di ALEJANDRA SANTILLANA ORTIZ[1]
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La pandemia ha causato in Ecuador migliaia di morti e il contagio continua a diffondersi, facendone uno dei Paesi più colpiti al mondo dal COVID-19. In questo contesto il governo Moreno riprende in mano il progetto di tagli della spesa pubblica e privatizzazioni selvagge nel segno di una duratura alleanza con il Fondo Monetario Internazionale. Come ci racconta Alejandra Santillana Ortiz, attivista femminista ecuadoriana, l’iniziativa di governo è volta da un lato a far pagare la crisi sanitaria ed economica a lavoratrici e lavoratori, attraverso una fiscalità differenziata che premia gli imprenditori, dall’altro approfitta della crisi stessa per accelerare il piano di aggiustamento strutturale e riforme neoliberali duramente contestato lo scorso ottobre in mobilitazioni di massa di portata storica. In questo progetto si inserisce il pagamento di 324 milioni di dollari al FMI nello scorso marzo e i tagli selvaggi alla sanità e all’istruzione pubblica. Questa riorganizzazione neoliberale del paese fa leva sull’intensificazione dello sfruttamento del lavoro salariato e gratuito delle donne e sulla precarizzazione di tutte e tutti. Per questo le donne, così come movimenti popolari e indigeni, studenti e insegnanti, hanno affermato di essere determinati a lottare e riprendersi lo spazio pubblico, convocando presidi, manifestazioni e scioperi, nel rispetto del distanziamento di sicurezza. Proprio le manifestazioni e i presidi condotti da studenti e docenti, donne e uomini precari in diversi punti del paese contro il piano di tagli di quasi 100 milioni di dollari all’educazione pubblica proposto dal governo Moreno, insieme al ricorso portato di fronte alla Corte per dimostrare l’incostituzionalità del piano di tagli, hanno portato al blocco di questa misura e quindi a un’importante, anche se ancora paziale, vittoria dell’ampio blocco sociale che da ottobre sta mettendo radicalmente in discussione l’organizzazione economica, politica e sociale del paese.
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Non riesco a concentrarmi. La mia testa viaggia verso sud, torna indietro, cerca di riprendere la tesi, leggo, pulisco, ascolto, pulisco di nuovo, lavo, riordino. Da giorni ormai so di essere triste. Scrivo da lì, in quel luogo comune. Oltre alle morti e alle infezioni da coronavirus, ci sono le misure economiche annunciate dal governo di Lenin Moreno che cercano di smantellare quel poco di pubblico che lo Stato ecuadoriano ha lasciato. Tra le lacrime che scorrono ogni giorno, abitiamo un dolore che convive con la rabbia e l’impotenza.
Ci saccheggeranno all’infinito fino a quando, quando usciremo di nuovo, ci avranno portato via quasi tutto?
Alla già diffusa crisi della cura, la pandemia aggiunge una crisi di mantenimento della vita. I tagli alla sanità pubblica e i licenziamenti del personale sanitario, il rafforzamento delle industrie farmaceutiche e degli ospedali privati e la scarsa capacità ospedaliera del Paese rendono visibile un lungo processo di saccheggio del sistema pubblico, a volte in chiave neoliberale e altre volte in chiave progressista. Le misure adottate dal governo per risolvere la situazione alimentare della popolazione non sono rivolte alle reti di piccoli e medi produttori, né al movimento indigeno e contadino del paese, né tanto meno a consentire i mercati popolari[2]. La proposta del governo è di mantenere l’accordo con le grandi catene di produzione e commercio di alimenti. Tuttavia, sono i lavoratori a essere stati maggiormente colpiti dalle misure dell’attuale governo: le proposte di legge emanate dall’Esecutivo, puntano a risolvere la crisi economica e sanitaria facendola sostenere economicamente alla classe operaia. In effetti, il discorso del governo sulla pandemia è stato quello di giustificare il suo intervento o il suo non intervento con la mancanza di soldi e quindi di chiedendo a tutti di intervenire per salvare l’economia. Per questo motivo, è stata istituita una tassa progressiva sul salario mensile dei singoli lavoratori e dei funzionari pubblici che guadagnano rispettivamente più di 500 dollari e meno di 1.000 dollari al mese; per i funzionari che guadagnano più di 1.000 dollari, viene applicato un contributo del 10% al loro stipendio. È bene ricordate che il salario minimo in Ecuador è di 400 dollari e che il paniere di base è di 716,14. In questo modo, si stima che saranno raccolti 900 milioni di dollari.
