giovedì , 21 Novembre 2024

Una rivoluzione in cerca d’autore. Per una fenomenologia di Confindustria II

di LORENZO DELFINO e GIACOMO SALVARANI

→ Vedi anche la Fenomenologia I: In quale stato versa il padronato italiano? Per una fenomenologia di Confindustria

Lo spettro del cambiamento e il «coraggio del futuro»

Non c’è cosa al mondo che il confindustriale digerisca peggio dell’imprevisto. L’imprevisto lo terrorizza, lo agita. Esso pone il confindustriale di fronte a spettri che paralizzano quell’uomo pratico e dedito al calcolo di bottega, abituato a porsi solo problemi che può risolvere per mezzo del denaro che di norma è delle lavoratrici e dei lavoratori, spesso dello Stato. Carlo Bonomi, leader di Confindustria, è il più preoccupato di tutti: la crisi vede i grandi gruppi imprenditoriali italiani gestire autonomamente i propri contratti e affari senza passare per il sindacato padronale; allo stesso tempo, almeno finora, la rilevanza presso il governo è stata ai minimi storici. Anche all’interno della propria schiera, Bonomi ha faticato a dettare un qualsiasi tipo di linea, come dimostra il caso di Federalimentare, commissariata dopo aver firmato, contro il parere di Confindustria, il nuovo contratto con i relativi aumenti salariali. La più completa irrilevanza è dietro alla porta. Così, Bonomi, da pochi mesi eletto e ancora in cerca d’autore, ha deciso di prendere il toro per le corna e parlare sulla pubblica piazza di quegli spettri che tengono sveglio il confindustriale la notte. Bonomi si fa quindi amante della commedia e del paradosso, e mentre il terrore del cambiamento lo paralizza scrive a chiare lettere della necessità di una «rivoluzione», lo spettro per eccellenza di tutti i confindustriali. Ancora: mentre il popolo di padroncini che Bonomi rappresenta trema per l’avvenire dei propri profitti, egli decide di chiamare Il coraggio del futuro un documento di 365 pagine rivolto agli associati, un vero e proprio manuale del confindustriale d’oggi, e con lo stesso nome battezza la prima assemblea generale del proprio mandato come presidente. Del resto, l’attacco è la miglior difesa; e per il confindustriale difendere rendite e privilegi di posizioni acquisite quando l’Organizzazione era più rilevante per il padronato italiano è sinonimo di sopravvivenza. «Le imprese sono indotte a tacere» e se «suoniamo il citofono nessuno risponde», dice Bonomi, quindi non resta che urlare e scalpitare.

Eroi fantastici e dove trovarli

Ma di quale futuro si sta parlando? La crisi pandemica rappresenta chiaramente un imprevisto al di sopra delle capacità cognitive del confindustriale, che non si dà ragione del fatto che la politica dell’austerity sia finita e che lo sfruttamento abbia bisogno di cambiare le proprie maniere. Così, nella lettera a tutti gli associati, scritta di proprio pugno da Bonomi in occasione dei festeggiamenti per i primi, smaglianti, cento giorni di presidenza, il Napoleone dei confindustriali si affida al dato più caro: il PIL, al quale il Recovery Fund, per la prima volta dopo decenni, permette imponenti flessioni. «Durante il periodo duro del lockdown il PIL italiano è calato del 12,4%, ma noi ce lo aspettavamo» dice Bonomi, non celando una certa soddisfazione e pretendendo pubblico riconoscimento agli industriali per aver contenuto le perdite più di quanto abbiano fatto in Francia, Spagna e Regno Unito. Infatti, subito dopo l’orgoglio nazionale segue quello di categoria: «Le imprese industriali hanno risposto al blocco con più fermezza, tenacia e sangue freddo di quanto molti immaginassero». Chi siano questi molti non si sa e non ha importanza, il confindustriale ha bisogno di sentirsi vittima incompresa delle arretratezze del paese ed è molto sensibile all’elogio di sé e della propria funzione sociale: «Confindustria ha sempre dimostrato grande responsabilità per il paese», dice Bonomi. È evidente che l’abitudine a pretendere il comando sulla vita delle lavoratrici e lavoratori produce in lui un’autostima spropositata. Questo delirio di onnipotenza arriva ora al punto che il confindustriale si considera il vero eroe della pandemia. La storia degli ultimi mesi si riscrive in una versione fantastica e allora non solo gli industriali italiani hanno retto la crisi meglio dei cugini europei ma Bonomi, dimentico di aver criticato ogni singola misura di protezione sanitaria del governo e di aver fatto correre le imprese a cambiare i codici ATECO per restare aperte, sostiene che «le imprese non hanno mai osteggiato la chiusura di alcune aree del paese». Salvo ricordare a ogni piè sospinto che qualsiasi ipotesi di nuova chiusura non potrà in alcun modo riguardare le imprese. In aggiunta, con una faccia tosta d’antologia, sostiene vigorosamente che le fabbriche non sono mai state vettori di contagio: «Nelle fabbriche non si è infettato nessuno, chi dice il contrario è chi ci vuole male». Una faccia tosta inferiore soltanto a quella di quel 30% di imprese che, secondo i dati INPS, ha richiesto e ottenuto la Cassa di Integrazione Covid senza aver subito cali di fatturato. Gli industriali sarebbero stati, allora come oggi, gli unici a possedere soluzioni pronte e credibili ai problemi del paese. Tanto è vero che, per Bonomi, il «modello impresa» dovrebbe essere applicato a ogni ambito, dalla scuola alla sanità. Stupisce molto, quindi, che al citofono nessuno risponda.

