di PAOLA RUDAN
La versione breve di questa recensione è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 16 dicembre 2020
Da tempo, anche sotto l’impulso della sua presenza attiva nel femminismo popolare latino-americano, la riflessione di Silvia Federici ha grande diffusione editoriale. Ne sono testimonianza la seconda edizione per ombre corte di Il punto zero della rivoluzione, e la pubblicazione di due nuove raccolte – Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx e Caccia alle streghe, guerra alle donne ‒ per DeriveApprodi e Nero edizioni. Ci sono in entrambi i casi contenuti inediti in Italia, insieme a saggi già noti ora riassemblati secondo due linee problematiche e di ricerca tra loro legate. Genere e Capitale, espone il confronto e lo scontro di Federici con Marx, che in Caccia alle streghe trova un campo di applicazione nella comprensione femminista di quel processo che Marx ha definito «accumulazione originaria» del capitale. I testi vanno quindi letti insieme, bisogna farlo nel lungo arco polemico in cui hanno visto la luce – dagli anni Settanta ai giorni nostri ‒ e ricercando gli strumenti che sono in grado di offrire alla critica e all’iniziativa politica femminista nel presente globale.
Marx necessario, Marx insufficiente. Sono termini che tornano da oltre quarant’anni nel dibattito sul rapporto tra il femminismo e Marx, o tra il femminismo e il marxismo. Marx è necessario, secondo Federici, perché la sua analisi della riproduzione della forza lavoro ha offerto strumenti per concettualizzare la funzione della famiglia nel processo di valorizzazione del capitale, e con essa la profondità dell’antagonismo di classe anche al di fuori dei cancelli della fabbrica. Necessario, ancora, Marx lo è perché nella sua comprensione della «cosiddetta accumulazione originaria» si trova la possibilità di mostrare come la violenza levatrice della società capitalistica si sia abbattuta sulle donne determinando la caccia alle streghe della prima età moderna. Questo itinerario nel passato – in cui la ricostruzione storica è posta al servizio della comprensione del presente – permette di vedere che il processo di enclosure avvenuto in Inghilterra tra il XVI e il XVII secolo ha portato con sé un aumento del controllo statale sulla sessualità e sulla capacità procreativa delle donne; permette inoltre di ricostruire il modo in cui le donne sono state espropriate della loro autorità comunitaria, del loro ruolo di «tessitrici della memoria», dei loro saperi – a partire da quello magico-medico –, delle loro autonome relazioni reciproche (la cui demonizzazione si riflette nella progressiva accezione negativa attribuita al termine gossip, originariamente usato per indicare l’amicizia femminile e poi ridotto a «pettegolezzo»); permette infine di capire come sono state respinte nello spazio domestico e incardinate alle funzioni riproduttive, oppure trattate come strumenti ‘pubblici’ di soddisfazione sessuale piegati alle esigenze della disciplina del lavoro. Così, per Federici, la caccia alle streghe è attuale in un duplice senso: primo, essa mostra la continuità dell’accumulazione originaria nelle molte cacce alle streghe che oggi in Asia, Africa e America latina si manifestano in una crescita esponenziale della violenza maschile contro le donne «in quanto direttamente responsabili della riproduzione delle loro comunità», e si moltiplicano in relazione strettissima con i processi di espropriazione ed estrazione che accompagnano l’espansione globale della società capitalistica; secondo, essa è l’innesco del processo storico di produzione tanto della casalinga e della prostituta come figure complementari e simmetriche della riproduzione sociale del capitale, quanto di un «tipo di individuo» disciplinato al lavoro attraverso la distruzione della concezione magica del corpo e la sua razionalizzazione.
In questa lettura si rivela la fondamentale insufficienza di Marx, colpevole di molte colpe a partire da una concezione del capitale come forza progressiva ed emancipatoria. Marx non vede, secondo Federici, che il capitalismo è in realtà una «controrivoluzione», ovvero la risposta delle élite feudali alle rivolte del proletariato urbano e rurale del XIV secolo, comprese quelle delle donne contro le recinzioni e la povertà. Marx non capisce – spiega Federici in Genere e Capitale ‒ che quest’ultimo non ha creato la cooperazione sociale, ma ha spazzato via forme comunitarie di relazione, di proprietà comune e lavoro cooperativo di cui le donne erano storicamente protagoniste. Siccome è convinto che l’industria su larga scala e lo sviluppo tecnologico siano condizioni necessarie per l’instaurazione del comunismo, siccome abbraccia una concezione «stadiale» della storia e dello sviluppo capitalistico «che produce tendenzialmente l’omogeneizzazione di tutte le forme di lavoro», Marx non ritiene necessario occuparsi del lavoro delle donne e di quello degli schiavi. In modi diversi queste sarebbero, per lui, forme di produzione ‘arretrate’, irrilevanti per il processo di valorizzazione del capitale e dunque anche dal punto di vista politico. La fede nel progresso e nello sviluppo tecnologico spiegherebbe, insomma, l’indifferenza di Marx verso forme di sfruttamento basate sul genere e la razza. Solo registrando questi limiti si può davvero riconoscere il processo di disciplinamento a cui sarebbe stato sottoposto il lavoro riproduttivo delle donne, e quindi ad esempio leggere la psicanalisi freudiana come una sorta di strategia capitalistica di addomesticamento della sessualità femminile e di neutralizzazione della liberazione sessuale nel frattempo conquistata dalle donne. Anche se aspira a far maturare, da una prospettiva femminista, il «seme rivoluzionario» contenuto nell’opera di Marx, il giudizio di Federici è senza appello dal punto di vista della critica e da quello politico. Affermare che il capitalismo è progressivo significa stare «dalla parte sbagliata delle lotte». E questa sarebbe la posizione di Marx, accusato di moralismo nei confronti delle donne operaie, di avere evitato di schierarsi dalla loro parte nelle riunioni della Prima Internazionale, di essere stato diffidente verso il suffragismo e infine anche di avere abbracciato una concezione strumentale della natura che gli avrebbe impedito di prevedere la devastazione ambientale determinata dallo sviluppo tecnologico industriale.
