di PAOLA RUDAN
In Italia la produzione di bell hooks – il nome che si è data la femminista nera nordamericana Gloria Jean Watkins combinando quelli della madre e della nonna materna – non ha avuto una diffusione editoriale pari a quella di autrici come Judith Butler. Questo fatto non dipende solo dal mercato culturale, ma anche dalla politica della teoria. Butler porta avanti quel processo di «decostruzione» del concetto di «donna» che bell hooks ha contribuito ad avviare già negli anni Settanta quando, imprevista studentessa a Stanford – una proletaria nera in una cattedrale accademica bianca – scopre l’indifferenza verso il razzismo e il dominio di classe coltivata dal femminismo borghese e da quello radicale, non meno che dai Women’s Studies in via di istituzionalizzazione. Tra il femminismo nero di bell hooks e la gender theory, però, non c’è la continuità che sembrerebbe suggerire una storia lineare e progressiva della decostruzione. Anzi, quello che bell hooks rivendica come gesto inaugurale del suo impegno femminista è la comprensione che il genere – ma si potrebbe dire anche il sesso, o la sessualità – non è l’unica determinante della costruzione della femminilità e dell’esperienza di una donna. Quest’esperienza, al contrario, è segnata materialmente dal colore della pelle e dal denaro, dal razzismo e dallo sfruttamento. E anziché trattare il concetto di «donna» come un costrutto discorsivo, un’astrazione della quale liberarsi per via del suo opprimente portato normativo, bell hooks ne fa il nome di un’esperienza singolare e collettiva carica di storia e di conflitto e proprio per questo indispensabile a comprendere e contestare l’ordine dei rapporti sociali che la determina. Segnano quindi uno scarto, rispetto allo standard che la gender theory detta al mercato culturale, la pubblicazione da parte della neonata Tamu Edizioni di Elogio del margine ‒ una raccolta di saggi a cura di Maria Nadotti usciti per la prima volta in Italia nel 1998, ora affiancati da Scrivere al buio, la bellissima intervista di Nadotti a bell hooks dello stesso anno ‒ e la prima traduzione italiana di Insegnare a trasgredire, del 1994, pubblicata per Meltemi a cura di feminoska, Rahel Sereke, Mackda Ghebremariam Tesfau’ e il gruppo di ricerca Ippolita. Sono testi ‘datati’ ma per niente obsoleti ‒ come rendono evidenti anche le introduzioni e postfazioni delle curatrici ‒ e non possono esserlo per almeno due ragioni. La prima riguarda il peso e il ruolo che bell hooks accorda alla storia – della schiavitù, della segregazione, del razzismo e della lotta per porvi fine – nella genesi del presente globale; la seconda è l’urgenza che anima la sua pratica teorica, la stessa che negli ultimi anni ha innescato movimenti sociali di massa come Black Lives Matter negli Stati Uniti e il femminismo transnazionale dello sciopero: l’urgenza di contestare e interrompere la riproduzione razzista e patriarcale della società capitalistica.
Nel corso di tutta la sua riflessione, bell hooks tesse un legame vivo, incarnato, presente tra l’esperienza singolare e la storia e tra queste e la teoria femminista. Storia non è soltanto memoria o culto nostalgico di fatti passati, ma conoscenza del processo di costituzione di un sociale che lei chiama «patriarcato capitalista suprematista bianco». Questo «sintagma addensato ai limiti dell’implosione» ‒ per usare le parole di Nadotti ‒ esprime il nesso non contingente ma sistematico tra lo sfruttamento, l’oppressione razzista e il dominio maschile. Contemporaneamente, esso pretende di dare conto della posizione che ciascuno occupa nell’insieme sociale. La storia di bell hooks si svuota di ogni qualificazione universale per diventare conoscenza che scaturisce da una posizione tanto concreta – radicata cioè nell’esperienza – quanto politica, perché produce una visione di parte rendendo possibile la teoria. Arrivata a Stanford grazie al supporto della sua comunità nera del Sud ‒ per la quale l’istruzione e la coltivazione del talento erano fondamentali nella lotta contro l’oppressione razzista ‒ e nonostante l’opposizione di suo padre ‒ convinto che coltivare l’intelletto avrebbe ostacolato il matrimonio al quale era destinata ‒ bell hooks non può scegliere tra l’essere donna oppure nera. È l’esperienza di questa identità impossibile che ai suoi occhi squalifica ogni storia della schiavitù e del razzismo che non dia conto del sessismo, e ogni teoria femminista che non si misuri con il problema della razza. Il suo primo libro, Ain’t I a Woman ‒ che racconta di aver scritto all’inizio degli anni Settanta e pubblicato dieci anni dopo, a causa della chiusura del mercato culturale nordamericano al femminismo nero ‒ nasce dalla necessità di spezzare questo stallo attraverso una storia femminista del razzismo che struttura la società americana. Solo se fa propria questa storia la teoria femminista può diventare una pratica contro il razzismo, anziché legittimare e riprodurre le gerarchie sociali sessuate cui questo dà forma.