Nuovi orizzonti di guadagno

Dietro a questo orgoglio padronale e dietro al «coraggio» che Bonomi demanda c’è però ancora una schiera di spettri e timori verso il futuro. Così, il confindustriale si chiede: potremo tornare a licenziare? Potremo accedere ai soldi pubblici per ristrutturare le nostre aziende? E che spazio avrà questa nuova Confindustria di pesci piccoli quando ci sarà da discutere la distribuzione dei soldi del Recovery Fund? Ogni guerra, si sa, deve essere finanziata e i soldi europei certo fanno gola. Quello che vorrebbe sentirsi rispondere Bonomi, nella speranza che il canovaccio a lui familiare resti immutato, sono tre cose: aiuti alle imprese, soldi per lo «sviluppo» e soprattutto flessibilità e precarietà del lavoro. I modelli nostrani come il Jobs Act, che pure hanno posto fine all’Ancien Régime della contrattazione, sono però ormai stantii e il confindustriale ha bisogno di nuovi orizzonti (di sfruttamento). Orizzonti confusi, però, tanto che a più riprese Bonomi fa riferimento ai quattro pacchetti Hartz che, dal 2003 al 2005, hanno radicalmente mutato il mercato del lavoro in Germania e che sono in verità il modello anche del Jobs Act. Una rivoluzione importata, dunque, che vuole ritornare all’origine della precarietà europea, in modo da lasciarci alle spalle gli «scambi novecenteschi tra orari e salari», e grazie alla quale «il posto di lavoro non esisterà più in quanto tale». In aggiunta, per la «disoccupazione involontaria», Bonomi vuole che lo Stato si assuma il carico di organizzare e finanziare «programmi propedeutici a favorire il reimpiego». Dunque, una formazione dei lavoratori gratis per le aziende, fuori da qualsiasi contratto, e a carico della fiscalità generale. Pure nel caso in cui vi siano «eccedenze strutturali al termine di una ristrutturazione d’impresa con diminuzione della componente lavoro» – che, tradotto dal gergo confindustriale, significa: piano industriale che preveda significativi licenziamenti in tronco – non dovrebbe esserci «integrazione al reddito» senza «percorsi formativi e di outplacement», della serie: caro lavoratore, cara lavoratrice, io ti licenzio sì, però, se tra un po’ tornerai avendo acquisito una «maturazione culturale» e ulteriori competenze, magari ti riprendo, e nel frattempo non ti preoccupare, ché il reddito te lo paga lo Stato. Tanto è vero che la rivoluzione di Bonomi passa anche dalle buste paga, il cui «onere delle trattenute» dovrebbe ricadere sullo Stato stesso, o ancor meglio su lavoratori e lavoratrici, che a suo dire sarebbe bene si pagassero l’Irpef da soli. Può sembrare una boutade, ma l’ha detto davvero. Operai e operaie dovrebbero diventare imprenditori e imprenditrici di se stessi. Al contrario, chi dovrebbe occuparsi di – e ovviamente fare guadagni su – collocamento e corsi di formazione sono i privati: in altri termini, anche la formazione deve diventare un business d’impresa in tutto e per tutto, senza la concorrenza dello Stato. Bonomi vede poi nello smartworking su vasta scala la prospettiva che trascende il tempo pandemico e diventa un nuovo orizzonte per «riscrivere i vecchi mansionari dell’epoca fordista». Per Confindustria, ciò comporterebbe vantaggi garantedole la «maturazione culturale» di lavoratori e lavoratrici. Naturalmente tace sui risparmi per le aziende grazie allo smartworking: non è necessario esplicitare che luce, pulizie, e così via, saranno sempre più a carico di lavoratrici e lavoratori. Naturalmente tace anche sui risparmi garantiti dal governo, il quale ha già tagliato l’Irap alle imprese fino a 250 milioni di fatturato.

«Non siamo Sussidistan!»

