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L’America sognata della middle class

di FERDINANDO FASCE – da «il Manifesto» del 3 novembre 2020

Una trentina d’anni fa uno dei nostri migliori sociologi, Ferruccio Gambino, dedicava un pionieristico contributo alla Classe media come categoria della normalità nella sociologia statunitense (Tensioni e tendenze dell’America di Reagan, a cura di E. Pace, Cedam, 1989). Allargando il quadro, sulle sue orme, in Storia di un feticcio. La classe media americana dalle origini alla globalizzazione (Mimesis, pp. 231, euro 22) l’americanista bolognese Matteo Battistini ci consegna oggi un contributo di grande intensità, che cade particolarmente opportuno nell’arroventato clima delle elezioni presidenziali statunitensi, con i consueti richiami al voto della fantomatica middle class.

Fantomatica perché, scrive Battistini, nell’ultimo decennio pubblicistica e ricerca d’oltre Atlantico «hanno annunciato ossessivamente il declino, la scomparsa o la fine» di questa categoria, così centrale ed elusiva nel discorso pubblico. Ciò che però rimane immutata, aggiunge l’autore, è quella che l’economista premio Nobel Paul Krugman ha chiamato «feticizzazione della classe media». Cioè la «storica pretesa che ancora oggi, nonostante le enormi disuguaglianze e la povertà che segnano la loro società (vedi in proposito B. Cartosio, Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano, DeriveApprodi), gli statunitensi avanzano di essere membri di questa classe».

Come spiegare questo? All’interrogativo Battistini prova a rispondere con una «storia intellettuale» di questa categoria, così come emerge da un’approfondita analisi delle scienze sociali del cosiddetto «secolo americano». E in quattro densi capitoli ci conduce in un tour de force di autori, elaborazioni e dibattiti distesi, in una marea di riferimenti e rimandi che Battistini governa abilmente, fra aule accademiche, libri e riviste. È un quadro di notevole suggestione e di robusto spessore filologico.

L’analisi parte dal pensiero europeo ottocentesco e novecentesco sulla classe media. E mostra come la visione di questo strato si faccia, al duro confronto con gli spaventosi cataclismi della Grande guerra, sempre più negativa e pessimistica. Quando poi attraversa l’Atlantico, dopo non poche giravolte che il libro documenta con grande attenzione, la categoria trova infine un posto centrale nel dibattito scientifico e nella politica statunitense negli anni del New Deal, che Battistini individua perciò come un «progetto storico di costruzione della classe media». Ovvero, alla luce della forte curvatura razziale delle sue politiche sociali, un’«affirmative action per la famiglia americana bianca».

In questo contesto, e ancora più in quello del dopoguerra, complici un di più di ideologia fornita dallo «scontro di civiltà» della Guerra fredda e la legittimazione materiale garantita dalla diffusione dei consumi su base di massa, la middle class assume, dice Battistini, le sembianze di un indisputabile feticcio, «un’identità culturale e politica che stabiliva un codice di comportamento organizzato attorno all’insieme valoriale dell’America bianca e protestante», all’insegna dell’eccezionalismo e della proiezione imperiale del Paese.

Alla sua configurazione contribuiscono alacremente sia le scienze sociali della «Grande celebrazione» pluralista e struttural-funzionalista, sia la storiografia. Quest’ultima, vuoi nella versione della levigata consensus history (Boorstin e Hartz), che negli anni Cinquanta inscrive l’intera storia americana entro un percorso da sempre miracolosamente esente da conflitti di classe, vuoi in quella della «sintesi organizzativa» che nel decennio successivo, con una progressiva crescente torsione funzionalista (Galambos e Zunz, sulla base dell’originale lavoro del più tormentato Wiebe), mette la middle class al centro dei processi di modernizzazione e gestione delle tensioni sociali fra Otto e Novecento.

Finché il cortocircuito fra gli accesi conflitti sociali degli anni Sessanta e Settanta del Novecento e la risposta, in forma di lotta di classe senza quartiere, di parte capitalistica dell’ultimo quarantennio non lavorano alle corde la base materiale stessa della categoria, inghiottita nel vortice di deindustrializzazione, finanziarizzazione e desertificazione sociale. Per farla sopravvivere, conclude Battistini, ancora una volta come «un indicatore politico della legittimazione del capitalismo», ma in questo caso ormai come un «soggetto illusorio… un simbolo out of vogue, incapace di determinare una modalità condivisa e riconoscibile, ordinata e ordinante che proprio perché carico di storia, risulta espropriato del futuro». Una conclusione che suona da stimolo a riaprire la ricerca, dalla storia intellettuale a quella sociale, sulle forme concrete in cui questa categoria è stata vissuta e praticata nel corso del tempo.

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