In Elogio del margine si trovano le tracce della storia scritta nelle pagine di Ain’t I a Woman, quando bell hooks torna a parlare dello stupro delle donne nere nell’età schiavista non soltanto come un fatto ordinario e ordinariamente taciuto dalla storiografia, ma soprattutto come operatore societario che dà forma alle gerarchie sessuate e razziste del capitalismo americano, organizzando lo spazio domestico, il mercato del lavoro e quello culturale, la sessualità e la sua rappresentazione. Mentre assoggetta le donne nere, lo stupro compiuto dal padrone schiavista codifica la soggezione degli uomini schiavi nei termini patriarcali di un’evirazione simbolica e spinge le donne bianche ad accettare e praticare il razzismo come compensazione della propria subordinazione al dominio maschile. Qui prende forma una storia che è politica perché pesa sulla mente dei viventi e ritorna nell’identificazione patriarcale tra liberazione e virilità promossa anche dalle organizzazioni del Black Power, come nell’incapacità del femminismo di farsi carico del razzismo e di un potere che le donne bianche non hanno solo subito, ma anche praticato lungo la linea del colore e delle gerarchie di classe. Per questo bell hooks critica il femminismo borghese, che vede nel lavoro una via verso l’emancipazione delle donne e tace sul fatto che le donne nere hanno sempre lavorato, e che in molti casi è stato (e continua a essere) proprio il loro lavoro servile a permettere alle bianche di emanciparsi dalla segregazione domestica imposta dall’ordine patriarcale. Per questo, ancora, critica il femminismo radicale, che mentre professa l’uguaglianza delle donne nell’oppressione e la loro conseguente sorellanza, universalizza l’esperienza della donna bianca di classe media, finendo per cancellare la storia e la forza antagonista di nere e operaie.
Il fondamentale saggio Casa. Un sito di resistenza non è soltanto la narrazione sentimentalmente avvincente di un’esperienza biografica diversa da quella delle donne bianche. Esso è soprattutto un atto di accusa verso una teoria femminista che – trattando maternità e cura astrattamente, come ruoli imposti a tutte le donne dall’ordine patriarcale – non comprende (nel doppio senso della conoscenza e della presa di parte) l’esperienza di quelle donne nere che le hanno praticate contro il suprematismo bianco, restituendo ai propri amati il senso di sé e della libertà che il razzismo cercava di annientare fuori dalle pareti domestiche. Anche la famiglia nera è patriarcale, come bell hooks sa fin troppo bene, ma ciò significa che il patriarcato rompe dall’interno il fronte di liberazione dal razzismo almeno quanto il razzismo e il dominio di classe fratturano e ostacolano l’unità delle donne contro il patriarcato. L’esperienza storica delle donne nere rende questi antagonismi visibili. La teoria femminista che si radica in quell’esperienza li riconosce e raccoglie la sfida di articolarli in un discorso contro-egemonico.
