di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM
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Il compito che ci aspetta
La pandemia in corso ha portato alla luce l’interconnessione e l’interdipendenza che caratterizzano lo spazio globale: il virus, così come le sue conseguenze economiche e sociali, non si ferma davanti ai confini. Sotto molti aspetti questa crisi dimostra che è impossibile considerare gli Stati e le città come autosufficienti o isolati. Allo stesso tempo, con la pandemia lo spazio transnazionale emerge come spazio della protesta e degli scioperi contro le pretese dei padroni di anteporre il profitto alla vita. Coloro che sono in prima linea nel contenimento del virus – infermiere, personale medico, operatori sanitari, addette alle pulizie – così come le lavoratrici e i lavoratori della logistica e delle fabbriche sono uniti dal rifiuto di sacrificare la loro vita – e la salute pubblica – sull’altare dei bisogni del capitale. Ora che la minaccia di contagio sembra diminuire in diversi Paesi, si sta aprendo uno scontro sulle modalità del ritorno alla normalità. Pensiamo che sia necessario interrogarsi sulle condizioni che ci saranno imposte alla ripresa della produzione e delle relazioni sociali in generale. In questa nuova “normalità” che ci attende, la comunicazione transnazionale è la posta in gioco. Possiamo uscire dalla crisi ancora più frammentati e divisi di quando ci siamo entrati, oppure possiamo cogliere la sfida di costruire strategie comuni che riconoscano la centralità di questa dimensione transnazionale. Quello di cui abbiamo bisogno non è sognare a occhi aperti su futuri possibili, ma rafforzare la nostra capacità di contrastare il potere del capitale a partire dalle molteplici forme di resistenza e di lotta che si sono susseguite negli ultimi mesi. La posta in gioca attuale è stabilire un’iniziativa transnazionale che intrecci queste lotte, avanzando su tre principali terreni politici: lo sciopero come arma; la libertà dei e delle migranti dal ricatto dei documenti; la rivolta delle donne.
Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo!
A partire dal Nord Italia, dove il contagio ha colpito duramente in Europa, fino agli Stati Uniti, che sono diventati rapidamente il centro globale della pandemia, dal Messico al Ghana, dall’India al Brasile i lavoratori hanno preso in mano il loro destino. Mentre politici e istituzioni si sono ben guardati dall’imporre un rigido blocco della produzione e i datori di lavoro hanno continuato a tenere aperte le fabbriche in maniera criminale, gli scioperi a gatto selvaggio, le manifestazioni e le proteste stanno ora costringendo i governi ad agire e le aziende ad accettare compromessi. Mentre alcuni sono costretti a continuare a lavorare perché non possono sopravvivere senza un salario, neanche per un breve periodo, altri non si presentano sul luogo di lavoro e, se possono, si avvalgono del congedo di malattia pagato o non pagato. In molti magazzini, i lavoratori hanno chiesto l’interruzione di tutte le consegne non essenziali e che la distribuzione si limitasse ai beni necessari. I lavoratori di Amazon, forti della comunicazione transnazionale tra i magazzini costruita in questi anni, hanno protestato e scioperato in Europa e negli Stati Uniti con dichiarazioni e rivendicazioni comuni e in Francia hanno persino costretto la multinazionale a limitare le consegne ai prodotti strettamente necessari. Le operatrici e gli operatori sanitari di tutti i continenti stanno protestando contro la penuria di dispositivi di protezione e contro i datori di lavoro che hanno fretta di riprendere la produzione. Con queste rivendicazioni si stanno di fatto opponendo alle pretese dei governi che li vorrebbero costringere a lavorare in qualsiasi condizione e a qualunque costo, in nome della loro presunta vocazione a prendersi cura degli altri. Dopo lo sforzo per arginare la pandemia, le infermiere stanno contestando una riapertura delle fabbriche che rischia di riattivare il contagio.
