di FELICE MOMETTI
«Certo che voto Bernie alle primarie ed anche alle elezioni di novembre se ottiene la nomination. Poi, se dovesse diventare Presidente, per i prossimi 20 anni non ci sarà più una sinistra credibile negli Stati Uniti». Questa era la previsione, a mezza strada tra il paradossale e il provocatorio, fatta all’inizio di febbraio da un attivista storico della sinistra radicale newyorkese. Come a dire che, se fosse stato eletto, gli apparati dello Stato e il Senato avrebbero ostacolato e velocemente neutralizzato il programma di Sanders, perché non c’erano nemmeno le condizioni e la spinta sociale delle primarie del 2016 e il contraccolpo sarebbe stato molto duro. Bernie Sanders non sarà il prossimo Presidente e nemmeno il candidato democratico alla presidenza. La sua corsa di fatto è terminata nei primi giorni di marzo quando, dopo un primo momento di sbandamento nelle primarie del Iowa, del New Hampshire e del Nevada, l’intero establishment democratico si è ricompattato dietro Joe Biden. Prima convincendo al ritiro sia Pete Buttigieg che Amy Klobuchar e poi, dopo la vittoria di Biden in molti Stati nel Super martedì del 3 marzo, azzerando le aspirazioni di Elizabeth Warren e Michael Bloomberg. Nella complessa governance di quell’assemblaggio di interessi politici, economici, finanziari e strategici che passa sotto il nome di establishment democratico ‒ che mette insieme deputati, senatori, governatori, sindaci di grandi città, leader delle storiche associazioni di afroamericani e latini, gruppi dirigenti dei grandi sindacati, media mainstream, multinazionali, società finanziarie, settori decisivi del Pentagono e dell’ FBI ‒ si è trovato un punto di convergenza nella valutazione che solo Biden fosse in grado di battere Trump senza alterare equilibri e rapporti di forza interni allo stesso establishment. Un’operazione che ha visto anche l’intervento diretto di Barack Obama, che rimane tuttora il politico più influente nel campo democratico, per rimarcare implicitamente che non può e non deve esserci vita politica al di fuori dei due maggiori partiti. Bernie Sanders e il suo staff ristretto hanno pensato di rigiocare la partita delle primarie collocandosi di nuovo sul bordo tra il dentro e il fuori del Partito democratico pensando di guadagnare consensi su entrambi i fronti.
Un inizio anonimo
Nella primavera del 2015 il senatore Bernie Sanders, in perfetta solitudine, decide di presentarsi alle primarie democratiche dell’anno successivo. Sembra una delle tante figure secondarie, in cerca di visibilità politica, che da sempre popolano le prime fasi delle primarie democratiche. La sua storia politica è segnata dalla perenne oscillazione tra i riferimenti alla stagione delle battaglie sui diritti civili e il realismo politico prima come sindaco di Burlington e successivamente come deputato e senatore. Il modello a cui guarda è sempre stato la socialdemocrazia in salsa scandinava. Quindi non è tanto la sua figura politica o il suo programma sociale che di per sé potevano fare la differenza, ma come questi due elementi potevano essere percepiti e reinterpretati in una particolare congiuntura politica e sociale. Alla fine del 2015 le speranze in un secondo mandato più decisamente riformista di Obama sono definitivamente svanite in una quota significativa di elettorato democratico. E la candidatura di Hillary Clinton era in continuità con il periodo precedente. La fine del movimento Occupy aveva lasciato un vuoto politico che non si sapeva come colmare. Un paio di mesi dopo la rivolta di Ferguson, nelle giornate di incontri e mobilitazione di Ferguson October, Black Lives Matter ha provato a fare il salto qualitativo da sommatoria di collettivi, associazioni e singoli attivisti a soggetto sociale in grado di attivare processi di politicizzazione. L’esito contraddittorio si tramuterà in uno stallo della mobilitazione e successivamente in uno sfilacciamento localistico che avrà anche delle ripercussioni in uno strato giovanile bianco che aveva sostenuto le lotte contro il razzismo istituzionale e della polizia. Le lotte per un salario minimo di 15 dollari l’ora, nate al di fuori delle organizzazioni sindacali, si erano estese senza però ottenere ancora dei risultati concreti se non vaghi impegni da parte degli amministratori di alcuni stati e grandi città. L’esplosione del debito studentesco stava condizionando la vita di alcuni milioni di studenti universitari, anche dopo la laurea, con le ingiunzioni di pagamento di cifre spesso superiori ai 100 mila dollari.
