di FRANCESCA DELLA SANTA
Zehra Doğan, artista e giornalista curda, incarcerata per la prima volta nel 2016, poteva essere una delle tante vittime delle prigioni turche, oscurata e inghiottita nella notte per un disegno che aveva l’ardire di mostrare l’incubo della realtà. Nusaybin, distrutta dall’esercito turco, una delle tante frontiere su cui Erdoğan gioca da anni la sua battaglia di supremazia e annientamento del popolo curdo, era apparsa in una fotografia celebrativa di propaganda. Guardando quelle bandiere con la mezzaluna che si stagliano sulle case trivellate l’artista disegna e posta su Twitter il suo racconto fatto di carrarmati, scorpionici intenti a divorare la terra mentre avanzano irrefrenabili con i lunghi bracci di morte che acciuffano e distruggono civili, case e colori che abbandonano la tavolozza. Rimane solo quell’incubo rosso con la mezzaluna e la stella, bianche, a strappare la vita.
«Sebbene artista, ha sorpassato il limite della critica», così si legge sulla sentenza che la condanna a due anni di carcere. Quella sentenza oggi sembra una promessa di battaglia, perché Zehra Doğan in carcere ha continuato a dipingere, a disegnare e immaginare, con tutto quello che aveva a disposizione e, ora che è uscita, la sua arte prorompe in una cruda denuncia contro lo Stato turco, ma anche contro un’Europa che si ostina a non vedere. Quanto può essere politica l’arte? Tanto quanto viene negata nella sua esistenza, tanto quanto deve essere soppressa, cancellata e strappata per negarne la presenza, tanto quanto può fare paura: tutte le volte che trapassa il limite della critica. L’arte di Zehra Doğan costantemente ricorda quell’esigenza pressante di libertà che inchioda e travolge. Davanti alle sue tele, sudari sporchi di vita dove le donne dipinte scrutano con gli occhi neri e sgranati tutto quello che esiste fuori, siamo sconvolti e increduli dal silenzio che le circonda.
Le sue opere onnivore s’imprimono su qualsiasi materiale, dai giornali vecchi alla carta igienica a sé stessa, in una continua ricerca del segno, della trasformazione. Nelle sue performance la si vede, mentre lavora, entrare in simbiosi con il disegno, imprimersi con mani, piedi e corpo su quel rettangolo che non può essere lasciato vuoto dal racconto. In un sussurro che diventa vociare si sente la vita, l’urgenza della sua storia che intreccia, include e accoglie quella di molte altre donne. Mentre lavorava incessantemente nelle carceri di Mardin, Diyarbakir e Tarso, usando sangue mestruale e fango come tempere, Zehra Doğan sfidava ancora e ancora Erdoğan coinvolgendo le altre carcerate che diventavano compagne e amiche, trasformando la sua battaglia in una lotta collettiva il cui risultato sono pitture che clandestinamente, ma inesorabilmente, fuoriescono dall’oscurità.
Il soggetto della sua opera è la ricerca di una memoria, lo stagliarsi di una possibilità di vita diversa che s’intravede nelle trecce scure delle sue donne, nei loro sguardi tremendamente umani, complessi e dolorosi, nei corpi che si attorcigliano e si uniscono, nelle processioni di madri che ricordano le figlie e i figli caduti. Quando la pittura sembra essere scomparsa dalla scena artistica, quasi una tecnica di minor rilievo, Zehra Doğan dipinge perché, semplicemente, non può farne a meno e non c’è niente di simbolico nella sua arte, niente di eroico. La trama delle storie che tesse mentre lavora è quella di chi combatte dalle montagne profonde fino ai piccoli villaggi bombardati in una lotta costante e senza tregua, necessaria come l’aria stessa. È la resistenza del suo popolo quella di cui racconta mentre lavora su tappeti curdi vecchi e logori la cui trama antica s’intride di sangue e urina, mentre la storia del Kurdistan negato e quella della violenza sulle donne diventano compagni costanti nella rabbia e nell’affermazione di esistere di un corpo di sirena e nella furia di una libertà che, per quanto negata, non può essere sottratta.
Dopo 1.022 giorni di prigione la donna Zehra Doğan ora viaggia «libera». Libera come tutte quelle donne e quegli uomini curdi che esiliati girano per l’Europa, libera di non rientrare nel suo paese e di sapere che le sue compagne, quelle che dipingevano con lei e le prestavano capelli per i suoi pennelli, rimangono chiuse nelle mille prigioni in giro per la Turchia. Libera però di raccontare e ricordare, di costruire la sua storia e le sue immagini. È di questa libertà che narrano gli occhi sgranati e le labbra rosse e strette che si stagliano sulla carta di giornale. Di un dolore annodato nella memoria, in un intreccio che alla violenza non si sottrae, guardandola in faccia. Le sue guerriere, talvolta, hanno mitra a tracolla, ma sono quegli occhi neri che dichiarano che non possono e non sono disposte ad arrendersi, sono quegli occhi che accusano il mondo e lo sfidano a voltarsi, ancora una volta, dall’altra parte.