Queste proteste hanno un tratto in comune: rifiutando i rischi che derivano dall’andare a lavorare in condizioni di insicurezza, i lavoratori stanno contestando un’organizzazione politica che pone il profitto davanti alle loro vite e che ha finito per mettere a repentaglio quella di ognuno. I lavoratori non vogliono essere martiri o eroi nazionali e il loro sciopero mette in discussione la forma stessa di una riproduzione sociale che non tiene conto del benessere collettivo. Si stanno fronteggiando, l’una contro l’altra, due idee molto diverse di ciò che è realmente essenziale: da un lato la centralità della vita e della salute, dall’altro la logistica dello sfruttamento, che cerca di continuare il proprio businness as usual a qualsiasi costo. La crisi sta mettendo in chiaro che ciò che è sicuro per i lavoratori non lo è per il capitale. In questo scontro, gli Stati faticano a mediare tra priorità opposte: rispondere alla crisi sanitaria, soddisfare le esigenze delle imprese ed evitare l’esplosione del malcontento sociale, concedendo forme insufficienti di previdenza sociale e di sostegno al reddito. Mentre le attività definite come non essenziali sono state solo parzialmente sospese, in Francia, Germania, Polonia e altrove sono state approvate nuove normative sul lavoro per le attività definite essenziali, che permettono di estendere la giornata lavorativa a 12 ore e di ridurre i periodi di riposo. Contemporaneamente, il diritto di riunione e di sciopero sono stati limitati ovunque. Queste misure sono temporanee, ma potrebbero anticipare ciò che ci aspetta anche una volta superata l’attuale crisi.
Quando le limitazioni del diritto di sciopero diventano una condanna a lavorare sotto la minaccia del contagio, quando la precarizzazione del lavoro mette a repentaglio la vita e la salute, lo scontro riguarda i pilastri stessi della “normalità” in cui eravamo abituati a vivere. Una “normalità” che è stata alimentata dalle disuguaglianze e dallo sfruttamento e che ha posto le basi per la catastrofe in corso nel settore sanitario e sociale nei paesi di tutto il mondo. Le lotte dei lavoratori contro i padroni dimostrano che la posta in gioco non sono solo i protocolli da seguire sui singoli luoghi di lavoro, né soltanto le nuove strategie nazionali in materia di assistenza sanitaria e sicurezza sociale. Nulla può metterci al sicuro, se non un’iniziativa transnazionale che minacci la sicurezza del capitale, trasformando gli scioperi e le lotte in corso in un movimento collettivo per conquistare potere e spingere verso un miglioramento complessivo delle condizioni di vita e di lavoro.
Per una mobilità libera dal lavoro
La carenza di centinaia di migliaia di lavoratori stagionali migranti sta mettendo in crisi il rifornimento alimentare della maggior parte dei paesi europei e dei paesi terzi che dipendono dai prodotti europei. Fino a due mesi fa i politici razzisti accusavano i migranti di venire in Europa per “rubare” posti di lavoro e vivere illegittimamente del welfare altrui. Ora viene a galla un’altra verità. Il lavoro nei settori essenziali – il lavoro domestico e di assistenza e cura alla persona, il settore delle sanificazioni, l’assistenza sanitaria e infermieristica, la logistica e l’agricoltura – è svolto principalmente da lavoratori e lavoratrici migranti, comunitari ed extracomunitari. Nel Regno Unito, il virus ha materializzato la Brexit prima dell’applicazione della legge sull’immigrazione che era stata promessa e che prevede una rigida limitazione dei migranti in arrivo. Molti paesi europei, tra cui il Regno Unito, lamentano la scarsità di lavoratori migranti, per lo più donne, nelle abitazioni private, negli ospedali e nelle case di riposo, e stanno applicando misure speciali per aggirare le restrizioni alla libertà di movimento. Si stanno organizzando voli charter per portare forza lavoro “a basso costo” da uno Stato all’altro (in UE principalmente da est a ovest, dai paesi in difficoltà economica a quelli più ricchi). La stessa UE sta valutando la creazione di “corridoi” per permettere lo spostamento dei migranti interni attraverso le frontiere, ma esclusivamente per lavorare nel settore agricolo, mentre alcuni governi stanno cercando di costringere chi ha perso il lavoro a fare domanda per posizioni che in precedenza erano occupate da lavoratori migranti stagionali. In risposta alla carenza di manodopera e alla crescente disoccupazione, sono state previste nuove piattaforme online per far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro nel settore agricolo e della cura, mentre in molti casi i braccianti migranti continuano a lavorare in condizioni di schiavitù. I governi stanno proponendo apertamente di mettere a lavoro rifugiati e richiedenti asilo per coprire i posti vacanti. Nel settore logistico e industriale, però, i lavoratori migranti – di solito rifugiati e richiedenti asilo che vivono in centri di accoglienza sovraffollati e insalubri, esposti alla diffusione del coronavirus – stanno già sostituendo quei lavoratori che si sono ammalati o che si rifiutano di lavorare. Inoltre, gli stessi governi che cercano di contrastare la carenza di manodopera migrante non sono però disposti a fornire a quei migranti il sostegno al reddito riservato ai cittadini.
