di LORENZO DELFINO e GIACOMO SALVARANI
Dal negazionismo all’economia di guerra. La crisi
Il confindustriale è uomo pratico. Un secolo di addomesticamento nel capitalismo italiano ha reso mediocri le sue ambizioni. Decenni di gestione industriale l’hanno trasformato in un individuo refrattario a ogni avventura. Verrebbe perciò da sé credere che quest’abitudine a porsi solo problemi che può facilmente risolvere abbia portato il confindustriale a essere un capitalista discretamente realista. Non è così. Certo, il confindustriale per sua natura non può che detestare la fantasia, ma allo stesso tempo non si può nemmeno dire che apprezzi sempre la realtà!
A chi legge forse basteranno due istantanee del mese di marzo 2020 per suffragare questa nostra convinzione, restituendoci un perfetto spaccato della parabola schizofrenica che ha vissuto il povero confindustriale, che si è trovato prima a dover negare e poi pervertire la realtà. Il giorno 11, Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, dall’interno di una zona rossa del paese in cui si fa la fila anche per essere cremati, non esita a dichiarare: “Le fabbriche sono oggi il posto più sicuro”! È difficile per il confindustriale ammettere che qualcosa possa smuovere la sua realtà, che qualcosa possa sospendere i suoi profitti e la sua fetta di potere acquisito ormai tramandato per generazioni: questo lo manda su tutte le furie. Infatti, il confindustriale non si arrabbia solo per i soldi, a irritarlo davvero è l’idea che lo Stato possa dirgli cosa fare e che i suoi dipendenti poltriscano a casa, senza poterli licenziare. Non può proprio sopportarlo. Non può sopportarlo al punto che, dovendo fare i conti con la sua realtà, molti e molte dei suoi dipendenti non hanno poltrito mai, anzi. Nella lombarda Confindustriopolis, fiore all’occhiello della produzione nazionale, il 40% di operai e operaie non ha mai giovato del lockdown nazionale sulle poltrone di casa: il lavoro loro non si è mai interrotto. Nella regione locomotiva del Made in Italy, le percentuali di impiego nei pubblici servizi si aggirano al 10% del totale degli occupati, mentre in quasi tutto il resto del paese la percentuale è ben più alta, in alcune regioni (che non a caso hanno subito molto meno gli effetti della pandemia) arriva al doppio. Anche per questo alla domanda: “Chiudere le fabbriche?”, la risposta è stata: “Impossibile, non si può fare”. Ondate di scioperi hanno investito il paese, ma il confindustriale proprio non ci sente e le studia tutte: cambia i codici ATECO affinché la sua azienda rientri nel novero di quelle attività essenziali che non possono proprio chiudere, trasforma la flessibilità dei propri macchinari nella capacità di convertire la produzione per le esigenze dell’epidemia… L’essenziale (ieri, oggi e domani) non è ciò che si produce, o dove, o come, l’essenziale è che il lavoro non si fermi mai. È proprio dalla riconversione che il confindustriale capisce che la realtà può sempre essere piegata ai propri fini e che non sarà poi tanto male: se si converte la produzione, allora siamo in guerra. E al confindustriale la guerra non dispiace per niente. Arriviamo così alla seconda istantanea di marzo, dodici giorni dopo la prima, e Vincenzo Boccia, all’epoca ancora Presidente, dichiara: “Entriamo in economia da guerra e perderemo 100 miliardi al mese”.
Dall’economia di guerra alla ricostruzione. Atteggiamento predatorio e sacrifici (degli altri)
Quelle istantanee sembrano oggi già ingiallite e appartenenti a un tempo lontano. Il confindustriale ha già un altro presidente, le sue fabbriche e i suoi magazzini sono stati centri di propagazione del contagio e teatri di morte, ma i suoi omologhi tedeschi telefonano per chiedere quando tornerà a produrre a pieno regime prodotti intermedi. Ci sarà la deglobalizzazione? Le filiere produttive si accorceranno? Cambierà la disposizione della concentrazione industriale e dei servizi ad essa connessa? Il confindustriale si agita un po’, proprio non vuole ammettere nessuna deviazione dall’ovattata realtà che tanto lo rassicura. Alla fine, però, ogni notte si corica sereno, sicuro che quello Stato che non gli ha mai voltato le spalle anche questa volta pagherà per lui i piccoli rischi d’impresa a cui andranno incontro le industrie italiane per restaurarsi nel mondo post-pandemico. In tal senso, l’economia di guerra è stata utile: ha permesso di ristabilire un’ideologia della partecipazione collettiva volta alla “ripartenza” dell’economia nazionale.
