di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM
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A novembre 2019 abbiamo pubblicato il giornale Strike the Giant! Organizzazione transnazionale contro Amazon. Pochi mesi più tardi è cominciata la pandemia globale. Vogliamo perciò raccontare che cosa è successo in questi mesi di lotta e rilanciare la discussione sui problemi sollevati nel giornale, la cui centralità ci sembra confermata e ampliata. Nei mesi scorsi, infatti, il processo di organizzazione transnazionale di lavoratori e lavoratrici, che va avanti ormai da anni e insiste sulla necessità di mettere in comunicazione i magazzini sparsi per l’Europa e gli Stati Uniti, ha fatto un salto in avanti. Le prese di posizione e le rivendicazioni comuni avanzate da lavoratori e lavoratrici in lotta nei magazzini europei e statunitensi contro il pericolo di contagio hanno rappresentato una vera e propria insubordinazione transnazionale, costringendo Amazon a mettere in campo una serie di risposte centralizzate. Per la prima volta, Amazon e l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici che impiega nei magazzini sono emersi come due fronti contrapposti con estrema chiarezza, impedendo al gigante di Seattle di trovare accomodamenti locali o a livello del singolo magazzino per spegnere le proteste e indebolire la costruzione di richieste comuni. Se questo ha mostrato come la comunicazione transnazionale sia ormai ineludibile, ciò che rimane da queste esperienze è il fatto che fare passi avanti sul piano dell’organizzazione transnazionale è oggi la vera posta in gioco.
Il 17 marzo il magazzino di Piacenza, situato in una delle zone più colpite dal contagio, entra in sciopero per 11 giorni per denunciare la mancata applicazione da parte di Amazon delle misure anti-covid decise dal governo italiano. Le proteste investono anche i magazzini di Torino e di Roma. Lo stesso giorno dal magazzino DBK1 di New York comincia a circolare una petizione di lavoratori e lavoratrici che è prontamente tradotta in varie lingue e nel giro di 24 ore raccoglie migliaia di firme dagli USA e da vari paesi europei: Francia, Polonia, Italia. La petizione chiede una serie di misure immediate per far fronte all’emergenza: la sanificazione degli impianti, la riduzione degli standard di produttività, un congedo di malattia pagato in caso di bisogno, dovuto sia a cause personali, sia alla necessità di curare i bambini o genitori anziani, oltre a tutele per i corrieri.
I magazzini entrano in sciopero anche in Francia e ovunque chi riesce prende un congedo o semplicemente si rifiuta di andare al lavoro. Per la prima volta il comando sul lavoro viene seriamente messo in discussione in tutto il gruppo, e Amazon non può più garantire sui tempi di consegna. In Polonia i facchini organizzati attraverso Workers’ Initiative chiedono con insistenza confronti con il management che vengono loro sistematicamente negati. A Madrid, nonostante alcuni casi di positività al virus dentro il magazzino, Amazon non fa nulla per tutelare quelli ancora al lavoro e le proteste crescono. Mentre i numeri dei contagi continuano ad aumentare, le voci di denuncia sul mancato rispetto delle minime precauzioni si levano sempre più forti da entrambe le sponde dell’Atlantico. La protesta nei magazzini americani si espande: da Chicago al Minnesota, da Sacramento a Los Angeles a New York. Viene avanzata una richiesta di trasparenza sui numeri dei contagi dentro i magazzini (che Amazon si rifiuta di fornire) e sul piano di misure che il management intende adottare. Si rende evidente che non è solo la voracità dei vertici aziendali a impedire le misure di distanziamento e sanificazione. La stessa organizzazione del lavoro dentro i magazzini rende infatti impossibile un’efficace prevenzione: i ritmi usuranti e con pochissime pause non permettono nemmeno di lavarsi le mani, la posizione delle varie squadre di raccolta e gestione dei pacchi fa sì che sia inevitabile il contatto tra facchini e corrieri. Questa situazione è diffusa nel mondo della logistica, un mondo di cui Amazon, che ha costruito parte del suo successo sulla sua immagine di efficienza, è diventata un simbolo in negativo.
Tutto questo costringe Amazon a cambiare strategia anche dal punto di vista comunicativo. L’azienda comincia infatti a presentarsi come una benefattrice che sta svolgendo un servizio essenziale per la collettività e a celebrare i suoi impiegati come “eroi”, ma, non riuscendo a spegnere le proteste montanti, è costretta a rispondere direttamente da Seattle. Oltre all’assunzione di 100.000 nuovi facchini, Amazon annuncia un aumento salariale di due dollari/euro in tutti i magazzini, non solo americani. Mentre Amazon dichiara di dover far fronte all’aumento degli ordini causato dall’esplosione dell’e-commerce, alla base dell’aumento c’è evidentemente l’esigenza di placare il fermento che attraversa i magazzini. Certo, le specificazioni non si fanno attendere: in Polonia il bonus di 2 euro all’ora diventa di 0,60 centesimi, in Slovacchia di 1,5. Ma al di là dell’usuale politica di gestione dei differenziali salariali, quel che è certo è che Amazon è stata costretta a cedere quello che fino a quel momento non avrebbe mai ceduto.
