Lunedì 22 marzo ci sarà in Italia il primo sciopero nazionale contro Amazon, che coinvolge l’intera filiera di chi lavora dentro e per il gigante di Seattle. Gli scioperi contro Amazon, però, non sono una novità e avvengono all’interno di un comparto segnato da un lungo e duro ciclo di lotte. Da diversi anni, lavoratori e lavoratrici del gigante di Seattle scioperano durante ogni Black Friday, ogni Prime Day e ogni picco natalizio, da anni fanno sentire la propria voce pretendendo salari più elevati e condizioni di lavoro migliori, da anni si incontrano nei meeting transnazionali di Amazon Workers International per convergere verso una comune strategia pur partendo da situazioni nazionali molto diverse. Per questo non siamo tra coloro che guardano allo sciopero nazionale contro Amazon come una «prima volta» assoluta, perché anche nei magazzini italiani, e soprattutto a Piacenza, è da anni che si lotta testardamente, ma siamo certamente tra coloro che lo attendevano con impazienza, perché sappiamo che quelle lotte, spesso portate avanti in solitudine e in condizioni proibitive, ne avevano un gran bisogno. Per questo pensiamo che lo sciopero nazionale debba essere considerato una novità rilevante, non solo per la sua scala territoriale, ma perché coinvolge tutte le diverse figure che lavorano nella filiera di Amazon – gli addetti allo smistamento e stoccaggio nei magazzini, i drivers, gli addetti alla sicurezza – in un rifiuto complessivo delle condizioni di lavoro imposte dall’algoritmo. Esso è un momento importante nella lotta transnazionale contro Amazon. Questo sciopero, così come altri che stanno attraversando il settore della logistica, non serve a misurare la forza dei sindacati che lo convocano, non è un episodio per quanto interessante di una commedia italiana. Solo se pensato, compreso e collocato nella lunga strada verso Seattle, esso ci aiuta a capire a che punto siamo, quanto ci permette di avanzare, quali possibilità introduce e quali spazi di lotta e di organizzazione apre.
Bisogna quindi ricostruire che cosa lo ha reso possibile, alzando lo sguardo ancora una volta oltre l’Italia e tornando a un anno fa, quando, nelle prime settimane della pandemia, fabbriche e magazzini della logistica di tutto il mondo sono stati attraversati dalle proteste di lavoratori e lavoratrici che rifiutavano di produrre profitto per chi, dichiarandoli essenziali, li esponeva al contagio. In Italia, una serie di scioperi spontanei e di astensioni dal lavoro ha investito i magazzini Amazon di Torrazza (Torino) e di Passo Corese (Roma), ma soprattutto quello di Piacenza, dove lo sciopero è durato undici giorni e ha imposto all’azienda l’introduzione di misure sanitarie anti-contagio. Nei magazzini di Amazon in Polonia, in Francia, in Spagna e negli Stati Uniti, quel rifiuto ha presto assunto forza su una scala inedita, costringendo Amazon a riconoscere un aumento salariale in tutti i suoi magazzini, riuscendo a connettersi e a comunicare tra paesi diversi, anche e soprattutto grazie alla rete di Amazon Workers International, e facendo emergere con chiarezza Amazon da una parte e l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici dall’altra come i due fronti contrapposti di una lotta transnazionale. Uno scontro che negli Stati Uniti ha portato al tentativo di Amazon di imporre un «mega-turno» di 10 ore, ma anche alla prima votazione per la sindacalizzazione di un magazzino in Alabama, che promette di avere effetti a catena a livello nazionale e non solo.
Questo salto di qualità nell’organizzazione transnazionale ha stimolato la diffusione di processi organizzativi a livello nazionale e locale, soprattutto in Italia, dove nell’ultimo anno si è assistito, parallelamente all’apertura di nuovi centri, alla sindacalizzazione di molti magazzini in cui fino a prima della pandemia qualsiasi iniziativa sindacale era quasi impensabile. La voglia di sciopero, cresciuta nei siti di mezza Europa e degli Stati Uniti, ha finito per investire gli stessi sindacati confederali, che ancora fino allo scorso Black Friday avevano provato a sostenere che scioperare fosse inopportuno dato il momento di emergenza. A distanza di pochi mesi, lo sciopero nazionale di lunedì segnala che qualcosa dalla base ha rotto gli argini eretti da funzionari e burocrati. In pochi mesi, i confederali hanno dovuto adattare alla natura del gigante di Seattle la propria stessa organizzazione interna, con la creazione di coordinamenti nazionali intercategoriali. Essi hanno dovuto realizzare che non ci si può contrapporre ad Amazon in base al galateo delle relazioni industriali novecentesche. Con oltre 40.000 dipendenti suddivisi in una miriade di fattispecie contrattuali e salariali, tra logistica, commercio e trasporti, tra assunzioni dirette, appalti e subappalti, contro Amazon è impossibile fare riferimento al carattere collettivamente vincolante dei contratti nazionali di settore, su cui si basa la stessa struttura sindacale. I sindacati confederali hanno così dovuto riconoscere centralità politica alla battaglia dentro Amazon in quanto padrone di un pezzo enorme di classe operaia in Italia.
