno poi ottenuto ciò che avevano inizialmente pianificato e sono persino andati oltre a questo attacco alla Convenzione. Alla fine è stata considerata incostituzionale. Non c’è nessun altro paese dell’Europa dell’Est o di qualsiasi altra regione che abbia ritenuto incostituzionale la convenzione. È stato quindi un enorme successo per i reazionari. La Bulgaria aveva firmato la Convenzione già nel 2016 e nessuno lo sapeva né se ne occupava. Poi improvvisamente, tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018, c’è stata una mobilitazione da parte di organizzazioni e ONG evangeliche, cattoliche, ultraortodosse in Bulgaria, che hanno redatto una lettera – definendola “lettera aperta” – e poi l’hanno inviata a un paio di partiti in Parlamento. Uno di questi, che è il partito fascista, di ultradestra, ha visto la lettera, l’ha fatta sua e si è unito alla campagna contro la Convenzione che queste ONG stavano iniziando. Fino a quel momento, la Convenzione di Istanbul non era un argomento così importante, ma quando i partiti politici hanno iniziato a prendere posizione sulla questione e a dichiararsi contro la Convenzione, l’argomento è esploso. Nel giro di poche settimane, l’atteggiamento generale della popolazione, che era piuttosto positivo o indifferente rispetto alla Convenzione, si trasformò completamente in un atteggiamento di aperta ostilità alla Convenzione. La Convenzione di Istanbul è stata presentata dai reazionari come un’arma della propaganda occidentale, un modo per stabilire il “terzo genere” e cose simili, solo perché la Convenzione cercava di inquadrare il genere come un costrutto sociale e non una realtà biologica. Il modo in cui la Convenzione definisce il genere, molto utile da un punto di vista femminista, è stato attaccato dai reazionari al fine di attaccare le persone lgbtqi e le donne, dicendo che la convenzione voleva stabilire il “terzo genere” in Bulgaria, rendere legale la pedofilia e simili. Sono riusciti a spostare il dibattito intorno a questa retorica anti-lgbtqi. Un’altra cosa che è stata strumentalizzata dai reazionari è l’idea che la Convenzione di Istanbul venisse dalla Turchia. Per ragioni storiche in Bulgaria ci sono ancora, soprattutto nelle fila della destra, forti sentimenti anti-turchi. La Bulgaria faceva parte dell’impero ottomano, abbiamo avuto la nostra lotta di liberazione nazionale nel XIX secolo. Questo sentimento anti-turco si è combinato con il sentimento anti-occidentale dando vita a una narrazione in base a cui la Convenzione di Istanbul, essendo qualcosa di importato contemporaneamente dall’Occidente e dalla Turchia, avrebbe leso i fantomatici “valori tradizionali bulgari”. Questo era ciò che i reazionari sostenevano nel discorso pubblico.
Cosa è successo invece sul fronte progressista, sul fronte di coloro che difendevano la Convenzione? Solo una piccolissima minoranza di organizzazioni di sinistra cercava di collegare la Convenzione di Istanbul e la violenza contro le donne ad altre forme di violenza, e a problemi più strutturali. Ma il discorso generale era guidato da organizzazioni femministe liberali, umanistiche, progressiste, o per i diritti umani. E penso che uno dei grandi errori che è stato fatto allora, è stato che questo fronte progressista per la ratifica della Convenzione stava cercando di spiegare alla gente, alla gente comune in Bulgaria, cosa significa “genere”. In pratica cercavano di dire alla gente: “No, no, no, voi avete paura della ratifica della Convenzione solo perché non capite cosa significa genere“. Quindi è stato un approccio un po’ paternalistico, spiegare di cosa si tratta invece di cercare di impegnarsi attivamente a discutere con le persone e mobilitare il sostegno verso donne, persone lgbtqi, migranti, lavoratori, e tutti coloro che avrebbero effettivamente beneficiato della ratifica della Convenzione. Ovviamente, questo approccio è drammaticamente fallito perché non ha davvero senso spiegare alle persone che sono un po’ stupide, e che è per questo che sono contro la Convenzione, che devono essere più aperte mentalmente e così via… Ma prendiamo i movimenti femministi di sinistra: all’epoca, c’erano alcune attiviste anticapitaliste e di sinistra in Bulgaria, ma non c’erano organizzazioni attive femministe, di sinistra o anticapitaliste, che potessero spingere il dibattito un po’ più verso le questioni strutturali che andavano affrontate.