La centralità del lavoro migrante in tutte le sue forme non può più essere nascosta, ma non pensiamo che il riconoscimento di questa centralità comporti di per sé un vantaggio per i migranti. Al contrario, in questa situazione la stretta connessione tra permesso di soggiorno e lavoro sta stringendo la morsa della logistica dello sfruttamento sui migranti. La violenza senza fine lungo i confini dell’UE, dove i migranti vengono respinti o lasciati morire in mare, dimostra come la necessità di lavoro migrante non significherà che i loro movimenti verranno autorizzati e neppure che diventeranno meno pericolosi. Piuttosto, l’emergenza sanitaria viene utilizzata per giustificare politiche ancora più selettive. Non pensiamo che questa situazione possa essere risolta con misure umanitarie. Finché il permesso di soggiorno rimarrà legato a questo o quel lavoro considerato essenziale, i migranti continueranno ad essere esposti a viaggi pericolosi e a vivere costantemente in balia delle fluttuazioni del mercato del lavoro e delle mutevoli esigenze del capitale. In questa situazione vediamo che mentre emergono proposte di regolarizzazione temporanea, slogan razzisti che minacciano di rimandare i migranti indietro da dove sono venuti, e che attaccano la libertà di movimento, convivono e rafforzano un altro mantra: portiamo i migranti solo dove ce n’è bisogno e solo per il tempo necessario di cui c’è bisogno. Questa visione, discussa per anni dall’UE e dai suoi Stati membri e testata con accordi bilaterali con i Paesi extra UE, viene rinvigorita dalla crisi attuale. Quella che sta emergendo davanti ai nostri occhi è quindi l’immagine di uno spazio transnazionale in cui il lavoro può essere spostato e gestito secondo le esigenze del capitale e la possibilità di muoversi indipendentemente da tali esigenze non è nemmeno presa in considerazione. Il quadro che si sta delineando è legato alle condizioni generali in cui la crisi sarà gestita non solo per i migranti, ma per tutti coloro che hanno perso il lavoro o devono lottare contro i tagli ai salari e l’inasprimento delle condizioni lavorative e sociali. In questa situazione, rivendichiamo la libertà di movimento e la fine delle leggi nazionali e sovranazionali sull’immigrazione che separano i migranti per farne una forza lavoro usa e getta e sempre più ricattabile. Dobbiamo rompere la gabbia nazionale ed esigere un permesso di soggiorno europeo slegato dal salario e dal lavoro, per collegare qualsiasi momento di iniziativa e di resistenza in Europa o ai suoi confini in una lotta comune contro le catene globali dello sfruttamento.
La rivolta delle donne nella crisi della riproduzione sociale
Molte donne sono costrette a rimanere a casa, con carichi di lavoro intensificati a causa della necessità di svolgere contemporaneamente sia il lavoro produttivo che riproduttivo, a volte sotto la minaccia della violenza domestica in aumento, mentre molte altre lavorano ancora fuori casa. Poiché sulle loro spalle è scaricata la maggior parte delle responsabilità relative alla riproduzione sociale, le donne sono in prima linea nella gestione dell’emergenza, considerando il lavoro che svolgono negli ospedali e nelle case di cura, come infermiere, dottoresse e operatrici sanitarie, e negli uffici, nei magazzini e nelle fabbriche, soprattutto come addette alle pulizie e alla logistica. Scioperando e protestando contro la carenza di personale e la mancanza di protezioni, infermiere e dottoresse denunciano l’assurdità dello smantellamento di qualsiasi forma di welfare, che ora mette in pericolo la loro stessa vita. Mentre l’assistenza sanitaria torna a essere una questione politica cruciale, spesso grazie alle precedenti lotte contro i tagli nei settori del welfare e della sanità, assistiamo agli appelli per potenziare i servizi sanitari nazionali e per mettere la salute al di sopra dei profitti.