Il canovaccio prevede poi che il confindustriale non possa accontentarsi della gestione del lavoro dentro alla propria categoria produttiva: se il suo comando non va oltre i confini del lavoro non è in pace con se stesso. Mentre nella retorica del sacrificio il piccolo imprenditore sembra preoccupato solo della propria azienda, la sua vera paura è di non poter fare quel che vuole con lavoratori e lavoratrici, la cui precarietà deve essere garantita. Oltre alla regolazione della formazione al lavoro, la polemica di Confindustria è contro i fondi statali di integrazione al reddito. Se il Recovery Fund è un’«occasione storica» e quella che ha in testa Bonomi è una rivoluzione, i sussidi rappresentano il fulcro centrale del Congresso di Vienna, in cui le linee di confine vengono nuovamente tracciate e nasce un nuovo paese: il Sussidistan. «Non siamo Sussidistan!» tuona Bonomi stesso all’assemblea generale davanti ai suoi sodali. Il sogno – neanche troppo nascosto – del confindustriale per uscire dalla crisi è la più totale dipendenza delle lavoratrici e lavoratori dal salario: basta sussidi, basta reddito di cittadinanza, più flessibilità, diminuiamo tutte quelle fonti di reddito che non vengono dal semplice contratto da noi stipulato. In una parola, dietro a quell’aspetto pio e laborioso del confindustriale, c’è la volontà di avere un pieno governo della riproduzione di lavoratori e lavoratrici, proprio come avviene per i migranti, e se il confindustriale potesse minacciare di togliere la cittadinanza a chi non accetta il lavoro da lui gentilmente offerto certamente lo farebbe! Ma questi timori confindustriali sono legittimi? Davvero l’Italia è diventata il «Sussidistan»? Contando quanto hanno ricevuto le imprese dai decreti d’emergenza che si sono susseguiti in questi mesi verrebbe quasi da dargli ragione. Non è quello, però, ciò a cui Bonomi fa riferimento. Dall’emergere della pandemia, in Italia come altrove, ci si è trovati di fronte ad un vero e proprio valzer degli ammortizzatori sociali: reddito, cassa d’integrazione, Naspi e decine di bonus e microbonus differenziati. Il governo, nell’intento di non ferire la statistica dei disoccupati e nell’ottica di un ritorno post-crisi epidemica allo stesso impiego, ha bloccato i licenziamenti e utilizzato la cassa d’integrazione come strumento principale di ammortizzazione della crisi. Una CIG pagata dallo Stato ed estesa per la prima volta a una serie di contratti precari come quello di apprendistato. L’entità della cassa si basa solo sul contratto collettivo nazionale ed essendo l’unico ammortizzatore la cui entità non si riferisce né a un qualche dato sul costo della vita, come fa il reddito, né alle buste paga precedenti, come la Naspi, ha rappresentato la migliore soluzione per dare sussidi – assolutamente poveri – ai lavoratori. Milioni di lavoratori e lavoratrici con contratti precari o part-time ricevono da mesi poche centinaia di euro di cassa d’integrazione, lavoro non ne hanno e, per non perdere ogni diritto sui mesi accumulati di disoccupazione, sono costretti a scartare l’ipotesi di licenziamento volontario. Si trovano quindi in un limbo in cui devono riprodurre la propria vita con quei pochi soldi di sussidio. In tutto ciò, moltissime imprese, tra cui, naturalmente, anche quelle di Confindustria, hanno fatto un uso del tutto opportunistico degli ammortizzatori sociali, sfruttandoli per tenere a casa i lavoratori a loro piacimento, per ristrutturare le aziende, gestire le conversioni più o meno necessarie a costo zero.

Minimi salari. Rivoluzione o guerra di logoramento?