Sta qui la novità politica dello sciopero nazionale: nello sforzo di unire le condizioni che Amazon ogni giorno cerca di frammentare e disperdere, ma che sono tutte sottoposte indifferentemente agli stessi insostenibili ritmi, carichi e orari di lavoro stabiliti dall’algoritmo tramite il meccanismo che controlla la produttività. Misurando al dettaglio il tempo di ogni singolo movimento dei magazzinieri che compongono i pacchi, così come dei corrieri che li consegnano, l’algoritmo classifica i lavoratori in base alla loro produttività e detta una media che deve essere rispettata, senza comunicare a nessuno la sua produttività individuale, ma stabilendo che dalla produttività individuale dipende la possibilità di assunzione per i precari e le precarie, che quindi tentano di lavorare più velocemente possibile per stare al di sopra della media. Con la stragrande maggioranza dei dipendenti di Amazon in Italia (tra il 70 e l’80%) assunta a tempo determinato o con contratti interinali a coercizione quotidiana come il monte ore garantito (MOG), questo meccanismo produce un aumento costante della produttività media generale e dei ritmi di lavoro, quindi un logoramento accelerato della salute. È grazie a questo ricatto che Amazon può garantire salari superiori alla media, facendone però brutalmente pagare il prezzo a chi li riceve.
Tenendo insieme le posizioni di tutti coloro che ne subiscono le conseguenze, quello del 22 marzo sarà quindi uno sciopero generale contro il ricatto dell’algoritmo, un rifiuto collettivo del comando brutale che esso impone sul lavoro e sulle esistenze. Un rifiuto non solo da parte di chi lavora nei magazzini e deve sopportare una disciplina ferrea, irrigidita da un uso strumentale delle norme anti-contagio, ma anche da parte dei corrieri che vedono costantemente aumentare il numero di consegne giornaliere e così il rischio di incidenti, come ha mostrato la ribellione dei drivers di Pisa a fine febbraio. Non solo dei dipendenti diretti di Amazon, ma anche di quelli delle innumerevoli aziende a cui sono appaltate parti del servizio, come i dipendenti di ICTS che hanno scioperato a ottobre a Torino, pagati la metà dei colleghi con cui condividono luoghi di lavoro e mansioni. Non solo dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato ma anche dei precari e degli interinali preferiti per la loro ricattabilità.
Finalmente lo sciopero dunque! Finalmente lo sciopero che connette tutte queste diverse figure lavorative, non solo per rivendicare condizioni migliori oggi, ma anche per porre le basi di un’organizzazione più solida nel lungo periodo, che sarà possibile solo attaccando alla radice la spirale della produttività imposta dall’algoritmo. Lo sciopero di lunedì sarà però un passo avanti nella strada verso Seattle solo se non si ridurrà a una vertenza modello che finisce con e dentro Amazon, e solo se farà i conti con il fatto che le condizioni imposte da Amazon tracimano all’esterno: il ricatto dell’algoritmo si ripercuote infatti su tutta la catena della logistica, aumentando i ritmi e peggiorando le condizioni di lavoro in tutte le aziende che vogliano restare sul mercato. Si tratta di quegli hub e magazzini che sono stati investiti negli anni scorsi da un ciclo di lotte che ha avuto in prima fila lavoratori e lavoratrici migranti e che sono attualmente colpiti da una repressione senza precedenti, come mostrano le sentenze che proprio a Piacenza sono state emesse contro i lavoratori migranti e sindacalisti Sicobas. Quei magazzini in cui sono assunti sempre più massicciamente rifugiati con contratti a chiamata, dove alle lavoratrici sono imposti turni che rendono impossibile gestire figli e costruirsi una vita fuori dal lavoro. Quei magazzini che il 26 marzo saranno in sciopero insieme ai riders delle piattaforme di delivery, anche in questo caso con la pretesa di una riduzione dei ritmi e degli orari di lavoro, nonché di maggiori tutele per la salute danneggiata dai carichi eccessivi. Lo sciopero del 22 sarà un passo avanti nella strada verso Seattle solo se non diventerà il prologo di un nuovo patto sociale in cui le migliori condizioni di alcuni si traducono in maggiore sfruttamento per altri e in cui i riflettori puntati su Amazon permettono che tutto il resto rimanga nell’ombra. Questo sciopero non è solo contro Amazon. Riprendendo una parola d’ordine francese di qualche anno fa, e rivolgendola anche contro le intenzioni di chi lo ha convocato, questo sciopero generale deve diventare uno sciopero contro Amazon e il suo mondo.