È necessario affermare chiaramente che non può esserci una soluzione nazionale alla crisi attuale dal punto di vista dei lavoratori, dei migranti e delle donne. Come possiamo accettare che un qualsivoglia miglioramento dei sistemi sanitari all’interno di uno Stato possa essere realizzato facendo concorrenza ad altri Paesi per maschere, tamponi, ventilatori e, in un prossimo futuro, vaccini? E come possiamo accettare un miglioramento del welfare nazionale al costo di considerare i migranti come forza lavoro usa e getta e le donne come naturalmente predisposte al lavoro di cura? Lo sciopero globale delle donne degli ultimi anni ci ha insegnato che gli imperativi della cura possono essere una trappola per tutte quelle donne che la società vede come “naturalmente” destinate ad essere solo madri e/o responsabili del lavoro di cura. Una trappola che i governi stanno cercando di rafforzare: approfittando dell’isolamento che avrebbe dovuto impedire qualsiasi forma di protesta di massa, il governo polacco ha affrettato la discussione parlamentare sulla legge che limita ulteriormente la possibilità di abortire, la stessa legge che fu sospesa grazie all’imponente sciopero delle donne in nero, due anni fa. Malgrado le belle speranze del governo, le donne si sono riprese le strade, facendo la fila davanti ai negozi vestite di nero e indossando con le mascherine con il fulmine, e hanno agitato la parola d’ordine dello sciopero che, anche quando non è materialmente realizzabile, resta un messaggio potente.
Qualsiasi richiesta di maggiori investimenti nel settore della sanità pubblica deve oggi combinarsi con l’obiettivo di approfondire il rifiuto transnazionale del lavoro di cura a qualsiasi prezzo. La convergenza tra patriarcato e capitalismo, soprattutto nelle sue forme neoliberali più recenti, ha chiamato le donne a colmare le lacune del welfare, aggravando la pressione sia produttiva, sia riproduttiva, che grava su di loro. Le molteplici e importanti esperienze di solidarietà e di auto-organizzazione che sono emerse per fronteggiare l’emergenza attuale non possono correre il rischio di essere nuovamente utilizzate soltanto al fine di colmare quelle lacune. Le donne lo gridano a gran voce: non torneremo alle nostre case e al lavoro di cura come destino naturale! Non subiremo la violenza maschile in silenzio! Non accettiamo di rimanere isolate! Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema!
La nostra risposta transnazionale
A differenza della crisi del 2008, molti governi stanno ora salvando le persone e non solo i capitali e le aziende, anche se le risorse finanziarie per la popolazione sono spesso insufficienti e sproporzionate rispetto a quelle destinate ai grandi capitali. Ciò non significa che gli Stati e il capitale non abbiano deciso chi pagherà il prezzo più alto della crisi, o che siano disposti a rinunciare al ricatto del lavoro salariato – anche il sostegno al reddito si configura sempre più chiaramente come strumento funzionale allo sfruttamento presente e futuro. È quindi molto improbabile che la fase di ricostruzione produrrà un’apertura verso politiche più redistributive. Anche in UE, la maggiore integrazione fiscale che alcuni prospettano (che potrebbe portare a decisioni comuni sulla destinazione e l’ammontare dei fondi per le pensioni, la spesa pubblica e le politiche del lavoro) non significa che l’Europa dell’austerità stia diventando più progressista, o che sia disposta a soddisfare richieste redistributive.
In questo scenario, non possiamo limitarci a chiedere a ogni singolo Stato la stessa cosa contemporaneamente. Il punto è se riusciremo a mantenere aperta la tensione che sta attraversando le catene globali dello sfruttamento e se riusciremo a rafforzare la comunicazione tra le lotte, senza rinchiuderci nel nostro quartiere o stato, anche se in nome della cura reciproca. Per costruire la forza di cui abbiamo bisogno, il nostro sforzo all’interno della crisi deve andare oltre. Uno sciopero transnazionale contro salari miseri e condizioni di lavoro insicure, per una libertà di movimento incondizionata per tutti i/le migranti, per la libertà delle donne contro la violenza e contro la cura come destino, è la nostra possibilità contro la pandemia e lo sfruttamento.