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La nuova normalità della pandemia in Europa, la cosiddetta fase di convivenza con il virus, sta dimostrando che salvare l’economia significa proteggere lo sfruttamento e ignorare completamente le condizioni di salute e di vita di lavoratori e lavoratrici, in particolare migranti. Il risultato è che lavoratori e lavoratrici migranti in Germania, Italia, Regno Unito, Francia e molti altri paesi sono attualmente tra i più colpiti dal coronavirus. Questo dimostra che, dietro la facciata dei grandi sforzi compiuti per contenere la pandemia, la realtà dell’Europa è quella dello sfruttamento dei migranti, europei e non, come forza lavoro sacrificabile e a basso costo.
In Germania, un paese in cui l’epidemia sembrava relativamente sotto controllo, la situazione è precipitata a Gutersloh, nella Renania settentrionale-Vestfalia. Centinaia di lavoratori di una grande fabbrica di lavorazione della carne, principalmente migranti dell’Europa sudorientale, risultano contagiati in quello che è attualmente il più grande focolaio del paese. Come risposta, il primo ministro della regione ha dichiarato pochi giorni fa che i responsabili dell’epidemia sono gli stessi migranti. Mentre l’attenzione pubblica in Europa è concentrata sul rischio di un nuovo blocco dell’area, l’epidemia ha messo in luce le terribili condizioni di lavoro che rappresentano la normalità nell’industria tedesca della macellazione. I lavoratori ‒ provenienti principalmente da paesi dell’Est Europa, come Romania e Bulgaria ‒ hanno iniziato a denunciare i carichi di lavoro massacranti, gli straordinari non retribuiti, le forme di reclutamento illegali e le continue pressioni per lavorare anche quando malati.
Nel Regno Unito, un paese duramente colpito dal virus nonostante l’iniziale negazionismo del rischio da parte del governo, nelle ultime settimane sono stati individuati oltre 450 casi di Covid-19 nelle fabbriche alimentari in Inghilterra e Galles. Come hanno denunciato i sindacati anche in questo caso si dimostrano rilevanti le condizioni di vita degli operai dovute ai bassi salari. Per ora però l’attenzione mediatica è concentrata soprattutto sul rischio di infezioni nella catena di fornitura dei maggiori rivenditori di generi alimentari del Regno Unito, piuttosto che sulle condizioni di lavoro e di vita della forza lavoro, principalmente migrante, nascosta allo sguardo del pubblico.
In Italia, il primo paese europeo ad essere stato colpito dal coronavirus e che ora sta sperimentando una sensibile riduzione dei contagi, stanno emergendo nuovi focolai nei magazzini della logistica e negli edifici occupati dai lavoratori a giornata nell’agricoltura. Nel nord, a Bologna, sono state scoperte decine di casi di coronavirus in un magazzino gestito dalla società di logistica Bartolini, che impiega lavoratori migranti, alcuni dei quali richiedenti asilo che vivono in centri di accoglienza sovraffollati. Durante gli ultimi mesi le autorità locali hanno ignorato le denunce dei migranti sulle loro condizioni di vita e di lavoro. Adesso, nonostante le numerose richieste da parte dei migranti e dei sindacati di aumentare gli standard di sicurezza dopo la scoperta dei primi casi, di nuovo l’azienda e le autorità locali non hanno fatto nulla, permettendo al contagio di diffondersi sul luogo di lavoro e nei centri dove vivono i lavoratori migranti. Contemporaneamente, nella città meridionale di Mondragone, è stato scoperto un focolaio tra i braccianti a giornata nel settore agricolo, principalmente bulgari, che vivono in pessime condizioni in edifici sovraffollati utilizzati come dormitori. Quando i dormitori sono stati dichiarati zona rossa dalle autorità locali, alcuni di loro hanno continuato ad andare a lavorare di mattina presto per non perdere una giornata di lavoro, mentre altri non sono riusciti a tornare nelle loro case. Questa situazione ha rivelato ancora una volta che l’agricoltura dipende da lavoratori e lavoratrici migranti delle cui condizioni si parla soltanto quando sono considerate una minaccia. I meccanismi di discriminazione che costringono questi migranti in pessime condizioni abitative, l’etichetta di «stupidi zingari» nel dibattito pubblico sulla questione da parte dei media del loro paese di origine, oppure l’accusa di essere degli untori, sono strumentali al loro brutale sfruttamento promosso dai governi nazionali. Ciò dimostra che anche se i migranti nell’Europa orientale non possono essere ricattati con un permesso di soggiorno – come accede ai migranti extracomunitari ‒ il razzismo istituzionale trova altri modi per tenerli nei ranghi più bassi di un mercato del lavoro fortemente gerarchizzato.
