di FELICE MOMETTI
Siamo ai titoli di coda dell’horror show del narcisista maligno che ha occupato per quattro anni la Casa Bianca? Si è finalmente scongiurato il pericolo di un regime fascista negli Stati Uniti? Dare un’interpretazione psicoanalitica dei processi sociali e confondere la natura dei regimi fascisti con il populismo autoritario di un presidente o di un’istituzione spesso non permette di cogliere le reali trasformazioni che investono una società. Ancor più quella americana.
Gli Stati Uniti non sono, non sono mai stati, una repubblica democratica, ma una federazione di Stati che concentra gran parte del potere politico-istituzionale nel Senato e in misura appena minore nel Presidente. Un Senato dove un elettore del Wyoming vale 68 volte un elettore della California e che dal 1789, anno della sua costituzione, a oggi ha visto solamente otto senatori e due senatrici afroamericani. Basterebbero questi due esempi per definire gli Stati Uniti un sistema politico antidemocratico che ha uno dei pilastri centrali nel razzismo istituzionale. Biden vince promettendo un ritorno alla «normalità» istituzionale e uno sforzo per ricostruire l’unità nazionale, cercando di far emergere una presunta vera «anima» della nazione. Termini che sono stati riassunti nello slogan centrale della sua campagna: Build Back Better. Ma ricostruire meglio cosa? Durante la prima fase della campagna presidenziale di Biden tra la metà febbraio e gli inizi di marzo, dopo la disastrosa richiesta di impeachment di Trump e dopo aver definitivamente spento le illusioni di Sanders con i risultati delle primarie del Super martedì, il triumvirato – Obama, Clinton, Biden – che governa il partito democratico, pensava ancora che Trump fosse un’allucinante parentesi da chiudere. Infatti, giocando sul male minore e sul «chiunque ma non Trump», si è costruita la candidatura di Biden come presidente di transizione verso un ritorno all’epoca del primo Obama. Una strana transizione che andava verso il passato e non il futuro. Che non teneva conto di quegli iniziali processi di soggettivazione attivati dalle lotte degli studenti contro la lobby delle armi, dal blocco degli aeroporti contro i decreti razzisti di Trump, da un rinnovato protagonismo delle persone Lgbtq. Ma, soprattutto, che non teneva conto della mobilitazione in varie forme delle donne, degli scioperi degli insegnanti e di una mai sopita lotta contro il razzismo sistemico della polizia e delle istituzioni. Insomma, una strategia che molto probabilmente avrebbe portato a una riconferma di Trump.
La pandemia, una rivolta sociale di proporzioni impensabili che ha aperto uno spazio politico oltre le mobilitazioni antirazziste, migliaia di scioperi selvaggi al di fuori dei sindacati tradizionali hanno radicalmente cambiato lo scenario. E l’operazione messa in campo dall’establishment democratico è stata quella di denunciare la gestione criminale della pandemia da parte di Trump, senza però rivedere nella sostanza il funzionamento di un sistema sanitario che continua ad alimentare e amplificare le disuguaglianze. Condannare gli episodi di razzismo e brutalità della polizia come fatti isolati, senza mettere in discussione la polizia come «macchina militare» del disciplinamento sociale e del controllo del territorio e al tempo stesso attivare una serie di meccanismi di cooptazione politica e istituzionale di settori del movimento sociale. Delegittimare gli scioperi spontanei riaffermando il ruolo dei sindacati tradizionali, che hanno garantito un paio di decine di migliaia di volontari per la campagna presidenziale, e la loro azione di contenimento delle lotte. Un’operazione che faticosamente ha pagato in termini di voti, ma che ha reso impraticabile la transizione verso … il passato. Dopo le convention democratica e repubblicana dello scorso agosto è diventato chiaro che non si governa il paese più potente al mondo solo a colpi di antitrumpismo, con la nostalgia dell’Obama prima maniera.
Le grandi manovre per individuare e selezionare la composizione dell’amministrazione Biden sono iniziate allora. Non è un caso che negli ultimi tre mesi si è registrata un’impennata dei finanziamenti della sua campagna presidenziale che hanno raggiunto una cifra ‒ oltre un miliardo e mezzo di dollari tra donazioni e raccolta di fondi dei comitati di azione politica (i cosiddetti Pac e super-Pac) ‒ mai toccata da nessun candidato precedente, che ha superato di gran lunga la stessa disponibilità finanziaria della campagna di Trump. Ora, al netto di possibili ricorsi legali da parte di Trump ‒ che potrebbero acuire notevolmente una crisi istituzionale già emersa in questi mesi di pandemia con la contrapposizione tra singoli Stati e governo federale ‒ di fronte all’amministrazione Biden c’è il problema di un’architettura istituzionale e rappresentativa in palese frizione da una parte con le nuove configurazioni delle reti del valore dell’attuale capitalismo pandemico, e dall’altra con sollevazioni sociali che si politicizzano seguendo percorsi sempre meno istituzionali. In questa situazione Biden sarà costretto a navigare a vista con un unico obiettivo: garantire la riproduzione di un modo di produzione sociale.
E Trump? Si può dire che abbia svolto il suo lavoro. Con le sue improvvise accelerazioni autoritarie sul fronte interno, condite di maschilismo, razzismo, dispotismo e le altrettanto improvvise svolte in politica estera (le vicende con la Cina, con la Corea del Nord, l’intervento in Siria ecc.), Trump ha gettato le basi del trumpismo inteso più come contenitore in grado di riconoscere e accogliere variegate pulsioni e rivendicazioni sociali – dai suprematisti bianchi ai pensionati della Florida – che non come un blocco sociale dotato di una coerente visione politica. Questo ha mandato in fibrillazione il tradizionale establishment del partito repubblicano, troppo legato a forme della politica poco dinamiche nella lettura della società. Trump ha movimentato profondamente la destra americana. Si tratta ora di vedere se il trumpismo sia legato a doppio filo al suo principale simbolo oppure abbia vita propria anche sotto altro nome. Un dato pare certo: la destra americana non ritornerà al passato. È investita da un necessario cambiamento dagli esiti non prevedibili, ma che non potranno discostarsi di molto dall’attuale perimetro istituzionale. Non è un caso che Steve Bannon, il principale teorico della decostruzione dello Stato federale, sia stato licenziato da Trump dopo otto mesi. E sotto questo aspetto sembra molto difficile che, nella sua larga maggioranza, la destra imbocchi la strada della riedizione di fascismi di stampo europeo o latino-americano, pena un’insolubile contraddizione con le continue rivoluzioni del modo di produzione del capitalismo contemporaneo americano e i suoi flussi finanziari.
Sempre più le alternative al trumpismo e alle politiche del partito democratico sono nel campo dei movimenti sociali. Nei processi sociali che li politicizzano e ridefiniscono la loro composizione di classe.