Contro la pretesa di spegnere le proteste attraverso l’aumento salariale, Amazon Workers International, raccogliendo le richieste emerse durante le proteste, pubblica un documento che dichiara insufficiente l’aumento di salario e rifiuta lo scambio tra denaro e salute che Amazon cerca di imporre. Richieste comuni e precise vengono avanzate: non solo la chiusura dei magazzini per la plateale assenza di misure di sicurezza, ma anche congedo di malattia pagato e la modifica degli standard per garantire ritmi più umani e per permettere di prendersi cura della propria salute. Scioperi e proteste continuano in tutta Europa. Di fronte al timore di una chiusura dei magazzini e mentre la pandemia è al suo apice in molti paesi europei, Amazon dichiara che in Francia e in Italia tratterà solo prodotti di prima necessità: in realtà, grazie alla crescente richiesta di beni essenziali Amazon si assicura un flusso immutato se non addirittura aumentato di beni. I dati sui profitti di Amazon degli ultimi mesi parlano chiaro da questo punto di vista: non solo Jeff Bezos è l’uomo più ricco al mondo, ma i profitti di Amazon rispetto al 2019 sono letteralmente raddoppiati. Il concetto di bene essenziale diventa così, come accaduto diffusamente nel mondo della logistica, un grimaldello per aumentare le attività quando invece dovrebbero diminuire.
In risposta allo sciopero, nel magazzino di Piacenza viene creato un comitato di sicurezza, composto da delegati sindacali e preposto al controllo delle misure di sicurezza. Il comitato comincia a funzionare con grandi difficoltà e si trasforma presto in un’arma a doppio taglio. Da un lato è un modo per governare le proteste: l’azienda mostra così di rispettare l’accordo siglato da governo, Confindustria e sindacati depotenziando le richieste che vengono dal magazzino; dall’altro, il potere di questo comitato è quasi nullo: non avendo potere decisionale, si limita a produrre “report” periodici funzionando più come organo di controllo sui lavoratori che sul management dell’azienda. Vale lo stesso per gli «angeli della sicurezza» introdotti in Francia, che, nonostante il nome, sono nient’altro che guardie che rendono il lavoro ancora più insopportabile, un’intenzione confermata dal progetto di introdurre dispositivi di sorveglianza nei magazzini che lanciano un allarme quando due colleghi si avvicinano a meno di due metri. Amazon comincia a promuovere l’idea che siano i lavoratori stessi i responsabili dell’eventuale contagio e del mancato rispetto delle distanze di sicurezza, magari nelle (pochissime) pause o nelle mense, anche come opportunità per aumentare la disciplina dentro ai magazzini. Il distanziamento diventa così un ulteriore strumento per ostacolare la comunicazione tra lavoratori.
In Francia accade tuttavia qualcosa di imprevisto. Dopo numerose proteste in diversi magazzini, anche in conseguenza del fatto che Amazon nega il ricorso al cosiddetto “diritto di ritiro”, cioè il diritto a stare a casa dal lavoro in elevate condizioni di rischio percependo comunque uno stipendio, e si rifiuta di discutere con le rappresentanze sindacali, il sindacato Solidaires si rivolge al tribunale. Una sentenza della corte di Nanterre prima e di Versailles poi impone ad Amazon di limitarsi realmente ai beni realmente essenziali – confermando che, nonostante i proclami, la precedente dichiarazione di una limitazione dei flussi era del tutto fasulla –, di essere trasparente nel comunicare i numeri del contagio e di pianificare un intervento di largo raggio per valutare e prevenire il rischio nei magazzini. In seguito alla sentenza, che prevede multe salate in caso di mancato rispetto delle prescrizioni, Amazon decide di chiudere i magazzini fino all’applicazione delle nuove disposizioni. Con la chiusura Amazon vuole anche dimostrare di avere il controllo dell’intera filiera, dall’inizio alla fine: tutti i centri logistici sia interni che esterni al gruppo in altri paesi Europei (Spagna, Italia, Germania, Polonia e Slovacchia) cominciano a essere usati per consegnare le merci ai clienti francesi.