Sempre sul fronte progressista, accadde un’altra cosa, e cioè che l’atteggiamento generale divenne: “ora ci concentreremo solo sulla violenza contro le donne”, ma questo servì più che altro a escludere le persone lgbtqi dal dibattito. Loro avevano partecipato attivamente alle proteste a sostegno della convenzione, ma gli fu chiesto loro di mettere giù le bandiere arcobaleno e di non parlare di “questioni lgbtqi”. Non c’è stato fondamentalmente alcun sostegno pubblico alle organizzazioni lgbtqi e le persone lgbtqi hanno subito il colpo maggiore da chi si opponeva Convenzione di Istanbul. Anche dopo che la Convenzione è stata dichiarata incostituzionale, la violenza contro le donne è stata percepita come un problema reale che è stato poi affrontato a livello legislativo, mentre la comunità lgbtqi è diventata ancora più emarginata, diventando oggetto di attacchi ancora più duri. Questo quindi è quello che è successo nel 2018 e penso che ciò che è mancato allora è stata una mobilitazione dal basso di tutte le persone che avrebbero beneficiato della ratifica della convenzione – donne, migranti persone lgbtqi, tutti gruppi che non si sono mobilitati in grandi numeri. Mentre veniva spiegato alla gente, sui media e nel dibattito pubblico, che non erano in grado di capire qual era la posta in gioco.
Qual è il rapporto tra la precarizzazione generale della vita e del lavoro e il sostegno alle politiche familiste e antifemministe che tentano di ristabilire un ordine sociale che donne e persone lgbtqi hanno contestato?
KD: È abbastanza ovvio che i conservatori e i reazionari, che sono contro i documenti progressisti come la Convenzione di Istanbul e altri tipi di legislazione, li attaccano su basi “culturali”. Lo inquadrano come un dibattito culturale, come se l’Occidente cercasse di portare l’ideologia gender in Bulgaria o in altri paesi dell’Europa Orientale e noi dovessimo resistere. E la cosa divertente è che questo tipo di discorso di solito viene fatto da organizzazioni che sono finanziate dal capitale occidentale come i Repubblicani negli Stati Uniti o dalla Chiesa cattolica. Cercano di inquadrarlo come uno scontro di civiltà. Ma ciò che viene nascosto è il fatto che i reazionari stanno proponendo l’idea che il genere è biologicamente determinato e che le donne hanno un ruolo naturale, un ruolo naturale biologicamente determinato di caregiver. Questo presunto ruolo naturale delle donne è associato all’idea che lo stato non dovrebbe interferire all’interno di questioni presumibilmente private come la violenza sulle donne, che viene rimessa alla singola famiglia come una questione privata, mentre le donne vengono riassegnate alla famiglia come caregiver naturali in modo che il lavoro di cura venga svolto gratuitamente e, insieme ad esso, la riproduzione sociale. Questo è estremamente vantaggioso per regimi come il nostro che si basano su nuove aspre riforme neoliberali, che stanno togliendo finanziamenti alle strutture pubbliche di assistenza, come la sanità, gli asili, le scuole, ecc. Quindi, fondamentalmente, l’idea è: distruggiamo questi sistemi di assistenza pubblica e addossiamo il lavoro di cura alle singole famiglie in modo da dover dare meno soldi possibili per la riproduzione sociale pubblica. È in corso una privatizzazione o individualizzazione della riproduzione sociale precedentemente socializzata.
