Intervista a M. – Non Una di Meno Transterritoriale Marche
Nel settore multiservizi il 70% sono lavoratrici donne, la maggior parte migranti. Da sette anni non hanno un rinnovo contrattuale e per questo motivo venerdì 13 novembre hanno scioperato. Qualche mese fa abbiamo intervistato M., attivista e lavoratric* della sanificazione, che ci ha raccontato di come la pandemia stava incidendo, nei primi mesi di lockdown, sui lavoratori e soprattutto sulle lavoratrici. A mesi di distanza quelle condizioni si sono trasformate a suon di Dpcm e di misure emergenziali. A partire dalle condizioni di lavoro e dalle differenze materiali che si danno all’interno del settore multiservizi, questa nuova intervista a M. fa emergere prospettive di lotta per il presente pandemico. Mentre il movimento femminista nel mondo e Non Una di Meno in Italia si preparano a un nuovo 25 novembre, la giornata contro la violenza maschile, la sfida è quella di articolare una presa di parola collettiva che riesca a dare voce alle lotte essenziali delle donne operaie e migranti che ostinatamente stanno combattendo per farsi valere contro la violenza dello sfruttamento.
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Venerdì ha scioperato il settore multiservizi a cui non viene rinnovato il contratto nazionale da più di sette anni. Qual è stata la partecipazione e la composizione dello sciopero?
Innanzi tutto, bisogna considerare che la modalità di sciopero è stata diversa rispetto al passato: definendo i «lavoratori essenziali» si comprende che chi svolge attività primarie non si può sottrarre dall’erogare il servizio perché essenziale alla tutela e alla salute. L’ultimo Dpcm intacca di fatto il diritto allo sciopero. Essere essenziali diventa una trappola e non è un caso, la parola è stata suggerita da Confindustria nel primo Dpcm di marzo facendola diventare un cappio al collo. Per questo motivo in molti luoghi di lavoro non si è potuto chiamare uno sciopero di 8 ore lavorative perché la sanificazione non lo rendeva possibile e si è dovuto frammentare lo sciopero. Tuttavia, a parte questo la partecipazione è stata altissima: 80% nelle aziende e 100% nelle RSA pubbliche e private. Lo sciopero è stato chiamato per il rinnovo del contratto nazionale, che fa schifo e sarebbe necessario riscrivere a partire ad esempio dalla cancellazione dell’ente bilaterale.
Le lavoratrici di questo settore sono per il 70% donne, il più delle quali migranti. All’interno della piattaforma sindacale non si fa mai riferimento a queste condizioni. Questa indifferenza verso le condizioni in cui le donne vengono messe al lavoro, che cosa produce all’interno della lotta?
Quando si parla di lotte e di sciopero tutto viene diluito in una terminologia neutra, ma noi sappiamo, come femministe, che niente è neutro e quando lo si mette in una posizione neutra in realtà lo si invisibilizza. Non parlare esplicitamente di alcune condizioni significa non considerare quelle asimmetrie di potere e di dominio legate a razza e genere. Si parla di lotte di classe di lavoratrici della sanificazione o di altri settori, ma ci si scorda che non parlare esplicitamente di donne o di migranti significa non vedere delle differenze che poi esistono anche nelle possibilità di lotta. Io in quanto bianca posso scioperare più facilmente, sono avvantaggiata all’interno del bacino dello sfruttato: se sei migrante o nera la tua posizione è più difficile. Scrivere le rivendicazioni senza prendere in considerazione questo presta il fianco al datore di lavoro. Queste differenze sono il grimaldello su cui si basa la violenza padronale per incidere e impedire le alleanze fra le lavoratrici. Le donne non bianche spesso devono accettare qualsiasi condizioni nel multiservizi e per questo vengono usate all’ennesima potenza. Le lotte non sono tutte uguali e noi non siamo tutti uguali sui posti di lavoro. Esiste una differenza fra lavoratrici donne e lavoratori. Una piattaforma generalizzata nelle rivendicazioni rileva un problema di tutti i sindacati e significa non vedere le direzioni verso cui si muove il sistema padronale. Tralasciare le condizioni è problematico perché è vero: la partecipazione allo sciopero è stata all’80%, ma ad esempio se guardiamo i dati vediamo che le donne migranti e non bianche hanno preferito fare uno sciopero di due ore e non perché meno combattive, ma perché più ricattabili. Le condizioni salariali sono sempre legate alle condizioni materiali di classe e razza…questo è evidente anche nel modo in cui selezionano il personale nel multiservizi: scelgono donne sole, sopra i 40 anni, migranti e di origine straniera. Non si aspettavano che avremmo scioperato, ma si deve sapere che farlo non è possibile per tutte e bisogna riconoscere lo sforzo che si fa nel farlo, lo sciopero femminista degli ultimi cinque anni in questo senso ha insegnato tantissimo e questa visione dovrebbe passare in tutti i sindacati.