Contro la pretesa che le misure introdotte siano valide solo a parole o solo temporaneamente, il 30 aprile viene pubblicata una lettera di Amazon Workers International a Jeff Bezos e Stefano Perego (amministratore delegato di Amazon Europa) frutto di un confronto serrato tra magazzini in lotta su entrambe le sponde dell’Atlantico. La lettera ha due obiettivi principali: rendere permanenti alcune delle misure introdotte quali l’aumento salariale e l’eliminazione degli standard di produttività e garantire la trasparenza sulla comunicazione del numero di contagi e sulle misure adottate in materia di sicurezza sul lavoro, che andranno stabilite attraverso un dialogo con gli stessi lavoratori. La questione che si pone all’ordine del giorno è, inoltre, se le misure introdotte andranno nella direzione di aumentare il controllo sui movimenti e gli spostamenti, di sdoganare l’imposizione di una maggiore flessibilità e disponibilità lavorativa con la scusa di una riorganizzazione della turnazione, oppure se si riuscirà a contrastare il peggioramento delle condizioni di un lavoro già pesantemente usurante e pericoloso prima della pandemia, motivo per cui tornare alla “normalità” significherebbe mettere nuovamente a rischio la salute di tutti. Anche per questo l’aumento salariale non può essere un premio occasionale, ma deve rimanere. Quel che è certo è che nessun protocollo governativo o accordo sindacale ha toccato, nei mesi della pandemia, il problema complessivo del salario e delle condizioni del lavoro cosiddetto “essenziale”. La moltiplicazione di regolamenti e di norme ha invece permesso ad Amazon, così come ad altre imprese, di continuare a nascondersi facendo profitti, spesso usandole a proprio vantaggio per rafforzare il comando sul lavoro. È questo che l’organizzazione transnazionale ha messo in discussione.
Per questo nella lettera è contenuta anche una denuncia senza mezzi termini dei licenziamenti ingiustificati delle settimane precedenti. La direzione di Amazon ha infatti usato le nuove norme sul distanziamento come scusa per lasciare a casa lavoratori e lavoratrici che hanno alzato la voce. Negli Stati Uniti, sempre più duramente flagellati dal contagio, si sono moltiplicati proteste, scioperi e “sick-out”, specialmente in quei magazzini dove i responsabili hanno provato a nascondere i casi di contagio pur di non fermare il lavoro. In tutta risposta, Amazon ha cominciato a licenziare in maniera indiscriminata alcuni dei partecipanti alle proteste accusandoli di aver violato le misure di distanziamento sociale.
Chris Smalls a Staten Island, un caporeparto che si è ribellato alle indicazioni del management di stare in silenzio rispetto ai casi di contagio presenti nel magazzino, viene licenziato per aver partecipato a uno sciopero e accusato di aver violato la quarantena che gli era stata imposta dall’azienda. Bashir Mohammed nel magazzino di Shakopee in Minnesota, dopo essersi mobilitato con colleghe e colleghi, viene licenziato per aver violato il distanziamento mentre parlava con un collega nel parcheggio. “Mi hanno licenziato per spaventare gli altri”, ha detto però Mohammed. John Hopkins a San Leandro viene licenziato con l’accusa “di mettere a rischio la vita dei suoi colleghi”, così come Courtney Bowden e Gerald Bryson dal magazzino di Staten Island che hanno partecipato alle proteste insieme a Chris Smalls. A questo si aggiunge il licenziamento di due impiegate, Maren Costa ed Emily Cunningham, dell’organizzazione Amazon Employees for Climate Justice, che avevano criticato le politiche aziendali durante il COVID19 e appoggiato le lotte in corso nei magazzini.
