di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM
Come lottare su scala transnazionale? E perché è così importante? La Piattaforma TSS è rincorsa da queste domande sin dalla sua fondazione. Nel corso degli anni, abbiamo cercato di dare una risposta promuovendo iniziative politiche attraverso i confini su alcuni terreni cruciali come la logistica dello sfruttamento, la riproduzione sociale e il lavoro migrante. Ci è parso chiaro che la sfida transnazionale non potesse limitarsi a riflettere quella internazionale. Quando abbiamo optato per questo nome, volevamo sostenere che l’internazionalismo è insufficiente per cogliere l’interconnessione simultanea di lotte e movimenti sociali. La prospettiva transnazionale era, ed è tuttora, il nome di una posizione politica e allo stesso tempo l’indicazione di una sfida e di una possibilità. Il transnazionale non è la somma degli spazi nazionali e non è nemmeno il semplice riconoscimento delle interdipendenze tra di essi. Transnazionale è lo spazio politico in cui viviamo; transnazionali sono le gerarchie che mettono a valore la nostra vita e transnazionale è la dimensione della nostra lotta. Il transnazionale è ciò che costituisce le catene concrete del potere contro cui lottiamo. Da quando abbiamo lanciato la sfida e il progetto della Transnational Social Strike Platform, ci siamo impegnati in diversi percorsi di lotta con l’obiettivo di portare in superficie il transnazionale, renderlo visibile e trasformarlo in una possibilità di lotta. Oggi pensiamo di essere più vicini a rispondere alla nostra domanda iniziale.
Abbiamo scommesso sulla rilevanza politica dello sciopero perché pensavamo che le tensioni crescenti che si sviluppavano nei luoghi di lavoro avrebbero assunto quella forma e attraversato così la società per convergere in un movimento sociale più ampio. Oggi è ampiamente riconosciuto il fatto che lo sciopero è la forma di lotta più potente e lo strumento migliore per connettere soggetti diversi. Dopo il Day Without Us del 2006 negli Stati Uniti e del 2010 in Italia, Francia e altri paesi europei, gli scioperi dei migranti hanno mostrato, uscendo dai cancelli delle fabbriche per invadere la società, la possibilità di una nuova politicizzazione e socializzazione dello sciopero. Allo stesso tempo, quando assume i contorni dello sciopero l’insubordinazione sociale ritorna nei luoghi di lavoro e produce al loro interno nuove forme di conflitto. Con le loro lotte contro lo sfruttamento, il razzismo istituzionale e la violenza dei confini, i migranti hanno reso visibile la necessità di ampliare le lotte sindacali e di attaccare le condizioni imposte loro dalle leggi statali, dalle politiche europee e dagli accordi internazionali.
Gli scioperi dei lavoratori di Amazon in diversi stabilimenti europei e statunitensi, aumentati durante la pandemia, dal 2015 mostrano quanto sia necessaria una comunicazione transnazionale per lottare contro un gigante globale, permettendo così di affrontare le divisioni nazionali e locali e le gerarchie sociali che producono quelle differenze di cui si avvalgono le multinazionali per imporre il proprio dominio. Lo sciopero delle donne, iniziato nel 2016 in Polonia come contestazione della subordinazione femminile e della violenza maschile, si è rapidamente trasformato in un movimento femminista globale che contesta la condizione patriarcale complessiva della riproduzione sociale neoliberale.