Dall’altro lato, gli imprenditori che hanno aziende che hanno ottenuto nel 2019 profitti superiori al milione di dollari, dovranno pagare una tassa del 5% sui loro profitti. Questa aliquota sarà in realtà un pagamento anticipato dei loro obblighi fiscali. Con questo meccanismo, si prevede che saranno raccolti 500 milioni di dollari. Quasi il 50% in meno di quanto viene prelevato dagli stipendi della classe operaia. Intanto il governo continua a pagare il debito estero: il 23 marzo ha erogato 324 milioni di dollari in obbligazioni, in una delle settimane in cui ci sono stati più morti e infezioni. Infine, con il drammatico calo del prezzo del petrolio a meno di un dollaro al barile e la dipendenza strutturale dell’economia ecuadoriana dall’estrazione del greggio, già si sono alzate voci che affermano che «questo è il momento storico per eliminare i sussidi ai combustibili fossili». Fare questo non significa solo permettere che il prezzo della benzina sia fissato dal mercato, ma anche lasciare che il prezzo di uno dei pochi fattori che permettono all’economia ecuadoriana di essere sovvenzionata dal dollaro sia in balia della volatilità dei prezzi internazionali del petrolio. Se la crisi del 1999 ha devastato il settore popolare e medio del Paese, quella che sta arrivando come conseguenza della clamorosa caduta del petrolio sarà molto maggiore. Le élite agroindustriali, agro-esportatrici e bancarie, che hanno sempre voluto fare dell’Ecuador un Paese che segua alla lettera le ricette neoliberali delle multinazionali e delle istituzioni internazionali, stanno rapidamente approfittando dell’emergenza sanitaria e del confinamento forzato degli attivisti per fare tutto ciò che non hanno potuto fare in 25 anni di mobilitazioni indigene e popolari: smantellare il sistema pubblico e mettere il comune al servizio degli interessi privati.
Dalla lotta di classe a cui abbiamo assistito in ottobre, lo scenario attuale ci mostra che mentre gli imprenditori governano ed emanano misure antipopolari, gli attivisti, le attiviste e i movimenti popolari cercano di sostenere la vita e contemporaneamente sviluppano soluzioni alla crisi sanitaria ed economica che stiamo vivendo. Nelle ultime settimane, il Frente Unitario de Trabajadores, la Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador, il Frente Popular, il Parlamento Plurinacional y Popular de Mujeres y Organizaciones Feministas e vari gruppi di ricerca hanno proposto opzioni alternative alle fonti di finanziamento della spesa pubblica istituite dal governo per l’emergenza sanitaria e ai problemi di liquidità in un’economia basata sul dollaro come quella ecuadoriana. I movimenti popolari stanno dando priorità alle risorse per la salute, l’alimentazione, l’occupazione e l’istruzione, e stanno chiedendo il blocco del pagamento del debito estero al FMI; la riscossione dei debiti dei datori di lavoro nei confronti del fisco; la riscossione di contributi proporzionali e progressivi alle grandi imprese; la nazionalizzazione del sistema bancario; l’attenzione prioritaria per le donne e gli uomini che lavorano come medici, gli infermieri e le infermiere e per i vari dipendenti di ospedali e cliniche; la cessazione delle attività di estrazione di risorse durante la pandemia e la rinegoziazione dei contratti petroliferi e minerari; il recupero del denaro dalla corruzione; l’applicazione della moneta elettronica e dei tassi di cambio per prevenire i deflussi di valuta e infine, l’iniezione di risorse nel sistema produttivo agricolo, per «rafforzare le reti di commercio, le catene di valore a corto raggio locali, promuovendo logiche di consumo basate sulla reciprocità e la fiducia» (PUCE 2020) o, come proposto dal CONAIE attraverso il suo Plan Solidaridad, per fornire cibo sano alle comunità rurali e agli abitanti dei centri urbani.
Infatti, in questa quarantena la mobilitazione dal basso è stata centrale. Sono le organizzazioni indigene e contadine che sono uscite ogni settimana per consegnare cibo e medicinali naturali alle diverse città del Paese; sono le organizzazioni dei lavoratori che hanno denunciato i licenziamenti nelle aziende della floricoltura e nelle imprese; sono le federazioni studentesche che rendono visibile come le classi online, in un Paese con scarsa copertura internet, rafforzano le disuguaglianze già esistenti per i bambini e i giovani dei settori popolari e delle aree rurali. E sono le donne e le organizzazioni femministe che, oltre a continuare la loro lotta, continuano a farsi carico del lavoro di riproduzione sociale, ma in condizioni di maggiore sfruttamento e persistenza della violenza maschile.