Gli appelli all’unità nazionale si susseguono. Predare gli interstizi commerciali prodotti dal mercato o dalle politiche governative di sostegno alle imprese, rivendicare la propria centralità e pretendere risarcimenti, chiamare i lavoratori alla mobilitazione industriale e piangere per derogare dai CCNL (contratti collettivi nazionali del lavoro). Nella logica del confindustriale, la responsabilità nazionale e il suo interesse privato sono la stessa cosa. Lui non si ferma alla superficiale retorica posticcia dell’italiano che si sacrifica ed esalta le sue qualità di fronte alle necessità belliche, ma la articola e la precisa: a immolarsi devono essere i milioni di operai e operaie dell’italica industria manifatturiera, italiani e non, che devono accettare condizioni di lavoro più precarie, dare ulteriore flessibilità alle proprie prestazioni, dilatare la giornata lavorativa organizzata su più turni. D’altronde si sa che tempi eccezionali richiedono misure eccezionali; e il confindustriale ritiene di non doversi nemmeno giustificare. Negli ultimi tre mesi la sua voce ha quindi tuonato forte, usando i governi regionali come testa d’ariete contro il governo nazionale per accaparrarsi tutto il possibile, ma la realtà ancora una volta ha bussato alla porta, e il confindustriale si è ritrovato a dover lamentare con sorpresa il diffuso odio anti-padronale. Mentre Conte dichiara di aver riaperto le aziende contro il consiglio degli “scienziati” – il Presidente di Confindustria Bonomi si lamenta che in questo illustrissimo consiglio non ci sia neanche un imprenditore (un affronto!) ma, come si è visto, si tratta di un raro eccesso di preoccupazione –, Confindustria ora trova l’occasione di un attacco definitivo ai CCNL, interpretando perfettamente la parte della “vittima”. Per entrare al meglio nella parte, il Presidente della Confindustria mantovana parla di “clima ostile e accanimento senza precedenti contro le imprese” – dal momento che, come sostiene, i “contagi si registrano essenzialmente nel settore della sanità”, non certo altrove –, e il Presidente della Confindustria marchigiana di “criminalizzazione delle imprese”, rifiutandosi di firmare il protocollo sulla sicurezza. La colpa degli operai che prendono il virus è degli operai stessi, non certo dei loro datori di lavoro, come dichiara il Presidente della Confindustria di Lecco e Sondrio, che addirittura reclama il diritto di poter denunciare i suoi dipendenti se si dovessero ammalare. Evidentemente, lo scudo penale non basta. “Bisogna avere ben presente che quella che sta iniziando è la stagione dei doveri e dei sacrifici, per tutti”, dice Bonomi, provando a far credere, neanche troppo tra le righe e in un ennesimo sforzo di perversione della realtà, che gli industriali sono gli unici a fare sacrifici in questo momento.
Un passo indietro. Confindustria è un’espressione tra le altre (e nemmeno la più influente) del padronato italiano
Da crisi a crisi, sovente ricorre il paragone tra il 2020 pandemico e la crisi economica del 2008. Questi paragoni, però, nel nostro caso lasciano il tempo che trovano. Non solo per le trasformazioni che hanno investito complessivamente il modo di produrre merci e di offrire servizi, ma anche perché la composizione stessa del padronato è diversa, e processi di lungo corso hanno portato a una nuova cristallizzazione del panorama padronale: da una parte un padronato italiano, fatto di piccole e medie imprese e attaccato a rendite e privilegi, e dall’altra capitali realmente globali. La crisi sanitaria arriva infatti a Confindustria dopo un decennio caratterizzato, oltre che da vicende giudiziarie che hanno agitato le sue paludose acque, anche da un esodo iniziato dalla Fiat di Marchionne e seguito in parte da Luxottica e altri gruppi del grande capitale nostrano. La costituzione ormai transnazionale, industriale e finanziaria della grande impresa, ha fatto perdere terreno al sindacato dei padroni e, oggi, più che la voce unitaria del capitalismo italiano, esso è la rappresentanza di una miriade di piccole e medie imprese del nord del paese, al punto che l’azienda del suo presidente non conta più di otto dipendenti. Mentre il sindacato di padroni e padroncini, soprattutto in Lombardia e in secondo luogo in tutto il Nordest, continua la lotta (di classe) contro i sindacati per ottenere deroghe ai contratti collettivi nazionali, il grande capitale si smarca autonomamente dalla tenzone per le briciole facendo il bello e il cattivo tempo per mezzo della contrattazione aziendale, ma chiedendo senza pudore – come ha fatto FCA, subito dopo aver distribuito lauti dividendi – garanzie statali per diversi miliardi di crediti bancari. Confindustria non è quindi più espressione di tutto il padronato italiano. E si deve anche considerare chi, come Amazon, in quella tenzone non è mai entrata, e durante la pandemia è riuscita ad acquistare fette enormi di mercato. E si devono anche considerare le imprese di settori specifici che si sono messe autonomamente insieme per stare dentro a logiche transnazionali di profitto, sfruttando quelle nuove dinamiche del mercato globale che agitano un po’ il confindustriale nostrano. Senza contare, infine, quelle associazioni locali che rendono il panorama padronale ancor più frastagliato. In questo contesto, Confindustria serviva finora a poco, era quasi un intralcio per i capitali globali che quindi decidevano di ignorarla e scavalcarla, e che comunque ricevono oggi i due terzi di liquidità garantita dal governo nel decreto-legge “Rilancio”. Proprio per questo, pur senza assumere un ruolo reale di direzione politica, Confindustria, minacciando, pretendendo e borbottando, è utile a tutti i capitalisti grandi e piccini che vogliono accaparrarsi una fetta dei finanziamenti promessi. In questa sua funzione di utile serva è costretta a seguire ed emulare i comportamenti di grandi gruppi che l’hanno abbandonata: anche ai tempi del COVID-19, i protocolli aziendali FCA, uscita da Confindustria nel 2012, hanno fatto da apripista per tutta la letteratura della profilassi di fabbrica.
