Intervista a GIANNI BOETTO (ADL Cobas – Padova)
Abbiamo intervistato Gianni Boetto (ADL Cobas Padova) sulla situazione nei magazzini della logistica, classificata come settore essenziale, durante quest’emergenza del COVID-19. L’intervista è un capitolo di una discussione di lunga data con i compagni di ADL Cobas sulle lotte nella logistica e sulla possibilità di radicare l’iniziativa transnazionale dentro le lotte locali. Gianni racconta come in molti magazzini non siano state garantite le condizioni minime di sicurezza, a causa di protezioni insufficienti, criteri di distanziamento e di sicurezza che cambiano continuamente, un’organizzazione del lavoro che in alcuni luoghi rende inevitabili gli assembramenti, il reclutamento di migranti dai centri d’accoglienza pericolosamente sovraffollati. Questo ha prodotto una molteplicità di forme di lotta e di astensione dal lavoro con la parola d’ordine “prima la salute”, lotte che le restrizioni imposte hanno reso più difficili ma non impedito. Una situazione che, anche nell’imminente fase 2, pone il problema di come coniugare la capacità di imporre condizioni di sicurezza sul lavoro e di garantire una continuità di reddito, senza illudersi che le forme di sostegno al reddito possano da sole costituire una liberazione dal ricatto del lavoro e del salario. Mentre gli effetti sanitari ed economici del COVID-19 stanno travolgendo il mondo intero, si rende urgente affrontare il problema di coniugare percorsi di lotta nei luoghi di lavoro e una lotta transnazionale che può dare agli stessi percorsi locali forza e slancio. Gli scioperi e le proteste che hanno attraversato i magazzini di Amazon europei e statunitensi in questi mesi, forti di una precedente comunicazione transnazionale tra i lavoratori di vari paesi, offrono un potente esempio. Come allargare questi esperimenti e stabilire connessioni tra le diverse forme di lotta e di rifiuto che stanno attraversando il globo contro la pretesa che alcune vite valgano meno di altre è la domanda che ora deve essere posta.
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ʃconnessioni precarie: Con l’emergenza Coronavirus sembra che tutti quanti adesso si siano resi conto che la logistica è l’elemento centrale per la circolazione delle merci, di semilavorati e quant’altro. Ci dici qualcosa sulla situazione dei magazzini, in particolare in Veneto e dove siete presenti?
Gianni Boetto: La questione del Coronavirus ha impattato pesantemente dappertutto. Il governo ha ridotto o chiuso una serie di attività e ha introdotto misure di distanziamento sociale piene di ipocrisia: da una parte ti perseguitano se vai col cane a 200 metri di distanza da casa, dall’altra in tantissime attività, ma soprattutto nella logistica, le condizioni di sicurezza sono un optional. Nella firma del famoso protocollo del 14 marzo si vede che i codici ATECO inseriti includono pressoché tutte le attività. Quando abbiamo contestato al segretario generale di Fedit [Federazione Italiana Trasportatori] che nei magazzini TNT o Bartolini o GLS o altri i colli che venivano movimentati non erano soltanto quelli essenziali, lui ci ha mostrato che nel protocollo erano previsti codici ATECO che permettevano di movimentare qualsiasi merce. Non c’erano solo i beni essenziali, c’era di tutto! E questo è successo. Del resto, è aumentata moltissimo tutta la consegna a domicilio. Si è creata una situazione molto pesante per i driver, specialmente per le donne driver, basti pensare a cosa significa stare in giro dalla mattina alla sera con tutti i bar chiusi senza poter andare in bagno.
In alcuni posti è stata richiesta la cassa integrazione, perché in alcuni magazzini non c’erano proprio le condizioni minime per lavorare. In GLS il sistema di lavorazione è ancora interamente manuale. In TNT, Bartolini e DHL hanno dei sorter, ovvero delle rolliere che smistano i colli sulla base dei codici a barre letti da sensori ottici. Lì il distanziamento può essere in qualche modo rispettato anche evitando di andare in più persone a caricare o scaricare nel camion. In GLS, invece, c’è un sistema ancora basato su gabbie che vengono scaricate e poi ciascuno prende un pacco e lo porta dove questo deve essere smistato. Questo sistema prevede una concentrazione di quindici o venti persone che devono lavorare manualmente attorno alla gabbia per spostare questi pacchi. È chiaro che questo tipo di movimentazione è fuori da ogni minima sicurezza, tant’è vero che in GLS i lavoratori stessi, potendo scegliere, sono andati in cassa integrazione. Noi abbiamo fatto un accordo per cui ogni lavoratore poteva scegliere tra cassa integrazione e lavoro. A Padova, per esempio, ottanta lavoratori su cento hanno scelto la cassa integrazione e solo in una ventina, per la maggior parte migranti nigeriani, sono rimasti a lavorare.