Secondo le statistiche dell’INEC, nel 2019 il lavoro non retribuito ha rappresentato il 20% del PIL, e di questa percentuale il 18% per cento è svolto da donne. Per il momento non ci sono dati sul lavoro di cura non retribuito in questo mese di reclusione, né possiamo sapere con certezza quanto di questo lavoro sia svolto dalle donne. Tuttavia possiamo dedurre, come dimostrano i rapporti, le analisi e i dati di altri paesi, che il lavoro per le donne in quarantena ha tre caratteristiche: 1) si allunga la giornata lavorativa per quanto riguarda tanto il lavoro produttivo quanto il lavoro riproduttivo non retribuito; se già prima i confini tra il tempo di lavoro produttivo e quello riproduttivo erano a volte sfumati, oggi sono praticamente cancellati e c’è un continuum tra i due; 2) il tempo di lavoro è stato intensificato a causa delle esigenze di cura delle famiglie, dei bambini e degli anziani; e 3) l’enorme lavoro di sostegno emotivo in reclusione e durante la giornata è intensificato dalla divisione sessuale del lavoro e dalla mancanza di tempo per le famiglie per adattarsi alla quarantena, costringendo le donne ad accelerare le proprie capacità di creare condizioni di serenità in casa. Inoltre, le misure adottate dalle istituzioni educative e dai datori di lavoro, dalle aziende, ecc. sono volte a mantenere la produttività nel bel mezzo della crisi. Così, il carattere di sfruttamento ed espropriazione del lavoro svolto dalle donne in questa quarantena combina il plusvalore assoluto e quello relativo nella stessa giornata di lavoro.
Tutto ciò cosa ci dice sul profitto che i capitalisti ottengono in questo contesto? Nei momenti in cui l’intensificazione del lavoro riproduttivo si combina con il prolungamento della giornata lavorativa non retribuita, e allo stesso tempo con il lavoro produttivo salariato, si verificano licenziamenti e un deterioramento del valore dei salari. Così, il tasso di profitto degli imprenditori aumenta attraverso lo sfruttamento sul lavoro. In contesti di radicalizzazione delle misure neoliberali, il rafforzamento del lavoro non retribuito permette di sostenere la pressione al ribasso dei salari della classe operaia e il tasso di profitto dei capitalisti è garantito perché non devono pagarci direttamente, perché il nostro lavoro non viene pagato.
Nei momenti in cui tutto è organizzato intorno a un virus e alla sopravvivenza, il dolore che ci affligge per la perdita di vite umane e il lavoro affettivo e di cura che facciamo noi donne non sono meno importanti della riproduzione materiale della vita. Le donne sono «in prima linea come lavoratrici di cura (infermiere, cassiere di negozi)». E noi siamo quelle che sostengono «l’aumento del lavoro in casa, non trasmettendo la paura ai bambini, proteggendoli da questa minaccia»[3].
La quarantena forzata, il coprifuoco e i livelli di contagio e di morti, hanno confinato noi del Parlamento de Mujeres all’articolazione e alla coordinazione virtuale. Sono state settimane difficili. E riuscire a essere insieme, a denunciare ciò che il governo fa, a gestire la solidarietà e a dare speranza, alternando l’accompagnamento emotivo in modo che quando qualcuno entra in crisi, ansia e tristezza, non ci sovraccarichiamo solo in poche ma redistribuiamo la cura, ci ha messe a dura prova. Proviamo a continuare a lottare senza poter mettere il nostro corpo con gli altri, insieme ad altri, per strada. In questi giorni di lutto, abbiamo appreso che negli ultimi due mesi sono morte 7900 mila persone a Guayaquil, una città costiera dell’Ecuador tra le più colpite da questa pandemia. Abbiamo trascorso settimane in cui la popolazione ha denunciato attraverso i social il numero di morti e le condizioni disumane della morte. I corpi sono scomparsi, i cimiteri sono stati riempiti, gli ospedali curano solo i malati che si ritiene possano sopravvivere, i laboratori e le farmacie hanno aumentato i loro profitti a scapito della disperazione della gente. Per questo, di fronte ai tentativi del governo ecuadoriano di isolare i morti e allo stesso tempo di cancellarli, raccogliamo il lutto: piangiamo i morti nel paese, esponiamo candele per ricordarli, anche se non li conosciamo, e mettiamo nastri neri nelle nostre case, in modo che non rimangano in silenzio o spariscano tra i numeri e le tombe.
Per diversi venerdì abbiamo fatto dei cacerolazos per protestare contro le misure neoliberali; verso la fine di marzo, alla vigilia del pagamento di 324 milioni di dollari al FMI, abbiamo lanciato un tweetstorm per chiedere una moratoria sul pagamento del debito estero; e ci siamo unite per sostenere le denunce sollevate dai lavoratori e dalle lavoratrici tramite dichiarazioni e manifesti. E in queste settimane di quarantena, la logica imprenditoriale dei datori di lavoro non ha significato solo un aumento dei licenziamenti, ma anche una maggiore precarietà. È il caso dei fattorini che distribuiscono alimenti e medicinali della piattaforma transnazionale Glovo che, stanchi di vedere ridotti i loro diritti e di essere costretti a lavorare senza protezione, hanno protestato fuori della sede dell’azienda. E d’accordo con altri corrieri in Argentina, Messico e Colombia, il 22 aprile hanno indetto il primo sciopero internazionale dei fattorini. I rapporti di fiducia e di sostegno del Parlamento de Mujeres si sono attivati e oltre a diffondere informazioni sui social, abbiamo accompagnato e supportato i/le compagni/e.