È difficile non chiedersi per quale ragione Federici continui a riferirsi a Marx, visto che ritiene la sua analisi sostanzialmente sbagliata, quando non connivente con lo sviluppo capitalistico. Ma a questo punto vale forse la pena domandarsi a quale Marx si riferisca, non tanto per ingaggiare interminabili scontri filologici, ma riconoscendo che ogni lettura di Marx è polemica e di questa polemica bisogna dare conto. Dunque, quello di Federici non è il Marx dei Manoscritti economico-filosofici dove una parte del femminismo – a partire da Simone de Beauvoir ‒ ha ritrovato quella concezione storica della natura che permette di contestare la subordinazione delle donne riconoscendo nel rapporto tra i sessi e nella divisione sessuale del lavoro il primo indicatore e la prima forma del dominio sociale. Non è nemmeno il Marx della riflessione sulle forme di proprietà precapitalistiche propedeutica al Capitale, né quello dei Quaderni antropologici, poiché non sarebbe possibile alcuna idealizzazione della vita comunitaria riconoscendo, come fa Marx, il carattere dispotico della sua organizzazione patriarcale. Non si tratta nemmeno del Marx storico del globale valorizzato dagli studi post-coloniali, anche femministi, poiché quel Marx comprende che il capitale si estende sul mercato mondiale non attraverso l’omogeneizzazione, ma per omologazione, sincronizzando sotto il proprio comando modalità di oppressione e sfruttamento eterogenee e irriducibili all’organizzazione industriale e tecnologicamente avanzata della produzione. E non è, infine, il Marx cronista del movimento sociale, l’autore di innumerevoli articoli che sulla stampa europea e nordamericana danno conto delle insorgenze che, dalla lotta degli schiavi per l’emancipazione alla rivolta dei Sepoys in India, rivelano imprevisti momenti della lotta di classe in pelle nera a migliaia di chilometri da Manchester. Il Marx di Federici è piuttosto quello di una «sinistra» incastrata nel determinismo scientifico di un certo marxismo novecentesco, e quasi all’estremo opposto quello del «marxismo autonomo italiano» e in particolare di Antonio Negri, il quale vedrebbe nell’automazione e nella possibilità di eliminare il lavoro vivo dal processo di produzione «l’aspetto più rivoluzionario della teoria di Marx».
Si tratta, appunto, di un uso polemico di Marx. Negli anni Settanta, questo è stato mosso dall’esigenza di fare del femminismo un momento autonomo della lotta di classe, rifiutando legittimamente il silenzio sul lavoro riproduttivo delle donne imposto dalla centralità esclusiva attribuita dal movimento operaio al lavoro salariato. Negli ultimi anni, l’uso polemico di Marx è innescato invece dalla rilevanza che Federici riconosce – criticando un certo femminismo ‘sviluppista’ ‒ alle esperienze del femminismo popolare latino-americano, al ruolo delle donne nell’economia di sussistenza delle comunità africane, alle lotte di quelle indigene contro l’espropriazione. Queste esperienze riqualificano l’identificazione delle donne con il lavoro riproduttivo denunciata in Contropiano dalle cucine reinscrivendola nell’orizzonte dei commons, che a loro volta dovrebbero dare un senso nuovo alla parola comunismo. In questa prospettiva si manifesta l’urgenza, esplicitata da Federici, di produrre un «processo di rivalutazione sociale delle attività riproduttive» che permetta alle donne di essere autonome, anziché costrette ad accettare condizioni di lavoro e familiari degradanti e pericolose. Tuttavia, questa enfasi sulla riproduzione comunitaria è possibile solo attraverso una «storia fabbricata», come Federici definisce quella che è venduta assieme ai gadget della caccia alle streghe nei negozi di souvenir, che idealizza il passato precapitalistico come un tempo idilliaco in cui le donne «erano considerate e si consideravano cittadine a pieno titolo». Il comprensibile rifiuto di qualsivoglia legittimazione del presente in nome di una concezione «stadiale» della storia finisce così per rendere irrilevante la comprensione delle tensioni e degli antagonismi sessuati che vivono all’interno di ogni comunità, ma anche del rapporto operativo tra le espropriazioni alle quali si oppongono le donne indigene e lo sfruttamento industriale del lavoro nelle metropoli di tutto il mondo, tra l’intensificazione della violenza maschile e la messa al lavoro delle donne nelle fabbriche, nei magazzini o nelle case, tra il razzismo e l’organizzazione transnazionale delle catene del valore e della cura. E non è un caso che, nonostante il suo attivismo in America latina, scompaia dall’orizzonte politico di Federici il movimento reale dello sciopero femminista che negli ultimi anni ha ostinatamente tessuto connessioni globali tra questi piani eterogenei, tra le lotte che li attraversano, tra le donne che ne sono protagoniste. E che ancora dovrebbe essere una risorsa per rovesciare la svalutazione sociale del lavoro delle donne in una forza politica essenziale, transnazionale e collettiva contro le condizioni patriarcali e razziste di sfruttamento nella società pandemica.