Ci puoi dire di più sulle lotte contro l’obbligo di lavorare senza condizioni di sicurezza? Quanto ha influito sulla capacità di lottare e organizzarsi il fatto che la logistica sia stata definita un settore “essenziale”?
Noi di ADL insieme a SiCobas abbiamo detto “prima la salute”. Se il governo dice di stare tutti a casa, anche i lavoratori della logistica, fatta salva la necessità di movimentare i prodotti veramente essenziali come alimenti e farmaci, devono avere diritto alla salute. Quindi l’indicazione che abbiamo dato è stata quella di rifiutarsi di movimentare beni che non erano essenziali. Qui in Veneto, ma anche in Emilia e in Lombardia, gli scioperi sono stati a macchia di leopardo quasi ovunque, non in GLS dove la promiscuità dei contatti sul lavoro è tale che la paura del contagio è stata più forte. In linea di massima abbiamo cominciato a fare, insieme a SiCobas, una serie di accordi sulla cassa integrazione dove i lavoratori stessi hanno determinato autonomamente la scelta. Il punto non era tanto voler scioperare, ma esercitare il diritto a preservare la propria salute. Infatti, non l’abbiamo chiamato sciopero ma “astensione dal lavoro da rischio Coronavirus”. I criteri delle misure di sicurezza sono cambiati continuamente. All’inizio avevano detto che la distanza di sicurezza era di un metro e, dove non si poteva applicare, c’era l’obbligo della mascherina. Ora la distanza deve essere di due metri e la mascherina è comunque obbligatoria. Anche sulle mascherine abbiamo visto cose assurde: una sera in GLS ho visto dare delle mascherine assolutamente ridicole, che sembravano fatte di carta velina e si rompevano immediatamente. Quindi il tipo di battaglia che è stata fatta ha mirato all’ottenimento di dispositivi di sicurezza come mascherine e guanti. La cosa fondamentale sul lavoro è il problema del distanziamento: la percezione dei lavoratori è che il pericolo non è uguale per tutti.
Con SiCobas abbiamo lanciato due giorni di mobilitazione per il 30 aprile e il 1° maggio nella speranza che il 1° maggio la grande distribuzione chiuda, ma non si sa mai. Adesso se nel magazzino arrivano dei casi di contagio si crea allarme e diventa un problema, ma laddove non ci sono casi di contagio e vengono prese misure di tutela si continua a lavorare o si prende la cassa integrazione. Noi abbiamo imposto comunque un’anticipazione della cassa integrazione con la busta paga di marzo, cosa che normalmente non accade perché nella logistica è pagata il mese successivo. Dovete pensare poi che quando si dice che la cassa integrazione corrisponde all’80% del salario è una cazzata. Gli stipendi nella logistica sono intorno ai 1600 euro lordi, ma l’80% non è basato su quel salario quanto sui massimali che sono 1100 o 1200 euro. Quindi di fatto poi uno porta a casa 720 o 900 euro se sta in cassa integrazione tutto il mese. Questo cambia parecchio. L’idea di prendere così poco sta ponendo qualche problema e laddove c’è la possibilità di lavorare le persone cercano di tornare al lavoro. Noi stiamo cercando di tenere insieme il problema della sicurezza sul lavoro con quella delle necessità di un reddito.
Voi tra le altre cose avete lanciato una campagna sul reddito di quarantena. A volte sembra che la lotta sul reddito sia posta in alternativa alla lotta sul salario. Come pensi che le due cose si possano tenere insieme?