Nel frangente del licenziamento di Chris Smalls, grazie a una fuga di notizie, viene pubblicato uno scambio di mail interno alla direzione che discute di come fronteggiare gli scioperi nel magazzino di New York: uno dei manager afferma che Smalls è stupido e incapace di esprimersi e consiglia di calunniarlo apertamente indicandolo come il responsabile della protesta per distogliere l’attenzione dalle insufficienti politiche di sicurezza. Smalls è nero, ed è evidente il sottinteso razzista di questa discussione. Di lì a poco sarebbe scoppiata la rivolta in seguito all’omicidio di Georg Floyd. Qualche settimana dopo, quello stesso manager pubblica una lettera esprimendo il suo profondo credo antirazzista. Insieme a lui, Jeff Bezos si profonde in dichiarazioni in sostegno di Black Lives Matter, pubblicizzando una donazione di 20 milioni di dollari ad associazioni per i diritti degli afroamericani (di cui 8 in realtà raccolti tramite donazioni dei suoi impiegati). Eppure, non è un caso che tutti i facchini licenziati ingiustamente e per pura strategia intimidatoria siano afroamericani. Il razzismo che si manifesta negli omicidi della polizia è lo stesso su cui Amazon ha fondato la sua politica salariale e imprenditoriale: mentre gli afroamericani costituiscono il 15% dei lavoratori complessivi di Amazon, infatti, l’85% di questi lavorano nei magazzini. Gli studi urbanistici fatti da Amazon prima di aprire un nuovo magazzino ricercano periferie con maggiore concentrazione di neri e tassi di povertà e disoccupazione più alti per presentare l’azienda come benefattore contro cui non si può mai alzare la voce. Del resto, la compagnia Amazon Ring – che fornisce telecamere per monitorare le case e app connesse – collabora ormai da anni con la polizia e l’Immigration and Custom Enforcement (ICE) per fornire dati di riconoscimento facciali. Per tutti questi motivi i twitt di Bezos in supporto di Black Lives Matter sono stati inondati di insulti, di cui alcuni molto sintetici esprimevano il nocciolo della questione: “se sei a favore di noi afroamericani, allora apri il portafoglio!”. Il collettivo Amazonians United del magazzino DCH1 di Chicago scrive in proposito un testo di denuncia in cui tra le altre cose si chiede: “se Amazon pensa veramente che le vite dei neri contano, allora perché stanno tagliando il salario a così tanti lavoratori e lavoratrici afroamericani che sono stati i più colpiti dalla pandemia? […] Allora perché il management del nostro magazzino ha chiamato la polizia quando abbiamo fatto lo sciopero per la sicurezza chiedendo protezioni contro il coronavirus?”.
Con lo stesso intento, nell’ambito delle rivolte che attraversano gli Stati Uniti un gruppo attivisti e dipendenti di Amazon ha montato una ghigliottina di fronte alla casa di Bezos a Washington. La richiesta avanzata è un aumento salariale del 100%: “se Bezos guadagna 4000 dollari al secondo, non si capisce perché noi non possiamo guadagnare 30 dollari all’ora invece di 15”. Dal primo giugno, Amazon ha infatti posto fine all’aumento salariale orario, concedendo un bonus di “ringraziamento” una tantum di 500 dollari/euro per il mese di giugno. A giugno però il virus imperversava ancora violentemente soprattutto negli US, con più di mille morti al giorno. È del resto di pochi giorni fa la notizia che Amazon ha aperto delle posizioni manageriali per esperti di intelligence, ai quali si chiede di indagare contro i “pericoli” che minacciano l’azienda, primo fra tutti l’organizzazione dei lavoratori. È chiaro dunque che per Amazon questa pandemia è stata sì una grande opportunità – un’opportunità per aumentare i profitti e un’opportunità per rinsaldare la disciplina aziendale –, ma la preoccupazione per l’incremento della comunicazione interna e della capacità di lottare, nonostante tutte le regole vecchie e nuove, i licenziamenti, gli atteggiamenti intimidatori, è grande.
Nell’introduzione del giornale ci chiedevamo “qual è la nostra strada verso Seattle?”. Oggi possiamo dire che alcune indicazioni, nelle lotte di questi mesi, sono emerse. Se la pandemia ha mostrato che l’aumento salariale può essere deciso dall’oggi al domani direttamente da Seattle, il campo di una lotta transnazionale sul salario si è aperto con più chiarezza che mai. Se Amazon dall’oggi al domani ha avuto la possibilità di aumentare il salario per tutti, perché non lottare affinché si introduca un salario uguale per tutti i magazzini che contrapponga alla pretesa di Amazon di determinare il prezzo della salute e del tempo una richiesta chiara e collettiva? Se gli standard di produttività hanno rivelato tutta la loro insalubrità e il loro funzionamento come fattori di rischio, con o senza la pandemia, si apre la domanda su come farsi forti del sapere che le lotte di questi mesi hanno prodotto per avanzare una pretesa comune di salute e sicurezza. Si è anche compreso come sia necessario evitare che gli strumenti creati per garantire condizioni di sicurezza nei magazzini si trasformino nell’ennesimo strumento di controllo, ma far sì che diventino possibilità di incrementare la comunicazione tra colleghi dentro il magazzino e tra i diversi magazzini, dentro e fuori Amazon. Una cosa però è chiara: per chi aveva dubbi sul fatto che la direzione vero cui andare per guadagnare potere e far valere le proprie richieste al gigante di Seattle fosse l’organizzazione transnazionale la pandemia ha un’importante lezione da offrire. Dopo averlo spaventato, è ora il momento di continuare a lottare per batterlo. Queste le questioni che sono ora da affrontare e che, pensiamo, dovranno essere al centro della prossima assemblea transnazionale a Lille del 25-27 settembre e verso lo sciopero transnazionale in occasione del prossimo Black Friday.