In generale, qual è il rapporto delle lavoratrici del tuo settore con il sindacato?
Fino a marzo in tutta Italia le iscritte erano il 20%, da me nessuna; dopo il Dpcm di marzo, «Ricresci Italia!», vi è stato un aumento considerevole… ti continuo a citare i Dpcm perché se si leggessero si potrebbe riscrivere tutta la storia di classe che è avvenuta negli ultimi 7 mesi. In una clausola si dichiarava che le imprese che hanno lavoratori positivi al Covid non hanno alcuna responsabilità giuridica nei loro confronti. A quel punto la presenza dei sindacati è diventata molto importante. Però possiamo vedere come le donne sindacalizzate sono per lo più donne bianche e italiane, eppure nel mio settore la maggior parte sono donne con permesso di soggiorno, ma non sono iscritte a sindacati perché hanno paura di perdere il lavoro. Inoltre, spesso sono le donne migranti a essere chiamate al nostro posto mentre scioperiamo: si trovano a fare da ammortizzatori… Questa è una sfida che deve essere dei sindacati tutti: tutelare le donne migranti. Visto la bassa occupabilità che hanno le donne in generale e in particolare quelle con un permesso di soggiorno che sono costrette ad accettare lavori bestiali, sono quelle a cui i datori di lavoro cambiano i turni più repentinamente. Un altro punto è invece la lotta nei luoghi dove i sindacati ancora non ci sono: noi prima della pandemia non eravamo inscritte, chiedere la copertura quando non ci sono sindacati già dentro la fabbrica è difficile e spesso non ti viene data perché si va a numero di tessere… e invece si dovrebbe pensare a tutelare le persone. Io penso che la lotta del multiservizi sia centrale anche per il movimento femminista.
Questo sciopero avviene durante un secondo lockdown che ha visto anche la chiusura delle scuole. Le lavoratrici come riescono a partecipare alla lotta in queste condizioni?
Proprio per il lockdown penso che una riflessione sul lavoro dovrebbe avere un ruolo centrale in questo momento nel movimento femminista. Noi venerdì abbiamo viaggiato a ritmi di panico: 20 persone in quarantena e 8 casi positivi nei reparti. Tu immaginati una donna con permesso di soggiorno buttata a lavorare in questa situazione, è assurdo: non ha nessuno, è sola. E ancora più assurdo è che a nessuna di noi viene fatto un tampone. Noi siamo l’unico settore a cui non viene fatto, io me lo sono dovuta fare privatamente, spendendo 75€, una donna migrante dove li trova? La questione della salute è strettamente legata al lavoro e noi dobbiamo tenerlo presente. I fili che legano razza genere e classe tornano continuamente. È il genere quello che sta sorreggendo l’intera pandemia, ma è assoggettato a una questione di classe data dalla continua pressione padronale e dalla rimessa a posto nel focolare domestico, ma allo stesso tempo viene richiesta la produzione, dunque, l’assoggettamento della donna nel suo ruolo. Queste connessioni vengono continuamente riproposte dal sistema patriarcale.
Qualche mese fa abbiamo pubblicato una tua intervista in cui denunciavi le condizioni di lavoro del settore in cui sei impiegato, quello della sanificazione e in cui parlavi delle possibilità di lotta di lavoratrici e lavoratori aperte dalla pandemia. Come sono cambiate le condizioni di lavoro nei mesi successivi al lockdown? In che modo ha pesato il fatto di essere donne e migranti sulla riorganizzazione del lavoro?