Questi movimenti non solo hanno riportato al centro lo sciopero, ma hanno anche indicato quale sia la dimensione cui la nostra iniziativa deve mirare. Come Piattaforma TSS abbiamo considerato l’Europa il nostro terreno minimo di battaglia, ma abbiamo anche indicato la necessità di ridefinire la scala dell’iniziativa politica dei movimenti sociali oltre i limiti istituzionali dell’UE. Mentre prendevamo parte alla contestazione della Banca Centrale Europea ci siamo resi conto che il potere dell’UE si stava già spostando dal suo centro istituzionale a una più complessa logistica dello sfruttamento, in cui l’Est e i confini ‘esterni’ avrebbero giocato un ruolo decisivo. Dopo aver organizzato il primo incontro del TSS a Poznan, in Polonia, nel 2015, abbiamo investito le nostre energie politiche nel connettere le lotte in corso nei paesi orientali, dalla Georgia alla Bulgaria alla Slovenia. Guardare l’Ue dall’Est e dai paesi confinanti è stato un modo per vedere i legami e le connessioni tra soggetti e lotte che appaiono altrimenti isolati. Riposizionare il nostro sguardo dall’«Oriente» ci ha permesso di evidenziare l’integrazione strutturale tra le fabbriche e le imprese logistiche che impiegano lavoratori in distacco e migranti provenienti da dentro e fuori l’UE; le catene transnazionali della cura e della riproduzione sociale di cui le donne ‒ soprattutto quelle migranti ‒ sopportano il peso; le diverse condizioni relative a salari, contratti e sussidi che costituiscono il mercato del lavoro transnazionale europeo e lo sfondo per la nostra crescente rete di lotte essenziali. Partire da questo mercato del lavoro differenziato è anche un modo per iniziare a fare i conti con l’enigma politico della Brexit: lungi dall’essere limitata a un opt-out istituzionale, Brexit sta scuotendo proprio questo mercato del lavoro, incidendo sulle forme di mobilità dei migranti UE e non UE, sulle catene di produzione e sulla dislocazione dei mercati finanziari.
Il COVID-19, un virus che non conosce confini, colpisce la mobilità delle persone e attraversa le reti logistiche, ci ha mostrato ancora una volta la necessità di affrontare una realtà transnazionale complessa e articolata. La risposta alla pandemia, organizzata dagli Stati e dal capitale, ha cercato di mantenere l’economia in funzione e di mettere sotto controllo tutto ciò che non è considerato strettamente necessario a questo scopo. La libertà è ora esplicitamente misurata in termini di produttività: finché la pandemia non sarà finita, ci viene detto, dobbiamo accettare limitazioni alle nostre libertà, tranne la libertà di essere sfruttati e di garantire la produzione.
Allo stesso tempo, con la promessa di offrire una strategia di uscita dalla crisi del COVID-19, le istituzioni globali stanno offrendo prestiti che costringeranno molti paesi a tagliare i servizi pubblici e i salari nei prossimi anni. Sullo sfondo della pandemia si stanno creando nuovi rapporti di dipendenza. L’austerità non è finita a livello globale, ma in Europa, come negli Stati Uniti, i pacchetti finanziari stanno pompando miliardi di dollari di spesa pubblica come mai era successo nei decenni precedenti. L’obiettivo principale è quello di evitare l’ulteriore contrazione dell’economia nel suo complesso, ma, insieme a ciò, i governi stanno cercando di mantenere la società in ordine e di evitare un malcontento più ampio. In alcuni paesi i governi hanno dovuto adottare misure di emergenza per gestire la pandemia. In alcuni paesi i licenziamenti sono stati temporaneamente sospesi, almeno per chi ha un contratto di lavoro sono stati creati fondi per la disoccupazione e sono stati ritardati gli sfratti. Eppure, con il pretesto di prevenire il sovraffollamento o di garantire la continuità dei servizi essenziali, le aziende stanno prolungando la giornata lavorativa, ristrutturando i turni, chiedendo maggiore flessibilità e imponendo carichi di lavoro più pesanti. Con l’esplosione dell’e-commerce, la pressione sui magazzini della logistica, sui camionisti e sui riders continua a crescere, mentre il distanziamento sociale è diventato un nuovo modo di controllare i lavoratori che cercano di incontrarsi e organizzarsi. Se alcuni vengono lasciati a casa, altri vengono assunti con contratti della durata di pochi giorni per rispondere alle richieste del mercato e soddisfare il crescente numero di ordini dello shopping online. Oggi, le politiche di ricostruzione danno per scontato che il lavoro domestico sia a carico delle donne e si basano sul fatto che le donne migranti ‒ molto spesso escluse dai sussidi della ripresa ‒ colmeranno comunque le lacune. Il lavoro delle donne migranti, provenienti da dentro e fuori l’UE, è il fondamento nascosto delle politiche che pretendono di risolvere l’emergenza espandendo il ricorso allo smart working e spremendo i lavoratori essenziali. Mentre l’Europa ha praticamente chiuso le frontiere ai migranti, costringendoli a intraprendere viaggi pericolosi per attraversare il mare, le montagne e i fiumi, in diversi paesi un sistema di accoglienza fallimentare, che è il diretto risultato della reazione europea alla tempesta dei migranti del 2015, è diventato il nuovo bacino di reclutamento di manodopera a basso costo, in cui persino i richiedenti asilo sono impiegati come lavoratori temporanei. La pandemia ha evidenziato che, all’interno dello spazio transnazionale in cui viviamo, la violenza patriarcale e razzista, le leggi e le misure contro i migranti e le donne, le limitazioni alla libertà di movimento e alla libertà sessuale, hanno forti ripercussioni sulle condizioni di lavoro e sulla capacità di organizzazione di tutti e tutte.
