Le scale di Capitol Hill sono state riconquistate. Un paio di settimane dopo l’invasione di complottisti, suprematisti, neonazisti, personaggi da circo e semplici trumpiani l’ordine è stato riportato militarizzando l’intera città di Washington. Una cosa però hanno in comune la cerimonia dell’insediamento di Biden e i fatti del 6 gennaio. Entrambi hanno visto partecipanti bianchi a grande maggioranza con neri e latini nel ruolo di convitati di pietra. Gli uni per non farli uscire dai gironi infernali del razzismo istituzionale, gli altri per blandirli con riconoscimenti formali senza mettere in discussione la sostanza di rapporti sociali intrisi di razzismo. La regia dello spettacolo della cerimonia di insediamento è stata molto attenta a veicolare una grande quantità di messaggi simbolici tesi a evocare una fantomatica unità nazionale. Un esempio di uso politico delle telecamere con panoramiche, inquadrature, primi piani, fuori e dentro Capitol Hill, sempre molto equilibrati e politically correct. Cosa ha detto Biden di significativo nel suo discorso inaugurale? Poco o nulla. Se non un generico appello a porre fine alla «guerra incivile che mette il rosso contro il blu, rurale contro urbano, conservatore contro liberale. Possiamo farlo, se apriamo le nostre anime invece di indurire i nostri cuori, se mostriamo un po’ di tolleranza, se siamo disposti a metterci nei panni dell’altra persona». Il nuovo comandante in capo si è limitato a un richiamo quasi cattolico a considerare anche la condizione dell’altro da sé. Niente a che vedere con un’idea forte, come fece Trump quattro anni fa quando contrappose il popolo – qualunque cosa potesse significare ‒ alle élites di Washington e più in generale delle due coste. Biden e la parte del suo staff incaricato della comunicazione hanno lavorato molto – nelle ultime settimane ‒ per costruire immagini positive e rassicuranti del futuro. Hanno rinforzato lo storytelling di un governo che trova un punto di equilibrio tra le diversità razziali, di genere e di orientamento sessuale. Nella squadra di Biden il 50% sono donne, ci sono afroamericani, latini, nativi ed etero, gay e transgender: un governo come fotografia della società. Una fotografia, anche piuttosto patinata, che in realtà tende a offuscare le gerarchie mediante le quali si esercita il potere. Accanto alla coppia Biden-Harris, con quest’ultima che si è già conquistata un ruolo politico, ci sono come Segretario di Stato Tony Blinken, già vicesegretario di Stato di Obama. Janet Yallen, ex presidente della Federal Reserve, come Segretaria al Tesoro. Il generale Lloyd Austin, un militare e non un civile come di solito, a capo del Pentagono e John Kerry con il ruolo di raccordo con il partito Democratico. Queste le figure che compongono la nuova linea del comando politico. Un esecutivo nell’esecutivo che costituisce il nocciolo duro dell’amministrazione di Biden. D’altra parte, la scelta è stata di fare 17 tra ordini esecutivi, memorandum e proclamation il primo giorno e altre decine nelle due settimane successive. Tutti strumenti legislativi immediatamente operativi che non devono passare dal voto del Congresso. La giustificazione è quella di cancellare l’eredità di Trump sulla pandemia, l’immigrazione, il cambiamento climatico, i finanziamenti alle imprese e la distribuzione di denaro a partire dai redditi bassi. Ma come è facilmente comprensibile, facendo un uso massiccio di decreti esecutivi non si azzera solo una situazione precedente, nei fatti si pongono anche le basi e i vincoli per le politiche del futuro. In questo Biden non introduce alcuna discontinuità rispetto a Trump e allo stesso Obama. La necessità, in piena pandemia che ha già fatto 400mila morti, di ristrutturare le catene globali del valore innanzitutto nelle grandi aree metropolitane – non si dimentichi che Biden vince in tutte le città sopra i 150mila abitanti esclusa Oklahoma City e in contee che complessivamente producono il 70% del PIL statunitense – diventa l’obiettivo principale della nuova Presidenza. E Trump? È obbligato a non sbagliare la prossima mossa, vicende giudiziarie e ricadute dell’impeachment permettendo, pena un forte ridimensionamento politico. Fondare un nuovo partito, fare una riedizione del Tea Party tra i repubblicani, organizzare una lobby finanziaria molto aggressiva sembrano le alternative credibili allo stato attuale. I quasi 75 milioni di voti che ha ottenuto non sono l’espressione di un blocco sociale e tanto meno politico. Sono un insieme piuttosto articolato di pulsioni autoritarie, comportamenti suprematisti, deliri complottisti ma anche di variegate condizioni sociali, convinzioni politiche, progetti economici. Trump è stato il collante di questi mondi e venendo meno riemergono interessi e aspettative diverse. Soprattutto nella galassia delle milizie e delle organizzazioni dell’estrema destra che, accentuando la competizione politica tra loro, potrebbero innalzare il livello di scontro con i movimenti sociali e con le istituzioni federali. La polarizzazione della società americana, di cui si è tanto parlato in questi mesi, diventa molto complicato individuarla in modo univoco se si guarda rispettivamente a livello sociale, politico, territoriale, generazionale e di genere. Avremmo delle mappe non sempre sovrapponibili. Lo stesso discorso potremmo farlo, per altri versi, per gli 81 milioni di voti di Biden. Il referendum per un salario minimo di 15 dollari all’ora che vince nettamente nella trumpiana Florida e il referendum per diminuire i diritti dei lavoratori della gig-economy che vince altrettanto nettamente nella ultrademocratica California sono l’esemplificazione plastica delle contraddizioni. Gran parte del movimento sociale esploso la scorsa estate e delle associazioni, delle organizzazioni alla sinistra del Partito Democratico ha attraversato le elezioni presidenziali riconoscendosi in vario modo nel titolo dell’appello promosso, tra gli altri, da Noam Chomsky e Cornel West: cacciare Trump e combattere Biden. Ora che Trump non è più presidente si apre una fase nuova. Combattere Biden implica non avere illusioni o collateralismi di sorta con il Partito Democratico e questo non è detto che accada senza una ripresa delle lotte e di un’autonomia politica dei movimenti sociali.
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