Questi casi accertati sono solo la punta dell’iceberg, una finestra che offre uno sguardo sulla realtà economica dell’UE e sul modo in cui sono considerati i lavoratori migranti, al di là della retorica dei «lavori essenziali». Le istituzioni europee e i governi nazionali hanno facilitato i movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici nell’interesse delle catene di fornitura europee. In mezzo alla pandemia, alcuni governi dell’UE hanno reclutato donne migranti come lavoratrici domestiche e sanitarie, senza preoccuparsi della loro sicurezza e permettendo ai datori di lavoro di pagare loro salari miseri. Ma nessuna di queste istituzioni si è preoccupata delle condizioni di lavoro e di vita di questi lavoratori e di queste lavoratrici, supponendo che le aziende e i datori di lavoro applicassero autonomamente le regole di sicurezza e fingendo di non vedere che il modo stesso in cui è organizzato il lavoro in molti centri logistici e in cui sono organizzati i dormitori rende totalmente impossibile rispettare queste regole. Ora si scopre che le aziende hanno ignorato i protocolli di sicurezza e che lo sfruttamento e le cattive condizioni di vita sono i due principali veicoli del contagio, e gli stessi lavoratori migranti sono additati come coloro che hanno portato il virus da fuori o come quelli che non hanno rispettato le regole di contenimento, nemmeno nei loro paesi di origine. La realtà è che sono le pessime condizioni di lavoro e di vita ad esporre i lavoratori e le lavoratrici, le loro famiglie e le loro comunità al contagio. Ogni tentativo di descrivere queste situazioni come eccezionali, cosa che troppo spesso fanno anche i sindacati, è un modo per coprire questa realtà europea. Nascondere il fatto che questi lavoratori sono migranti, come spesso fanno anche i movimenti sociali, indebolisce la possibilità di combattere il razzismo istituzionale che è alla base delle attuali relazioni di potere nella società. I lavoratori migranti, sia europei che extracomunitari, stanno pagando il prezzo dell’epidemia perché normalmente pagano il prezzo dello sfruttamento.
Tutto ciò dimostra l’urgenza di rafforzare i processi di organizzazione in atto di un’iniziativa transnazionale di tutti i migranti, dalla parte dei migranti, per rivendicare la libertà di movimento a livello europeo contro lo sfruttamento. Mostra anche la necessità di rafforzare quei percorsi organizzativi che collegano il lavoro migrante dentro e fuori l’UE con le condizioni di lavoro e di vita di tutti i lavoratori e le lavoratrici. In tutto il mondo, il razzismo sta rivelando il suo carattere istituzionale e strutturale. In tutto il mondo urlare che la vita dei neri e dei migranti è importante significa urlare che non possiamo più accettare la violenza e il razzismo istituzionale, la divisione e la frammentazione dentro e fuori i luoghi di lavoro. Ciò di cui abbiamo bisogno oggi non è la semplice solidarietà, né di supplire alle mancanze dei governi e delle autorità: abbiamo bisogno di strumenti per rovesciare collettivamente il sistema attuale, per accumulare potere verso uno sciopero sociale transnazionale. A tal fine, attivare e promuovere i processi di organizzazione autonoma e di comunicazione transnazionale è l’urgenza politica che abbiamo davanti.