Ciò che invece Bonomi non vuole proprio sentir nominare è il salario minimo che, dice, è roba da «regimi autoritari». Il Sussidistan diventa quindi un luogo in cui la terra promessa della libertà d’impresa viene affondata nel nome di un minimo salario. Poco importa che la Germania, evocata poco prima come modello, e Stati altamente industrializzati come il Belgio, la Francia, l’Irlanda, il Regno Unito, i Paesi Bassi, perfino gli Stati Uniti, abbiano già un salario minimo. Un salario minimo che, però, le imprese riescono puntualmente ad aggirare con contratti a zero ore, demansionamenti, finte partite iva, apprendistati, esternalizzazioni, contrattazione aziendale, e così via. Poco importa anche che von der Leyen abbia messo sul tavolo della Commissione Europea proprio la proposta di salario minimo in tutta Europa, certo differenziato sulla base del potere d’acquisto nazionale, allo scopo di garantire che la competizione economica non venga falsata sul suolo dell’Unione. Oltre a svelare che il salario costituisce ancora l’unica arma a disposizione per tenere sotto ricatto milioni di lavoratrici e lavoratori, le dichiarazioni preoccupate di Bonomi sono il segno del fallimento del tentativo di Confindustria di arginare gli aumenti salariali che molte imprese – si pensi appunto al settore agroalimentare – sono state costrette a elargire in questi mesi. Per Bonomi e i suoi, di norma contrari ai contratti nazionali e ferocemente avversi al salario minimo, la contrattazione nazionale diventerebbe quindi ciò che può esser concesso, a patto che questa sia fedele ai dettami rivoluzionari, cioè caratterizzata da bassi salari, libertà di licenziamento e in ultima istanza legata alla produttività. Del resto, per non perdere la propria ragion d’essere e salvaguardare la propria posizione all’interno del padronato italiano, Confindustria si ritrova a non potere totalmente rinunciare a una contrattazione centralizzata. Tanto più che, come si è visto per il caso dei riders, la contrattazione nazionale non porta necessariamente con sé eccessivi sacrifici da parte di padroni e padroncini, né tantomeno migliora radicalmente le condizioni di lavoro. Anche i sindacati confederali sono sempre stati avversi al salario minimo, per il timore, come detto piuttosto fondato, che un simile strumento indebolisca la contrattazione collettiva e il salario minimo diventi indicatore del massimo salario rivendicabile. Confederali e confindustriali si trovano dunque a fronteggiarsi potendo scommettere, ancora una volta, sulla contrattazione nazionale. Ma questa sta funzionando? Favorisce in qualche modo lavoratori e lavoratrici? Il 2020 che avrebbe dovuto essere anno di contrattazioni e nuovi accordi, sta invece diventando un anno di stasi. Da questo punto di vista il confindustriale punta alla guerra di logoramento in attesa che anche le minime pretese sindacali si ammorbidiscano. Questa volta la strategia sembra avere degli effetti e forse il confindustriale ha trovato nel dirigente sindacale un interlocutore veramente interessato a sentire quel che ha da dire.

Nuove convergenze?

Anche sul «Piano industria 4.0» Bonomi trova convergenze inaspettate con il segretario della CGIL, che vede positivamente l’elargizione dei soldi dei contribuenti alle imprese per un loro upgrade tecnologico. Landini, d’altronde, insieme a Bonomi sullo stesso palco della Confindustria vicentina in un duello non certo all’ultimo sangue, è arrivato fino al punto di elogiare le imprese durante la fase di «emergenza», perché a suo dire avrebbero investito molto sulla sicurezza nei posti di lavoro. Tra una schermaglia e l’altra, Landini e Bonomi si sono trovati a parlare la stessa lingua anche sui consumi, necessari per rilanciare l’economia. Del resto, nella lettera ai soci dopo i suoi primi cento giorni, Bonomi ha dimostrato di aver fatto i compiti a casa e aver introiettato ciò che ogni facoltà di economia insegna: il consumatore è metro d’ogni cosa, e se c’è qualcosa che non va, in un contesto in cui le vittime sono le imprese, è perché il consumatore non compra. Nel nostro caso, poi, secondo Bonomi, ciò non è avvenuto per sopraggiunte ristrettezze economiche durante il lockdown, bensì per «scopo precauzionale». Se l’economia non gira, la colpa in primo luogo di chi è? Del consumatore che vuole risparmiare e che provoca il ristagno della domanda. Ciò, però, nelle fantasie di Bonomi non c’entra niente con la disoccupazione, con la cassa integrazione e con i bassi salari che il confindustriale riserva ai lavoratori. La via della rivoluzione prevede che i salari debbano rimanere «contenuti», come ha ribadito Bonomi stesso a fianco del ministro dell’economia Gualtieri, il quale, dopo aver evidentemente alzato la cornetta del citofono, non ha mancato di sottolineare come con Confindustria ci sia «piena sintonia»: le tensioni tra Confindustria e governo si sono quindi in parte sopite nel momento in cui quest’ultimo è entrato dalla porta dell’assemblea generale. Se, comunque, i salari devono rimanere bassi e se il consumo è metro d’ogni cosa, a questo punto non resta che l’export come elemento trainante per uscire dal ristagno della domanda: produrre qui per vendere altrove. Infine, l’intesa tra il Segretario CGIL e il Presidente di Confindustria non si limita al lavoratore-consumatore, ma verte anche sulla formazione, alla quale, per Landini, dovrebbe essere dedicata parte della giornata lavorativa. Tanto che, proprio su questo tema, Landini si è pure guadagnato gli applausi della platea confindustriale vicentina. Quasi che i due, nella loro diversità e pur fedeli al giuoco delle parti, fossero in fondo quasi amici. Un’amicizia che, con il passare dei giorni e nonostante i tradizionali lamenti vittimistici confindustriali, si allarga anche al governo, sempre più disposto ad abbracciare il vessillo rivoluzionario. Vive l’entreprise!

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