Il dibattito politico, scordandosi di operai e operaie – che, del resto, vengono considerati come un mero input, al pari di denaro e tecnologia –, si concentra intorno alla richiesta di un principio di gratuità del credito a favore delle grandi aziende. I vincoli di austerità si allentano per lasciare spazio a una ristrutturazione capitalistica che è ancora senza appalto. La voce di Confindustria si alza per rivendicare la propria esclusiva capacità di moltiplicare le forze produttive, non per le innovazioni del ciclo o del prodotto, ma solo grazie alle deroghe dei contratti collettivi nazionali e al desiderio mai sopito di sancire per legge la libertà da ogni vincolo fiscale. Rivendica così la necessità di avere carta bianca sui licenziamenti, che Bonomi già prevede nell’ordine di un milione di posti di lavoro, sulle assunzioni (precarie, naturalmente), nonché sui ritmi e sulla durata della giornata lavorativa. D’altronde siamo in guerra, bellezza. Ma questo atteggiamento predatorio, le richieste allo Stato e l’assenza di un piano non possono nascondere il movimento complessivo di trasformazione tanto del lavoro quanto delle relazioni industriali. In una parola, nella richiesta di allentare le maglie dei contratti nazionali – che finora hanno funzionato per lo più imponendo limiti precisi agli aumenti salariali, ma che ora il confindustriale vede come ostacolo all’ulteriore compressione dei salari – si gioca una posta superiore a quella di uscire “indenni” dall’immediato presente.
Oltre la prospettiva predatoria. Vittimismo padronale per una pianificazione e mobilitazione industriale
Il riferimento al dopoguerra e alla ricostruzione, al di là del suo dato meramente retorico, appare calzante soprattutto se si paragona con gli anni che hanno seguito ogni grande guerra: ricostruire non significa tornare allo stato di cose precedenti. Il presente impegno confindustriale per ottenere sconti fiscali e deroghe ai CCNL va letto come la pretesa di un intervento statale sussidiario alla produzione che non comporti cessione, né allo Stato né al sindacato, di potere di comando sul lavoro, e come rivendicazione di una garanzia di copertura sociale e risarcimento per i rischi che comportano le trasformazioni in atto. Inoltre, un pieno sdoganamento giuridico della contrattazione di secondo livello dovrebbe incaricarsi di ricomporre, almeno parzialmente, la composizione frastagliata del padronato italiano, riaffermando la centralità del suo sindacato. Ciò che chiede Confindustria, al di là di uno scudo penale, di sostegni emergenziali e del taglio dell’Irap – che il governo Conte non ha esitato a concedere –, è che lo Stato costituisca il campo della “ricostruzione” secondo determinate condizioni, per esempio sospendendo i CCNL per gli orari di lavoro o eliminandoli completamente. Tutto ciò a favore di nuova una mobilitazione industriale, in cui le “grandi opere” tornano di moda – arrivando perfino a immaginare una metropolitana che colleghi Trento e Rovereto – e in cui l’unica regolamentazione dev’essere data dal rapporto di forza tra capitale e lavoro, naturalmente a favore del primo, senza intermediazioni statali e sindacali: le opere pubbliche devono essere subito “sbloccate”, con libertà totale di agire, detrazione delle imposte, e rischi ambientali che devono essere messi da parte.