Sì, quello che dicevamo qualche mese fa di fatto si è verificato. Io guardo il mondo e la società dalla fabbrica, non ho studiato, ma leggendo i testi di alcune compagne femministe l’elaborazione mi è automatica stando sul posto di lavoro. In questo periodo erano visibili possibili connessioni di lotte che possono intrecciarsi e avere un potenziale… Però, vedo anche i limiti di questa condizione, che ancora non esplode. Quello che adesso può fare il femminismo è una lettura complessa della realtà. Gli stabilimenti sono come un manuale di sociologia a cielo aperto ed è interessante guardare anche a come formano le risorse umane perché hanno già la preparazione per affrontare questi conflitti, una preparazione che spesso noi non abbiamo, noi dalla nostra abbiamo l’istinto. Come dicevo anche prima sono diverse le condizioni dello sciopero per una lavoratrice rispetto a un collega. I lavoratori maschi del mio settore hanno la fortuna di poter scioperare otto ore. Beh, la moglie a casa ha già preparato tutto: stirato, cucinato, pulito, curato i figli… la donna, invece, si deve fare quelle quattro ore di sciopero lottando con il doppio del lavoro e la si colpevolizza, anche da parte dei sindacati. Io credo sia importante non colpevolizzare le donne perché mentre scioperano fanno la spesa: va riconosciuto il nodo problematico che le chiude in un ruolo di genere che bisogna continuamente combattere. Non viene mai riconosciuto il doppio ruolo di lavoro delle donne, quello retribuito e quello non retribuito. È logico che le donne non possano stare là davanti in presidio a sventolare le bandierine se devono anche gestire la vita di un’intera famiglia che grava su di loro.
Come funziona la «banca ore» e il sistema di turni che caratterizza questo settore? Come incide sulla vita delle lavoratrici e come vengono utilizzate queste forme di «flessibilizzazione» da parte dei datori di lavoro?
La banca delle ore sarebbe una sorta di part-time misto. Nelle multiservizi il contratto è di 65/70 ore mensili ed è chiuso: vuol dire che ti pagano su quelle ore. Le ore lavorate, però, sono sempre di più e si inseriscono nell’extra-capitolato che consiste nelle ore in più che l’azienda richiede, tra cui anche la sanificazione. Dovrebbero essere pagate di più perché sono straordinari, invece vengono «congelate» e conteggiate secondo le esigenze dell’azienda. Ad esempio, quando dovresti avere ferie usano queste ore che sfrutti come giorni di riposo oppure vengono immesse durante i fermi produttivi. In questo modo sono utilizzate come ammortizzatori e non si pagano in più, ma normalmente. Nella multiservizi questo sistema è pesantissimo: ci sono sempre ore in più da fare, soprattutto in questo periodo, con la sanificazione. Inoltre, queste ore «congelate» vengono utilizzate quando c’è la quarantena, invece del Fondo d’integrazione salariale. Alcune aziende poi, hanno fatto partire la Cassa integrazione solo dopo che si sono esaurite queste ore in più risparmiando quindi sulla mano d’opera.
I sussidi previsti dal governo durante questi mesi, come il bonus babysitter, hanno prodotto un miglioramento effettivo nella vita delle donne e delle migranti lavoratrici?
Il bonus babysitter è di fatto lo Stato padrone che ti fornisce di una tariffa di 8 euro l’ora, ma di fatto le ore lavorate sono sempre molte di più di quelle dichiarate all’INAIL, la burocrazia che si crea è sconvolgente, ma soprattutto, è prevista una copertura INAIL molto simile a quella dei vecchi voucher. Io sono assolutamente contraria a questo bonus perché mette in circolo un sistema di sfruttamento padronale da parte dello Stato. Rimango davvero perplessa dall’enfasi che si è impiegata per promuoverlo: è un aiuto per le donne al prezzo dello sfruttamento di altre donne. Lo Stato che si autoassolve e sfrutta le donne ulteriormente; di fatto è un’ulteriore misura patriarcale. Guarda caso sono quasi sempre donne migranti che vengono utilizzate. Ma davvero dobbiamo trattare le donne migranti come tappabuchi? Una donna non può campare con 500€ al mese: da una parte abbiamo una collega della multiservizi che prendere 650 €, dall’altra un’altra che ne prende 500… quindi le donne non possono aspirare a nulla di più? È questo quello che valiamo? Le donne devono essere le più povere. Ma questo ci dice il bonus babysitter: per lavorare dobbiamo sfruttare un’altra donna. Alcune femministe hanno appoggiato questa misura, rivendicando il bisogno di servizi e di parità di diritti. Ma a che prezzo? Sfruttando altre donne. Io mi rifiuto, la mia indipendenza non verrà scritta sulla pelle degli altri.