Questo femminismo non è una politica dell’identità, che bell hooks critica apertamente nei due volumi senza però rinunciare a cogliere il portato polemico che essa può esprimere quando rimane l’ultima risorsa praticabile per avere visibilità e voce. La «decostruzione» che lei rivendica in relazione al concetto di «donna» effettivamente scompone l’identità ‒ perché lavora contro l’idea di una «monodimensionalità» dell’esperienza ‒ mentre al contempo squalifica la ricerca dell’«autenticità», di una posizione essenzialmente estranea al potere. D’altra parte, muovendosi nel plesso semantico ‘esperienza, identità, essenzialismo’, hooks registra che l’essenzialismo è comunemente attribuito a chi parla da una posizione di oppressione e rivendica la propria esperienza come fondamento di un esclusivo diritto di parola su di essa. Mai, o molto di rado, l’imputazione di essenzialismo è rivolta a chi si trova in una posizione di privilegio: non esiste un essenzialismo della ricchezza o del dominio, come se fossero condizioni vuote, astratte, indifferenti. Con un’attitudine che condivide con Spivak, alla quale fa espressamente riferimento, hooks ritiene la decostruzione tanto necessaria quanto rischiosa, se finisce per ributtare nel silenzio chi prende la parola in nome della propria esperienza politicizzandola come identità. D’altra parte, l’identità è politicamente significativa quando è affermata contro un’ingiunzione al silenzio, ma rischia di chiudere lo spazio a quella «politica dell’articolazione» che richiede – affinché sia possibile la costituzione di un collettivo – la comunicazione anche conflittuale tra posizioni che, per quanto diverse, sono connesse all’interno del patriarcato capitalista suprematista bianco, come quelle di donne bianche e nere. L’elogio del margine acquista significato contro questo rispecchiamento asimmetrico tra il privilegio e la sua assenza. Il margine non è soltanto una posizione oggettiva determinata dall’esperienza. Esso perderebbe ogni capacità politica se fosse identificato con la condizione di vittima. Margine è la prospettiva in cui si stringono l’esperienza e la presa di posizione, il punto dal quale affermare uno «sguardo oppositivo» che permette di esprimere un giudizio sulla realtà – l’arte, il cinema, la letteratura, non meno della storiografia e della teoria femminista – per articolare il discorso contro-egemonico necessario alla pratica politica. La politica del margine è antielitaria: si può contrastare il linguaggio del padrone usandolo e trasformandolo, ma non si può produrre un discorso accessibile solo agli eletti e che accentua il senso della subalternità di coloro che non sono in grado di praticarlo. La teoria, per bell hooks, è una «pratica sociale» che non può perdere la propria connessione con la resistenza di cui le donne sono protagoniste anche se non usano la parola ‘femminismo’.
Questa «etica della lotta» non è necessariamente presente nei Women’s studies, con i quali bell hooks si confronta e scontra da quando è dentro all’accademia nordamericana, prima studente e dottoranda, ora Distinguished Professor in letteratura e Black studies. I Women’s studies sono stati una risorsa di cui parla con evidente passione, luoghi nei quali è stato possibile mettere in gioco la propria esperienza, contestare la teoria politica femminista indifferente al razzismo e ai rapporti di classe, trasformare l’aula in uno spazio di consciousness rising, un passo verso la politica fuori dall’aula. Tuttavia, l’istituzionalizzazione dei Women’s studies ha lentamente chiuso tutte queste possibilità e per ragioni diverse che hooks tratta diffusamente: la promozione sociale delle docenti – la mobilità di classe che compensa e attutisce il senso di oppressione e antagonismo verso il dominio maschile; il sospetto verso la critica nera del femminismo, che mettendo in questione l’unità del soggetto «donna» finiva per essere percepita come una minaccia per la disciplina in via di istituzionalizzazione; gli standard di valutazione critica sulla base dei quali vengono dispensati fondi e posizioni, molto più aperti verso quegli studi impegnativi dal punto di vista intellettuale ma non politico. Tra questi, le critiche metalinguistiche e postmoderniste del soggetto sovrano, che per bell hooks finiscono per essere soltanto «trucchi retorici» se si appropriano dell’esperienza della differenza e dell’alterità senza affrontare apertamente il fondamento razzista del soggetto «padrone di sé».