Il confindustriale incolpa lo Stato di avergli fatto perdere con il lockdown competitività nei confronti di imprese con sede oltre i confini, quindi pretende il suo intervento, ma al contempo agita continuamente lo spauracchio dello “Stato imprenditore”, che vorrebbe decidere per conto del confindustriale. Tanto che Bonomi, appena investito della carica di Presidente magno, dichiara: “Lo Stato faccia il regolatore, stimoli gli investimenti. Per esempio, questo sarebbe il momento per rilanciare con più risorse il piano Industria 4.0. Ma si fermi lì. Non abbiamo bisogno di uno Stato imprenditore, ne conosciamo fin troppo bene i difetti”. La logica è semplice: decidiamo noi, tanto lavoro e poche chiacchiere, via la burocrazia e non chiedeteci più niente, ché con questa crisi ci abbiamo già rimesso abbastanza. E per ottenere ciò, il confindustriale si mette nella posizione di “vittima”, che risalta chiaramente in ogni dichiarazione: “Ho l’impressione che ci si prepari fin d’ora a scaricare le responsabilità su banche e imprese”, dice ancora il suddetto Bonomi, che è stato chiaramente messo lì per parlare e sparlare in continuazione. Non è difficile capire cosa voglia dire quando dichiara che è sbagliato immaginare che “passata la pandemia torna tutto come prima”. La pandemia come la guerra è un’occasione da non lasciarsi sfuggire, secondo il noto principio per cui, quando scorre il sangue, il momento per gli affari è perfetto.
E gli operai? E i sindacati?
I milioni di operai e operaie impiegati in Italia sono tutto per il confindustriale. Per sua natura, infatti, egli non si avventura in rischiosi investimenti tecnologici. Pretende che anche il passaggio all’agognata Industria 4.0 sia finanziato dalla benevola matrigna Europa e dallo Stato, cioè dalla fiscalità generale, cioè dai soldi dei lavoratori dipendenti che sono gli unici in Italia a pagare le imposte. Avremmo così il risultato davvero perfetto di operai che finanziano le forme nuove del loro sfruttamento. Questo esempio mostra quanto antagonismo ci sia dentro ogni richiesta confindustriale e si capisce la sorda resistenza che operai e operaie stanno opponendo.
Eppure, così come Confindustria vive la propria crisi starnazzando e cercando il sostegno governativo, anche i sindacati vivono una crisi che sembra speculare. Il calo del numero degli iscritti è indiscutibile, ma è anche indiscutibile l’incapacità di trasformare una consistenza di massa che pure ancora esiste in potere sociale e quindi in forza di contrattazione politica. Questa impotenza manifesta, che pone i grandi sindacati di fronte alla loro precaria utilità, è ancora più evidente quando si oltrepassano i confini del mercato e della contrattazione nazionale. Nel mercato globale, con i suoi rapporti di lavoro transnazionali grandi e terribili, le rendite di posizione vacillano inesorabilmente e la rappresentanza si svuota perché non riesce a produrre effetti. Le ore sempre più lunghe passate a lavorare nelle fabbriche e nei magazzini, in condizioni che nessun reddito potrà mai risarcire, diventano ogni giorno di più un buco nero, dal quale, per misera prudenza o per basso calcolo, tutti si tengono alla larga. Mentre l’istinto predatorio rivela al confindustriale che lì dentro si gioca buona parte delle sue fortune, i sindacati litigano sull’ultimo giorno di scuola. Mentre difendono comprensibilmente il contratto nazionale, sanno anche che solo trattando direttamente con le aziende possono immaginare di entrare al tavolo della gestione. I contratti collettivi sono l’ossigeno che tiene in vita i sindacati, ma l’immaginario sindacale è ricolmo anche di fantasie di cogestione, che difficilmente diventeranno realtà e, se succederà, produrranno effetti perversi di controllo, disciplina e brutale coercizione del lavoro. Landini propone un piano di regolamentazione dello smartworking insieme ai padroni; la FIOM, in perfetta sintonia, guarda al modello tedesco di cogestione sindacale, ovvero di un sindacato completamente integrato in azienda, vantandosi degli accordi con i padroni sulla salute degli operai e sull’essere riusciti a evitare ulteriori blocchi. La CISL di Furlan invita apertamente a cambiare insieme le regole del lavoro. L’attitudine predatoria del confindustriale deve essere ovviamente contrastata e cancellata al più presto, ma i modi in cui il sindacato si propone di farlo non sono solo inadeguati, ma anche preoccupanti. Ciò che merita ancora più attenzione in tempi di restaurazione e sacrifici è la forma necessariamente nuova che il sindacato assume per porsi come lo strumento definitivo del disciplinamento della forza lavoro. I lavoratori devono dipendere dai sindacati, che devono dipendere dal padronato: il topolino che al mercato globale mio padre comprò. E venne lo Stato, che salvò tutti… Ma alla fine della fiera, questa crisi ha dimostrato in modo evidente che l’unico lavoro essenziale è stato quello di operai e operaie che, nonostante la perdita costante di garanzie e di potere sociale, ostinatamente rifiutano con furia di essere ridotti alla rappresentanza sindacale.