All’interno del dibattito politicamente più avvertito e attento, sembra ormai patrimonio comune il fatto che – per poterne custodire i valori di moralità, eticità e politicità – sia necessario affrontare la Resistenza – da un punto di vista storiografico, come da un punto di vista antropologico, sociologico e filosofico – a partire dall’intrinseca problematicità dell’esperienza della lotta partigiana, dalla sua complessità e difficoltà, per usare una felice connotazione di Santo Peli. Moralità, in quanto la Resistenza fu, in primis, una “questione privata”, un momento vissuto nell’interiorità del soggetto, nella frattura che ha investito le singole coscienze nel momento della scelta per la lotta. Eticità, in quanto fu momento di riconoscimento collettivo, ad opera di una parte, che ha posto le basi, tramite l’assunzione volontaria, dolorosa e responsabile della violenza, di un nuovo ethos: di un nuovo luogo da abitare che ha voluto essere universale. Politicità, poiché proprio la moralità e l’eticità che hanno innervato la Resistenza la rendono momento generativo della stessa mentalità costituente.
Se questo imprescindibile lavoro di analisi scientifica “salva” la Resistenza come oggetto di analisi storiografico, occorre poi mettere in questione la relazione tra memoria e Resistenza – muovendosi quindi su un piano che è propriamente simbolico, narrativo e politico – e sfuggire la mera declinazione oggettuale di tale relazione (che vede la Resistenza come “oggetto” di memoria). A tal fine può risultare utile analizzare lo statuto della memoria in quanto facoltà e, seppur brevemente, considerare sia quanto successo alla memoria durante l’esperienza della lotta di liberazione sia quanto quest’ultima abbia influito sulla sua grammatica di funzionamento.
È Italo Calvino l’autore che mette a tema questo aspetto, con rigore analitico e intensità letteraria, nella Prefazione all’edizione del 1964 del suo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno (a diciassette anni di distanza dalla sua prima pubblicazione). La relazione tra memoria e Resistenza si scompone, passando attraverso il prisma argomentativo dell’autore, in quella tra memoria, esperienza e narrazione. Seppur non citandolo, Calvino sembra riprendere i termini di un importante saggio firmato da Walter Benjamin nel 1936: Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov. Il tema è quello dell’effetto prodotto dalla guerra (l’autore tedesco si riferisce alla Prima Guerra Mondiale) sulla possibilità stessa di fare esperienze e, quindi, di trasfigurarle in opere narrative. Il giudizio di Benjamin è lapidario: «l’arte di narrare si avvia al tramonto», proprio perché la devastante guerra di trincea ha rinsecchito la capacità stessa di fare esperienze e di scambiarle oralmente, di raccontarle, prosciugando così la fonte più viva dalla quale attingere materiale narrativo. Calvino, pur muovendosi tra gli stessi elementi, presenta un quadro diametralmente opposto:
L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare […]; ci muovevamo in un multicolore universo di storie. Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale.
La tensione etica che ha attraversato la Resistenza, il suo essere frutto di una scelta personale di adesione ad un processo collettivo verso un “possibile” nuovo, trasfigura l’esperienza della guerra, la rende viva, la strappa dalla completa eterodirezione – come quella subita in trincea – e permette quindi il racconto. Non solo a posteriori, in quanto la Resistenza introduce il romanzo nella lotta stessa, nota sempre Calvino nella Prefazione in esame:
La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui. Lo scenario quotidiano di tutta la mia vita era diventato interamente straordinario e romanzesco: una storia sola si dipanava dai bui archivolti della Città vecchia fin su ai boschi; era l’inseguirsi e il nascondersi d’uomini armati; anche le ville, riuscivo a rappresentare, ora che le avevo viste requisite e trasformate in corpi di guardia e prigioni; anche i campi di garofani, da quando erano diventati terreni allo scoperto, pericolosi ad attraversare, evocanti uno sgranare di raffiche nell’aria.