Nel momento in cui si possono ricollocare i lavori di assistenza a carico della singola famiglia, soprattutto a carico delle donne, non si è obbligati a finanziare il sistema pubblico. Tutta la retorica anti-lgbtqi è in realtà in un certo senso contro forme di vita, sessualità e identità che non sono redditizie per il sistema capitalista. Si tratta di sessualità e di identità che non portano alla “riproduzione biologica” così come fanno le relazioni eteronormative. Il sistema capitalista patriarcale cerca di punire le relazioni che non sono orientate alla procreazione, perché tali relazioni non contribuiscono alla riproduzione della futura forza lavoro e quindi sono meno “economicamente razionali” da un punto di vista capitalista. Questa è una delle ragioni principali per cui c’è questo pesante attacco alle persone lgbtqi. Quindi penso che dobbiamo guardare oltre questo discorso sul culturale e dobbiamo dire che ci sono ragioni economiche, materiali per i governi e i reazionari dietro questo enorme attacco contro le persone lgbtqi ma anche dietro la ri-tradizionalizzazione del ruolo delle donne e delle famiglie.
Le donne migranti, soprattutto quelle che si muovono dall’Est all’Ovest dell’Europa, sostengono catene transnazionali di riproduzione sociale, che influenzano il benessere, le condizioni di vita e di lavoro delle donne. La priorità di EAST, tra le altre, è quella di costruire le condizioni di un’iniziativa politica transnazionale che connetta le donne migranti e non, quelle che restano e quelle che partono. Qual è la relazione tra i movimenti delle donne che attraverso le frontiere e il tentativo di rinforzare la famiglia come istituzione?
KD: Non sono sicura che ci sia una connessione così diretta. Ci sono sistemi pubblici come il sistema sanitario, le scuole, gli asili e soprattutto gli ospedali, che sono pesantemente sotto-finanziati. Naturalmente i soldi nel sistema ci sono, ma non vengono impiegati per sostenere una buona assistenza sanitaria e buone condizioni di lavoro per le persone che ci lavorano, mentre vengono usati per il profitto dei manager e dei dirigenti della sanità. In molti paesi dell’Europa orientale le donne, specialmente le lavoratrici della cura, infermiere ma non solo, sono costrette a emigrare poiché i lavori che svolgono non garantiscono loro sufficiente stabilità economica. Stanno accadendo due cose: queste donne di solito lavorano come badanti, a volte fanno lavori stagionali o altro, ma tendenzialmente svolgono lavoro di cura h 24, sette giorni su sette, in abitazioni private, per poi inviare i soldi guadagnati alle loro famiglie rimaste in Bulgaria. In un certo senso, i vincoli familiari sono già spezzati. Secondo le statistiche, in alcune regioni della Bulgaria il 60% dei bambini cresce con le nonne, con le zie, o addirittura con le vicine o con altri parenti perché i genitori, soprattutto le madri, lavorano all’estero. In sintesi, nell’Europa orientale le donne più anziane si prendono cura dei loro nipoti mentre le figlie svolgono lavoro domestico nei paesi dell’Europa sud-occidentale. L’intero sistema del lavoro di cura in Bulgaria ricade sulle spalle di donne che sono sempre più anziane. È questa la realtà. Che relazione c’è tra questo processo e la posizione delle donne all’interno della famiglia? Se non ci fossero le nonne, che sono costrette, in assenza di servizi, ad occuparsi dei nipoti mentre i genitori sono all’estero, l’intero sistema di cura dei figli collasserebbe. Il consolidamento della famiglia come istituzione scarica, ancora una volta, tutto il peso sulle spalle delle donne più anziane. Sono loro che devono prendersi cura dei nipoti, mentre la situazione economica del paese spinge le madri ad andare a lavorare all’estero per sostenere la famiglia rimasta in Bulgaria. Affermare che questo lavoro debba essere svolto all’interno dell’ambito familiare significa che lo Stato, il governo e le istituzioni pubbliche non ne sono ritenuti responsabili. La migrazione di massa e la povertà sono trattate come fossero questioni domestiche, problemi da affrontare e risolvere all’interno della famiglia invece che a livello pubblico. Qui io ci vedo la connessione, anche se non è del tutto evidente: il lavoro di cura non viene inquadrato come una questione sociale ed economica, ma circoscritto all’ambito della famiglia.