In Insegnare a trasgredire, l’università è trattata come un luogo eminentemente sociale nel quale il corpo non è riducibile a un costrutto discorsivo, disponibile alla trasformazione performativa, ma è al contrario presente nella sua determinazione materiale, reso significativo dai rapporti di dominio da cui è segnato. La centralità del corpo ha per bell hooks una specifica valenza istituzionale, pedagogica ed epistemologica: il numero ridotto di docenti nere nei corsi di Women’s studies è l’effetto istituzionale del razzismo che continua a operare nell’accesso alle posizioni accademiche, nella distribuzione delle risorse, nei programmi di studio; la presunta separazione tra mente e corpo che presiede all’insegnamento ‒ i cui contenuti possono essere così trasmessi autoritativamente, come verità oggettive e indiscutibili – è un modo per nascondere e neutralizzare la parzialità dell’esperienza sociale e della sua elaborazione, degli interessi e dei giudizi comunicati da chi insegna; l’insegnamento assume così un carattere «depositario» ‒ come hooks lo definisce riprendendo Paulo Freire ‒, viene ridotto a «informazione» anziché essere «impegnato». L’impegno invece consiste nel riconoscere i rapporti sociali all’opera in ogni classe, nella produzione e comunicazione del sapere, e si esprime nella centralità accordata alle esperienze di chi apprende non solo come espressione singolare delle gerarchie sociali realmente esistenti fuori dalla classe, ma anche come vettori di antagonismi politicamente promettenti. Insegnare a trasgredire significa «sabotare la nozione di docente come mente onnipotente e onnisciente», ricondurre l’esperienza singolare alla sua dimensione sociale, al dominio (praticato e subito) che la produce, e indicare la possibilità di rifiutare la posizione che il dominio impone.
Nell’introduzione a Scrivere al buio, Maria Nadotti racconta la domanda che bell hooks le ha rivolto quando, nel 1997, l’ha contattata per intervistarla: «che interesse può esserci da voi per il mio lavoro? E quale può essere il mio per voi»? La risposta a questa domanda può trovarsi nel modo in cui hooks reclama a più riprese la sua attenzione per una prospettiva «globale», che condivide con gli studi postcoloniali. L’esperienza della donna nera è singolare, ma il suo «sguardo oppositivo» esprime un «privilegio epistemico» ‒ come Chandra Talpade Mohanty, con cui hooks ha collaborato, definisce la prospettiva della donna del Terzo Mondo – perché genera una conoscenza complessiva della società capitalistica portando alla luce la funzione costituzionale e la connessione inestricabile di patriarcato e razzismo al suo interno. Mentre gli effetti sociali del Covid-19 hanno reso evidente il carattere «essenziale», del lavoro delle donne migranti, tanto imprescindibile quanto svalorizzato socialmente, e la centralità delle catene globali della cura, diventa fuori dal tempo un femminismo che inneggia alla cura come metafora di una società pacificata, almeno quanto lo erano negli anni Novanta gli studi che insistevano sull’affetto tra padrona e serva come alternativa al razzismo e alla gerarchia di classe che dava forma al loro rapporto, anche all’interno della comune oppressione patriarcale. Il legame tra storia ed esperienza, e tra queste e la teoria che emerge dalla riflessione di bell hooks diventa in questo senso un antidoto contro un femminismo che condivide il carattere «a-storico» della cultura contemporanea, finendo per essere uno «stile di vita» anziché uno scontro. Bisogna «imparare a vedere», dice bell hooks evocando le parole di sua nonna e ciò non riguarda soltanto l’estetica antagonista della nerezza di cui ampiamente discute. Si tratta, piuttosto, di «un potenziamento della consapevolezza e della comprensione» che non esiste una condizione femminile, che è necessario dare nome alla determinazione sociale dell’esperienza sessuata per costruire un discorso contro-egemonico per la liberazione, pensando il femminismo come «pratica di massa» capace di aggredire efficacemente quel patriarcato capitalista suprematista bianco che, in modi diversi, dà ancora forma al nostro presente.