Reddito e salario non sono per nulla due cose che stanno in contraddizione. Anche l’idea del reddito di quarantena è stata prodotta da un ragionamento che coinvolge soggetti che fanno lavori molto precari, pensiamo ai lavoratori dello spettacolo, educatori e una serie di figure che si trovano costrette a lavorare con la partita IVA all’interno di strutture dove non c’è il rapporto di lavoro subordinato. Noi, inventando con questa terminologia simpatica il “reddito di quarantena”, abbiamo voluto dire che non possiamo accettare che ci siano lavoratori che hanno accesso ad ammortizzatori sociali e altri no. Certo, a volte gli ammortizzatori sociali sono utilizzati strumentalmente dai padroni per scaricare sull’INPS il pagamento di intere giornate di lavoro. Il fatto di costruire un percorso di soggettivazione di figure che non rientrano nel rapporto classico tra capitale e lavoro, tra datore di lavoro e lavoratore subordinato può essere un’occasione per tentare di mettere assieme questi due aspetti. Tant’è vero che il 30 aprile pensiamo che in forme intelligenti si possa fare qualcosa. In DHL qualche giorno fa sono arrivati i carabinieri e hanno minacciato i lavoratori che stavano protestando fuori dal magazzino con le loro mascherine e distanziati di denunciarli e multarli per assembramento. Questo accadrà sempre di più nel prossimo futuro. Vogliono costruire una gabbia: da una parte vai a lavorare spesso in assoluta mancanza di sicurezza, dall’altra non puoi protestare. Noi cerchiamo di porre freni e costruire percorsi di lotta che limitino questa palese contraddizione. Dobbiamo sfruttare il momento per pretendere una forma unica di garanzia di reddito sul lavoro, tanto per chi ha rapporti di lavoro classicamente subordinati quanto per chi non li ha. Questo quindi è un modo per coniugare due aspetti del mondo del lavoro che sono sempre stati molto separati. Il punto è riuscire a ricomporre vari soggetti del lavoro attorno a dei punti fondamentali, perché è vero che nulla sarà più come prima, ma dovrà esserlo dal punto di vista della necessità di costruire dei momenti di lotta che ci portino a far cambiare completamente registro su questo tipo di problematiche. Questo è un virus, ma magari ne arriveranno altri, è un problema sistemico ed ecologico.
Da anni vediamo che nei magazzini della logistica vengono chiamati sempre più frequentemente migranti che sono dentro al circuito dell’accoglienza per essere messi a lavoro con contratti a chiamata e spesso in sostituzione di altri migranti, in occasioni di scioperi o di picchi di lavoro. Questa cosa è incrementata durante l’emergenza Coronavirus, per il bisogno di sostituire chi tramite ferie o altro sono riusciti a stare a casa. Come si può secondo te far fronte a questa situazione che impatta tanto il lavoro quanto il problema del permesso di soggiorno? Ora si parla molto di sanatoria, però una volta regolarizzati i migranti sono consegnati alla Bossi-Fini e al legame tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno…
Non è un meccanismo nuovo: cosa c’è di meglio di andare a pescare dove ci sono persone senza diritti? È chiaro che in passato come oggi c’è questo problema. Addirittura, abbiamo visto che durante scioperi pesanti i padroni aprivano capannoni da un’altra parte e andavano direttamente nei centri di accoglienza a prendere i migranti per portarli a lavorare. È sempre il solito gioco sporco. È chiaro che il problema è la Bossi-Fini, ma in un momento come questo la condizione minima e indispensabile per la lotta è che ci sia la regolarizzazione dei migranti attualmente in Italia per garantire che possano avere diritto di esistere come persone perché così sono invisibili. Invisibili però assolutamente utili dal punto di vista capitalistico per garantire quasi una forma di accumulazione originaria nel senso che tu paghi le persone 3-4 euro all’ora e hai dei margini di profitto che sono enormi andando a sfruttare manodopera priva di documenti. Quindi oggi la sanatoria è importante come presupposto per continuare le battaglie. Dopo sappiamo bene che sganciare il permesso di soggiorno dal lavoro rimane una battaglia storica che abbiamo tutti rivendicato e che rimane giusta da rivendicare.
Questa crisi mette in luce il fatto che c’è un’interconnessione globale che è resa più palpabile che mai. In vari magazzini di Amazon in Europa e negli Stati Uniti ci sono scioperi e proteste sulla situazione che si è venuta a creare con il COVID-19 che hanno preso forza da un percorso precedente di comunicazione tra i magazzini di diversi paesi. Cosa pensi di questa comunicazione transnazionale e credi che diventerà più importante in futuro?
Oggi l’elemento del coronavirus ha fatto diventare il globo molto più piccolo, tutti quanti siamo stati coinvolti e travolti da questa tragedia immane e quindi è chiaro che si porrà sempre di più il problema di come costruire organizzazione a livello transnazionale. Chiaro che dal dire al fare c’è di mezzo il mare. Oggi ci muoviamo con grandissima difficoltà, la cosa importante attraverso questa battaglia sul reddito di quarantena è che si stanno creando delle basi perché in altre regioni si possano costruire percorsi di soggettivazione. Bisogna capire come costruire dei percorsi di lotta e di organizzazione e fare i conti sempre con il dato materiale. La domanda è: chi lo fa? Stiamo vedendo situazioni che si sono avvicinate per questa questione del reddito di quarantena. Ad esempio, abbiamo aperto una nuova sezione di ADL a Milano, così come si sta aprendo in Piemonte, nelle Marche e in altre realtà. Bisogna capire cosa vuol dire oggi costruire forme di soggettivazione a livello di organizzazione sindacale, anche se di un sindacato particolare, che si rapporta poi con le lotte che esistono e con le forme di soggettività presenti nei territori. Lotte che riguardano la questione ambientale, di genere, dei migranti. Su questo penso che, per tutti coloro che si riconoscono in un certo universo politico, c’è la necessità di fare uno sforzo per capire come interagire, come costruire un’azione comune, ognuno nelle proprie specificità: chi fa ricerca, chi cerca di costruire percorsi sindacali, chi si pone il problema della comunicazione… Il coronavirus ci interroga su questo: come mettere da parte le appartenenze troppo marcate, la propria parrocchia… Siamo tutti limitati, tutti parziali, non c’è nessuno che possa esprimere la complessità di quello che abbiamo di fronte. Solo se abbiamo l’umiltà di vedere i limiti possiamo cercare di trovare il modo di intersecare i nostri percorsi. Questo penso che sia il messaggio che dobbiamo cercare di lanciare a partire da questa esperienza terribile. Questo è un elemento di riflessione per tutti quanti, che ci deve indicare una nuova strada.
