È stato un primo maggio diverso negli Stati Uniti, non solo per la pandemia e 30 milioni di domande per il sussidio di disoccupazione. Bisogna andare indietro di qualche anno, nel 2012, per trovare qualcosa di simile. L’anno in cui il movimento Occupy, sfidando tutte le leggi antisciopero statali e federali e i grandi sindacati, proclamò e organizzò uno sciopero generale il primo maggio. Negli Stati Uniti lo sciopero generale è vietato da una legge federale del 1947 e da una miriade di leggi dei singoli Stati che inaspriscono il divieto. A ciò si aggiunga che il primo maggio è un giorno lavorativo come gli altri. Le prime avvisaglie che quest’anno la situazione poteva essere diversa si erano viste da metà marzo in poi. Gli scioperi selvaggi nei magazzini di Amazon a New York, quelli di migliaia di driver di Instacart che consegnano generi alimentari in California, degli autisti di bus di Detroit, dei lavoratori delle aziende che si occupano di sanificazione dei luoghi di lavoro in Pennsylvania sono solo alcuni esempi. A questi scioperi si sono sommati vari comportamenti di sottrazione dal lavoro come il salto del turno di migliaia di lavoratori degli impianti di confezionamento della carne in Colorado e la «giornata di malattia nazionale» indetta il 31 marzo dai lavoratori di Whole Foods. Nelle varie forme di lotta le richieste sono state però simili: indennità di pericolo o congedo per malattia retribuito per tutta la durata della pandemia, dispositivi di protezione individuale e tutti i prodotti per la sanificazione che devono essere forniti dall’azienda, piena trasparenza aziendale sul numero di casi di contagio sui luoghi di lavoro. In pochi giorni i singoli episodi di conflitto si sono incrociati e hanno dato luogo a un processo di coordinamento e riconoscimento reciproco che non era per nulla scontato. L’uso massiccio di social network come Facebook e Instagram, di software come Zoom e Skype, di centinaia di gruppi di affinità su Telegram, WhatsApp, Twitter e Signal ha costituito una sorta di infrastruttura comunicativa per lo scambio delle esperienze, delle riflessioni, delle proposte. Una produzione di soggettività che man mano che si è allargata e approfondita, oltre a consolidare le relazioni tra gruppi di lavoratori, ha attivato anche modalità associative non riconducibili semplicemente alla tradizionale organizzazione sindacale.
Gli scioperi e le lotte tra metà marzo e metà aprile sono avvenuti al di fuori delle organizzazioni sindacali che, tra l’altro, in non pochi casi hanno cercato di contenerli. Non si è trattato solo delle classiche vertenze per ottenere miglioramenti salariali o delle condizioni di lavoro. Il conflitto si è sviluppato soprattutto nelle Corporation della grande distribuzione e del commercio online che stanno facendo profitti stratosferici sfruttando la pandemia. La pandemia tuttavia ha messo anche a nudo la «normale» pericolosità dei processi di valorizzazione e delle strategie di sfruttamento della forza-lavoro facendo emergere la salute e la vita dei lavoratori come reale posta in gioco del funzionamento di un modo di produzione. Si sono consolidati e ampliati gruppi di base di lavoratori già esistenti come Amazonias United e Target Workers Unite, altri sono nati nelle ultime settimane come ad esempio Whole Workers, Gig Workers Collective, Instacart Shoppers. Il caso di Target Workers Unite è tra i più interessanti. La Target Corporation è una delle principali società della grande distribuzione con 360 mila dipendenti e circa 2 mila negozi negli Stati Uniti. Tra il marzo e il luglio dell’anno scorso un gruppo di lavoratori ha fatto un’inchiesta in circa 400 punti vendita sulle condizioni di lavoro, sull’organizzazione del lavoro, sul tipo di forza-lavoro occupata. I risultati dell’inchiesta hanno costituito la base di una piattaforma di rivendicazioni e la scelta di Comitati di lavoratori e lavoratrici, le quali sono il 75% dei dipendenti, come forma organizzativa che nello sviluppo della sua azione cerca di combinare le questioni di genere e razza con quelle di classe. Si è stabilito un terreno, certamente embrionale, di iniziativa e riflessione sul rapporto tra produzione e riproduzione sociale. I Comitati di Target hanno svolto un ruolo importante nella formazione di una delle principali coalizioni che hanno promosso lo sciopero del primo maggio. Quella tra i lavoratori di Amazon, Whole Foods, Walmart, FedEx, Instacart e ovviamente Target. Tuttavia, questa non è stata la sola coalizione di gruppi collettivi e associazioni di lavoratori che hanno promosso lo sciopero o la sottrazione al lavoro nelle varie forme possibili, come ad esempio il Sick Out, e cioè mettersi in malattia quel giorno. All’inizio di aprile un appello nazionale per lo sciopero generale del primo maggio lanciato da Cooperation Jackson, una rete di cooperative di lavoratori del Mississippi, ha raccolto molte adesioni dando vita a una seconda coalizione con un proprio percorso, quella di People’s Strike, che ha unito lo sciopero sui luoghi di lavoro allo sciopero degli affitti e alla rivendicazione di un sistema sanitario nazionale gratuito.
Lo sciopero del primo maggio ha avuto varie articolazioni: dai «cortei» virtuali in rete, ai flash mob – rispettando tutte le norme di sicurezza ‒ davanti ai luoghi di lavoro, alle carovane di auto, moto e biciclette come a New York. Quanto realmente ha inciso e inciderà questo sciopero sui luoghi di lavoro e nei rapporti sociali si vedrà nelle prossime settimane. Un dato da sottolineare, che mostra quanto la costruzione dello sciopero sia stata diffusa, riguarda l’atteggiamento delle grandi organizzazioni sindacali. La Afl-Cio, la più grande federazione sindacale degli Stati Uniti, ha inizialmente ignorato lo sciopero, per poi squalificarlo e depotenziarlo verso metà aprile e infine nei giorni appena precedenti, visto il tipo di mobilitazione in atto, ha dato l’indicazione ai propri funzionari di non contrapporsi. Questo significa che il processo di costruzione dello sciopero ha coinvolto settori significativi di lavoratori e lavoratrici. Il percorso verso lo sciopero ha coinvolto in modo attivo anche una parte delle associazioni e collettivi della sinistra radicale, un fatto non scontato alla luce delle esperienze passate a partire dal movimento Occupy in poi. Il Marxist Center Network, una rete che riunisce molte associazioni e collettivi di base, e la corrente politica Emerge dei Democratic Socialists of America hanno giocato un ruolo positivo nelle connessioni sociali tra settori produttivi e della riproduzione sociale, nell’amplificare le piattaforme e le forme del conflitto. Certo si tratta solo di un primo passo verso una ricomposizione sociale che non sia di nuovo la coazione a ripetere le inutili e inefficaci sommatorie tra vari soggetti politici. La questione che sta di fronte agli occhi di tutti è come si articolerà una ricomposizione che nel suo svilupparsi metta in discussione e trasformi i soggetti in campo e come la composizione di classe scesa in campo il primo maggio riuscirà a raccordarsi a forme organizzative che almeno in parte saranno inedite.