Nei decreti e nella normativa prodotta in questi tempi pandemici si parla di «lavori essenziali» facendo riferimento a codici ATECO. Al di là della definizione confindustriale, è evidente che questi lavori essenziali sono il risultato di una specifica svalutazione patriarcale e razzista del lavoro. Come è possibile a partire da queste condizioni dare una spinta all’iniziativa femminista, verso e oltre il 25 novembre e la mobilitazione contro la violenza maschile?
Come dici il codice ATECO è stato scritto da Confindustria e questo lo ha ammesso lo stesso Bonomi quando ha chiamato i sindacati, che in parte sono anche loro responsabili di questa definizione. Ma chi è essenziale? Abbiamo la scuola, sanità, servizi sociali, multiservizi, badanti… tutti posti dove c’è un altissimo tasso di femminilizzazione. Questi sono i settori essenziali ed è chiaro che esiste un sistema patriarcale. La sfida che il femminismo deve accettare verso e oltre il 25 novembre è reagire a questa violenza sistemica che fa continuo riferimento alla leva maternale e all’indole di cura delle donne. Lo hanno detto anche a noi, ci ripetevano che era necessaria «abnegazione». A colpi di Dpcm hanno riscritto il nostro bioritmo. Noi dobbiamo sapere che questa violenza che subiamo sul lavoro in varie forme si unisce e si aggiunge a quella che molte di noi vivono all’interno delle proprie case, non hai idea di quanti casi ci sono tra le mie colleghe! Ed è tutto collegato, dobbiamo saperlo e visibilizzare proprio questa connessione perché è fortissima. Noi non siamo sempre forti, noi siamo sature, punto! Quando una donna lotta è perché davvero non ce la fa più, la misura è colma. Questo 25 novembre sarà complesso, ma penso sia importante partire dai luoghi in cui siamo ed è la sfida che ci pone anche la pandemia, bisogna capire quali sono le lotte praticabili in questo momento. Forse, quello che è mancato un po’ all’interno del movimento femminista è stata la capacità di lettura dei riassetti che i Dpcm e la gestione dell’emergenza stanno dando alla vita delle donne. Questo non possiamo perdercelo e deve essere fondamentale non solo per la contingenza. Anche all’interno di Non Una di Meno dobbiamo sempre tener presente che si scrive sempre prima in basso e poi si va verso l’alto. Noi non dobbiamo rispondere punto per punto ai Dpcm, ma capire da quelli quali sono le nostre battaglie future. Sappiamo che i licenziamenti di massa si abbatteranno sulle donne, che sono sempre le prime colpite, sono le donne ad avere le pensioni sotto i 700€, sono le donne a subire queste condizioni. Il 25 novembre non è solo violenza di genere, ma violenza in varie forme e il lavoro è centrale in questo. Quelli di Confindustria, quando abbiamo scioperato, ci hanno definite «la servette che ci fanno i conti in tasca». Certo che noi gli facciamo i conti in tasca, ci mancherebbe! Ci vorrebbero silenziose e remissive. Ma noi non stiamo zitte e questa cosa gli è andata di traverso quando siamo state riprese da tutte le testate dei giornali con la nostra lotta. Ed è potentissimo perché lì siamo tutte le donne, tutte. Perché la lotta del settore multiservizi è una lotta di classe, perché siamo le ultime, ma noi i conti in tasca li sappiamo fare e non abbiamo intenzione di fermarci.