A proposito dell’intreccio tra soggetti differenti, la piattaforma TSS sta discutendo di come affrontare la situazione che si è creata con il COVID-19 a livello transnazionale a partire dalle lotte di cui siamo parte. È sufficiente che ciascuno chieda al suo governo un insieme di cose per costruire una forza comune? Oppure è il caso di pensare a rivendicazioni condivise che diano forza anche alle lotte locali? In Amazon la comunicazione transnazionale stabilita in questi anni ha permesso di avanzare pretese e richieste comuni nei magazzini di diversi paesi. Se no sembra che le connessioni transnazionali siano sempre qualcosa che si può rimandare.
Io penso che tutto debba nascere dai conflitti. I gilet gialli non hanno aspettato che venisse fuori un movimento transnazionale, ma là è scattato un meccanismo di rivolta e di ribellione costante, così come in altri contesti. Il problema è sempre quali sono i percorsi di soggettivazione, di costruzione di lotte. Un ragionamento a livello transnazionale non consente di avere un percorso di lotta qua. Io ribalto la cosa. In tutti questi anni se non avessimo agito le contraddizioni a livello di magazzino non avremmo costruito quello che abbiamo costruito. I passi vanno fatti sulla base della lunghezza della gamba che hai. Mi rapporto sempre con estrema umiltà sapendo che non siamo niente rispetto alle problematiche del mondo. Noi partiamo da questo presupposto qui, sono le lotte per prime che devono parlare. Anche in termini di capacità di produrre solidarietà e mutualismo. Questo è un altro tema fondamentale oggi: la capacità di costruire relazioni di fronte alle crisi, di creare dei tessuti di interrelazione che partono da dove è possibile lottare, da dove è possibile strappare qualcosa.
È vero che solo le lotte parlano, ma cosa dicono non è già dato, il ragionamento che si fa al loro interno e il tipo di rivendicazioni che si costruiscono è in gioco. Fa la differenza se si pensa che non si possa andare al di là del territorio nelle richieste che si avanzano.
Certo, pensiamo ad esempio che in Polonia prendono 3 o 4 euro l’ora e qui ne prendono 9 o 10. È chiaro che ha senso porre una rivendicazione di carattere europeo, un salario minimo europeo, perché i salari siano uguali. Questo deve essere un percorso di lotta. È fondamentale enunciare qual è oggi lo spazio minimo di movimentazione dei conflitti, poi devi costruire le condizioni di possibilità, cosa che passa anche dal porre il problema a livello nazionale. Anche qui abbiamo dei salari in contratti firmati da CGIL CISL e UIL a 4-5 euro all’ora, nei servizi fiduciari o di altro tipo. Parto dall’Italia perché non siamo riusciti ancora a ottenere un minimo di 9 euro all’ora. Devo fare questo e contemporaneamente pormi il problema delle relazioni che si riescono a costruire a livello europeo perché venga posta la questione a quel livello. Oggi in Italia se c’è il problema di centinaia di migliaia di migranti che hanno perso il permesso o non l’hanno mai avuto, allora mi pongo il problema di come fare una sanatoria che mi garantisca il diritto minimo all’esistenza. E sono d’accordo che alcune rivendicazioni di tipo strategico siano necessarie, che ci sia un piano di ragionamento politico che non si traduce immediatamente in una conquista di quella roba là eppure indicarlo è fondamentale. Indicare degli obiettivi e delle parole d’ordine a livello europeo è fondamentale, poi ci vuole la capacità di costruire i percorsi materiali di lotta che vanno messi in atto. Non c’è contraddizione tra la necessità di indicare degli obiettivi a livello transnazionale e la capacità di costruire i percorsi concreti a livello nazionale e non è semplice.