Che impatto può avere un progetto come lo sciopero transnazionale sul contesto bulgaro? In che modo si possono innescare nuove lotte e discussioni sul tema dello sciopero? Quale può essere il ruolo di una rete come EAST in questo processo di connessione transnazionale?
KD: Ti racconto un aneddoto risalente agli anni Novanta. I bambini di un asilo, una volta che non volevano andare a fare il riposino pomeridiano, iniziarono a urlare “Sciopero! Sciopero! Sciopero!”. Nelle scuole dell’infanzia era tradizione che i bambini facessero un sonnellino dalle due alle quattro del pomeriggio. Quella volta decisero di proclamare lo sciopero! Perché? Perché in Bulgaria, negli anni Novanta, scioperavano tutti e i bambini sentivano parlare degli scioperi e in qualche modo provavano a imitare ciò che vedevano. In quel periodo era sufficiente aprire un qualunque giornale o un notiziario per vedere che i lavoratori stavano scioperando contro l’aumento dei prezzi, le condizioni di lavoro, i salari non pagati… Tutti scioperavano. Lo sciopero era uno strumento di lotta ampiamente diffuso. Oggi non se ne parla più e i lavoratori e le lavoratrici che decidono di scioperare sono pochi. Secondo me è importante riprenderci il processo dello sciopero – un’arma molto potente della lotta di classe, forse seconda solo alla rivoluzione – parlare di sciopero, anche in modo simbolico, riportarlo nell’immaginario collettivo così che torni ad essere uno strumento di cui appropriarsi. Per questo motivo penso che EAST rappresenti una grande opportunità per la Bulgaria, in particolare perché consente di guardare a quello che sta succedendo in altri paesi e stabilire delle connessioni. A volte si tende a credere che noi siamo messi così male da essere gli unici ad avere certi problemi, ma ovviamente non è così. In tutta l’Europa orientale, e non solo, la situazione è simile. Nonostante tutte le differenze, ci sono degli elementi comuni che dobbiamo cogliere per creare delle connessioni tra le nostre esperienze di lotta contro il razzismo, lo sfruttamento e il patriarcato. Creando queste connessioni e sfruttando le armi di cui disponiamo – e lo sciopero è una di queste –, possiamo resistere a ciò che sta succedendo in questo momento. Immaginate cosa sarebbe potuto accadere nel 2018, quando la Convenzione di Istanbul è stata discussa in Bulgaria, se invece di spiegare alla gente che cos’è il genere, le organizzazioni femministe avessero semplicemente detto: “Scioperiamo! Blocchiamo le strade e non interrompiamo la produzione e riproduzione sociale finché la Convenzione di Istanbul non sarà ratificata. Questo è un nostro diritto e vogliamo usarlo per lottare contro la violenza”. Naturalmente questo è uno scenario potenziale, e non è ciò che sta accadendo in Bulgaria, ma immaginate la forza del messaggio. Quello che ho capito da EAST e dal nostro lavoro collettivo, nonché dal pensare lo sciopero come un’arma, è che abbiamo bisogno di affermare l’idea che siamo noi ad avere il potere. Il potere lo abbiamo noi. Noi possiamo determinare il nostro futuro e la nostra vita. Siamo noi quelle che contano. Black Lives Matter ha affermato l’idea che le vite delle e dei neri contano, e questa è un’idea essenziale. La stessa cosa è in gioco nelle lotte delle donne, delle persone lgbtqi e delle lavoratrici e lavoratori essenziali in tutto il mondo! Non stiamo lottando per i profitti, qui sono davvero in gioco i nostri mezzi di sussistenza e le nostre vite. Se vogliamo difendere le nostre vite dobbiamo farlo in modo radicale. Questo è il senso dello sciopero. Spero che queste spinte provenienti dall’organizzazione transnazionale ci aiutino in primo luogo a vedere le connessioni tra i contesti e, in secondo luogo, a trovare modi per lottare e reagire contro il capitalismo, il patriarcato e il razzismo. Questo è il motivo per cui penso che EAST possa essere utile non solo alla Bulgaria, ma anche ad altri paesi dell’Europa orientale e non solo.