Il 1° maggio, una giornata senza precedenti nella storia del paese, la Conaie, la FUT, il Fronte Popolare, e diversi collettivi di sinistra hanno convocato cacerolazos e piccoli presidi in diverse parti della città. Noi, con il Parlamento Plurinacional y Popular de Mujeres y Organizaciones Feministas, abbiamo contribuito a rendere visibile il lavoro di cura attraverso la diffusione di brevi video che ci hanno inviato le compagne di diverse organizzazioni e di diverse parti del Paese. In questo modo, abbiamo posto il sostegno alla vita e la solidarietà come base del nostro lavoro, così come l’organizzazione e la ribellione come parte centrale di ciò che intendiamo per cura: combattere contro tutto ciò che ci nega la dignità.
Tuttavia, pochi giorni prima di questa giornata, il governo neoliberale di Moreno ha approvato un taglio economico di un totale di 98 milioni di dollari che corrispondono al bilancio nazionale per i finanziamenti di 32 università. Quando ciò che un governo organizza è l’accordo con il FMI, il pagamento del debito estero e gli interessi degli imprenditori, l’istruzione pubblica non è più un diritto. In questo modo, il governo costringe le università a licenziare insegnanti e lavoratori perché non ha i fondi per pagare, sovraccarica coloro che possono ancora mantenere il loro lavoro e limita l’accesso di migliaia di giovani all’istruzione superiore. Sappiamo che la riduzione del budget per l’istruzione mette a rischio il mantenimento e la piena permanenza delle istituzioni pubbliche di istruzione. Con le università pubbliche sotto-finanziate, dove si aspetta il governo di educare la popolazione? È chiaro che il progetto imprenditoriale cerca a lungo termine di tenere milioni di giovani fuori dalle università, di obbligare molti altri a finanziarsi la propria istruzione e di lasciare migliaia di insegnanti senza lavoro.
Il 5 e l’11 maggio, le diverse organizzazioni studentesche – di università pubbliche e di alcune università private – così come i lavoratori e gli insegnanti hanno indetto presidi e brevi manifestazioni che hanno rispettato le norme di salute, sicurezza e assistenza, ma che hanno chiarito che il ritorno graduale in strada è una possibilità. Nonostante i rischi che ciò comporta, i movimenti e i settori popolari del paese sanno che le classi dominanti stanno testando la nostra reazione e la nostra capacità di rispondere al loro progetto neoliberale.
In questo contesto di incertezza, non sappiamo ancora come protesteremo a lungo termine, ma siamo fiduciosi che il lungo ricordo dell’insubordinazione, delle rivolta e degli sciopero che si sono susseguiti negli ultimi 25 anni, presente nell’ottobre dello scorso anno, troverà il modo di diventare un corpo presente, una voce plurale, in prima linea.
[1] Femminista, è parte del Parlamento Plurinacional y Popular de Mujeres y Organizaciones Feministas dell’Ecuador. Ricercatrice presso l’Instituto de Estudios Ecuatorianos, l’Observatorio de Cambio Rural, il Grupo Estudios Críticos del Desarrollo Rural e la Red de Género, Feminismos y Memorias de América Latina y el Caribe coordinata da CLACSO. Inoltre, è parte del Forum Femminista Contro il G20, della Cátedra Libre Virginia Bolten e della Confluencia Feminista del Foro Social Mundial de Economías Transformadoras. Attualmente è dottoranda in Studi latinoamericani presso l’Universidad Nacional Autónoma de México.
[2] Secondo l’Observatorio de Cambio Rural https://ocaru.org.ec/ il 70% della sicurezza alimentare ecuadoriana è in mano a piccoli produttori e contadini. Inoltre, secondo la ricerca realizzata da Patric Hollenstein per l’Universidad Central del Ecuador, “il sistema commerciale e dei mercati di Quito si compone di migliaia di piccole imprese, delle quali circa il 75% sono gestite da donne. Si stima che questo sistema fornisca più del 75% dell’approvvigionamento alimentare di Quito. Per consultare l’articolo: ¿Están en riesgo los mercados y ferias municipales? Aprovisionamiento de alimentos, economías populares y la organización de
[3] Federici, 2020.