Ma la memoria, che ha sempre un portato involontario, in che modo si inserisce in questo quadro? L’esperienza, continua Calvino, è la «memoria più la ferita che ti ha lasciato, più il cambiamento che ha portato in te e che ti ha fatto diverso». Il ruolo della memoria è quindi connesso con l’azione, apparentemente immota e incontrollabile, giocata dalla cicatrice di un cambiamento. Il segno, indelebile, rimasto nel soggetto resistente a testimonianza dell’esperienza della scelta – questa volta, seppur con gradienti di consapevolezza differenti, volontaria –; di una scelta che lo ha prima “rotto” e poi “colto” in un soggetto nuovo, in un soggetto che, nella morsa della necessità, ha scelto di vivere la propria libertà. Ha scelto di smettere di essere ancora fascista. Ha scelto – assumendo la propria coscienza come un compito, e non come un dato – di vivere la necessità che la storia presentava lui, mutandola – in uno sforzo collettivo – di segno. «Ci trovammo tutti scaraventati di fronte a scelte non rinviabili, e relativamente radicalizzate. Con il 1938, la radicalizzazione fu assoluta: la guerra divise il mondo in due fronti e non consentì di rinviare decisioni. La storia girava sui suoi cardini e noi con lei. L’engagement non fu più un problema personale, ma una realtà di fatto, cosciente o subìta», scrive Rossana Rossanda. E Franco Fortini conferma: «non fui io a impegnarmi nella politica attiva, fu la guerra che mi impegnò».
Parlare, oggi, di memoria della Resistenza significa fare i conti con la ferita evidenziata da Calvino; significa affrontarla, in modo consapevole, ma a partire dalla sua matrice “involontaria”. Vittorio Sereni – in un componimento che sin dal titolo, Nel sonno, evoca sia il portato mnestico inconscio sia il lavorio conscio della sua interpretazione – istituisce una relazione simbolica tra i partigiani e “noi” proprio a partire dalla metafora della ferita: «Geme / da loro in noi nascosta una ferita». La riattivazione di una memoria viva della Resistenza necessita quindi di un doppio passo.
Per prima cosa occorre “sentire”, nei tasselli spesso incontrollabili della nostra vita mnestica, la pulsazione, seppur flebile, della ferita che incide la nostra memoria e che è a sua volta “memoria” di una scelta assunta da altri, ma che ci interpella, in quanto “forma” di ogni possibile scelta fondativa: ovvero di uno scegliere di scegliere. È come se Sereni ci dicesse: affinché si dia testimonianza di un’esperienza altrui, è necessario che noi sentiamo, che noi esperiamo un momento di rottura. Ma che ci coglie in altro. Questo passo istituisce una relazione simbolica, di riconoscimento, con quanti hanno combattuto la Resistenza e trasla l’esperienza della loro morte, della singolarità della loro sofferenza, in un rinnovato senso di vita e di sopravvivenza. Nota al riguardo Fortini: «o in ogni vivo vedremo trasparire i passati – e primi quelli della nostra esperienza, se non abbiano avuto vita compiuta o giustizia; e insomma i più, riassunti in alcune figure simboliche – o “l’amore dell’umanità” che cadendo i Comunardi gridavano sarà una parola davvero vuota, dove nascondere un supplemento di tremore».
Il secondo passo consiste invece nella riattivazione di una pratica di ricordo, da costruirsi mediante consapevoli scelte discorsive e narrative, in grado di strappare l’esperienza della memoria profonda e soggettiva alla degradazione nell’estetico. Ma ciò necessita di un progetto collettivo e condiviso, di un’idea di futuro che retroagisce sul passato e che trova a quest’ultimo un posto nel presente. Il ricordo diviene quindi lo strumento grazie al quale le relazioni simboliche che legano le memorie si trasformano in un progetto culturale e politico transgenerazionale: «il ricordo, nella sua definitività narrativa, è oggetto o strumento. Può passare di mano in mano. Già in sé contiene giudizio e scelta. Strappa al magma dei paradisi e degli inferni solo interiori. Costituisce dure sequenze di una temporalità non individuale. Esige il patto fra persone e generazioni; e la fedeltà al patto», continua Fortini. Solo mediante tale fedeltà ad un processo che è collettivo – che è tutt’altra cosa dall’essere condiviso! – le memorie individuali, fonte simbolica necessaria per contrastare l’oblio, assumono valenza pratica e si ispessiscono di una dimensione storica e politica. Dove i portati di moralità, eticità e politicità incarnati dalla Resistenza vanno a ritagliare i confini di una tradizione – da costruirsi non in termini accumulativi, ma tramite scelte puntuali, da commisurarsi su di un progetto, su ciò che più ci serve – carica di futuro e di spinta di liberazione.