Dalla nostra parte, la risposta alla pandemia è stata ampia e variegata. Blocchi, scioperi, proteste hanno segnato in particolare la cosiddetta prima ondata: dai magazzini Amazon alle fabbriche metallurgiche, dagli hubs logistici ai servizi, dai migranti che protestavano contro le condizioni all’interno dei centri di accoglienza alle donne impiegate nelle catene della cura. Partendo da queste lotte dobbiamo chiederci che tipo di politica transnazionale stiamo attivando per contrastare il fatto che la gestione della pandemia da parte degli Stati e del capitale sta rafforzando le gerarchie esistenti, lo sfruttamento e l’oppressione. Ci sono le lotte dei migranti per un permesso di soggiorno europeo incondizionato e illimitato che mirano a superare le frontiere imposte dalle politiche nazionali e sovranazionali in materia di migrazione; assistiamo a continui, seppur isolati, scioperi di infermiere, collaboratrici domestiche, assistenti sociali, addette alle pulizie, soprattutto donne, che protestano contro il mix di sfruttamento sul lavoro come lavoratrici essenziali e violenza patriarcale; nei magazzini di tutta Europa e non solo, i lavoratori lottano per salari più alti e per una maggiore sicurezza sul lavoro. La posta in gioco è la possibilità di consolidare ulteriormente una piattaforma politica dove tutte queste esperienze possano essere rese più forti e comunicare tra loro. Come piattaforma transnazionale dello sciopero sociale pensiamo che questa sia ancora la sfida che abbiamo di fronte. Pensiamo che le prospettive aperte dalle lotte locali e nazionali siano limitate, e dobbiamo approfittare della pandemia per rafforzare le nostre capacità transnazionali e globali. Dopo la crisi finanziaria del 2008, le rivolte e le sollevazioni si sono moltiplicate, dimostrando che i soggetti che le attraversano fanno parte di movimenti sociali che non sono in alcun modo locali o nazionali, ma che hanno nemici transnazionali e si scontrano con problemi transnazionali che risuonano attraverso i confini. La lotta sarà dura, ma non possiamo sprecare l’ennesima crisi per ritirarci su basi rassicuranti. Dopo anni di rivolte contro l’agenda neoliberale, il razzismo istituzionale, il patriarcato e l’autoritarismo, ora è il momento di prendere sul serio la dimensione transnazionale dello sfruttamento e di fare del transnazionale il nostro spazio d’azione primario.
Gli anni passati ci hanno lasciato molte esperienze che hanno reinventato lo sciopero come sociale, migrante e femminista e hanno mostrato la possibilità di lottare a livello transnazionale. Sulla base di queste esperienze, dobbiamo continuare a pensare e organizzare lo sciopero come un processo e non solo come un singolo evento. Se vogliamo che la nostra voce collettiva diventi protagonista della realtà post-pandemica, se vogliamo interrompere la riproduzione delle gerarchie dello sfruttamento, se vogliamo liberare il nostro potere, dobbiamo insistere nel mostrare i processi transnazionali che danno forma persino alla nostra quotidianità. Dobbiamo continuare a costruire le connessioni transnazionali che animano la nostra piattaforma. Sappiamo che la nostra lotta è legata all’insurrezione contro l’oppressione razzista e il suo nesso viscerale con lo sfruttamento che per mesi ha scosso gli Stati Uniti. Anche a prescindere dalla comunicazione diretta tra le lotte nei magazzini di Amazon o le manifestazioni di Black Lives Matter da una parte all’altra dell’Atlantico, questi movimenti sono una prova ulteriore della circolazione dello sciopero e dell’insubordinazione nel presente. Lo sciopero sociale transnazionale è essenziale perché affronta le condizioni sessiste e razziste della produzione e della riproduzione sociale come parte di una più ampia logistica dello sfruttamento. Lo sciopero sociale transnazionale è più essenziale che mai.