Bernie oltre Sanders
La partecipazione alla prime iniziative pubbliche di Sanders, nel dicembre del 2015, sorprende lo stesso senatore del Vermont tanto da indurlo ad aggiornare progressivamente il proprio programma elettorale. Istanze e rivendicazioni che man mano vengono aggiunte anche a causa di alcune contestazioni dei suoi comizi ad opera di gruppi locali di Black Lives Matter. Gli viene imputata una sottovalutazione della questione razziale. La campagna di Bernie Sanders, al di là delle sue intenzioni e dei suoi progetti iniziali, diventa il contenitore e l’amplificatore di innumerevoli voci critiche, di comportamenti sociali non allineati, di lotte che non accettano un quadro di compatibilità immutabile. Il candidato Bernie va oltre se stesso, nonostante il senatore Sanders. Un’ironica contraddizione in termini, allora proposta in alcune analisi, che però rende l’idea della condensazione di differenti temporalità sociali, di varie aspettative politiche in una campagna elettorale iniziata con altri obiettivi. Ma il dato più importante è il coinvolgimento di alcune decine di migliaia di attivisti, soprattutto giovani, che nella maggioranza dei casi si autorganizzano per fare la campagna elettorale e al tempo stesso aprono uno spazio sociale che può tramutarsi in conflitto politico. Un movimento nato sul terreno elettorale che nel giro di qualche settimana si politicizza. Hillary Clinton vince le primarie anche con qualche scorrettezza di troppo e Sanders rientra nei ranghi sostenendone la candidatura alla Convention nazionale del Partito democratico, pur con una serie di contestazioni da parte di settori dei suoi sostenitori. Come non disperdere un patrimonio politico accumulato durante le primarie? La risposta di Sanders è decisamente al di sotto delle necessità. Insiste molto sul presunto definitivo sdoganamento di termini come «rivoluzione politica» e «socialismo» nella politica americana e per niente su un reale percorso di soggettivazione politica e organizzativa. Il Partito democratico permane l’orizzonte non oltrepassabile. La costituzione dell’associazione Our Revolution alla fine dell’agosto 2016 chiarisce i reali obiettivi di Sanders: trasformare il Partito democratico mediante una lotta interna fatta di conquiste elettorali progressive a ogni livello: «dal consiglio scolastico di quartiere alla Camera dei rappresentanti». Our Revolution non decolla e diviene nei fatti il comitato elettorale di Sanders in vista delle successive primarie.
Alla ricerca dell’organizzazione
Alcune decine di migliaia di attivisti, per continuare il loro percorso, si riversano in un contenitore politico già esistente e in profonda crisi da diversi anni, i Democratic Socialists of America (DSA), trasformandolo completamente e suscitando molte aspettative vista anche la necessità di una lotta più radicale ed efficace contro Trump alla Casa Bianca. La vicenda dei DSA in questi tre anni è segnata più dalla difficile coabitazione delle varie sensibilità politiche che non dalla capacità di produrre conflitto sociale. La Convention nazionale dei DSA dell’agosto dello scorso anno, in gran parte bloccata più sulle procedure che non sul dibattito politico, ha sancito la linea politica sostenuta dalla corrente Bread and Roses che fa capo alla rivista Jacobin. Un sostegno acritico alla candidatura di Bernie Sanders alle primarie (nell’ultimo anno la rivista Jacobin ha pubblicato 340 articoli su Sanders o che all’interno parlano di Sanders), la lotta di classe attraverso le elezioni e il Dirty Break. Quest’ultimo si può tradurre come la «rottura sporca» da compiere nei confronti del Partito democratico dopo aver usato i suoi canali per presentarsi nelle varie scadenze elettorali a ogni livello. Tra i partecipanti sono emerse alcune linee di frattura soprattutto sull’opportunità di legare il proprio futuro politico a una scadenza elettorale seppur importante come l’elezione del Presidente degli Stati Uniti e sulla diversa valutazione della capacità reattiva dell’establishment del Partito democratico che non avrebbe aspettato in modo passivo il Dirty Break. Come del resto ha lasciato molti dubbi il ragionamento, a dir poco determinista, del sostegno dato alla campagna di Sanders come maggiore opportunità per passare da una mobilitazione elettorale a una diffusa coscienza di classe veicolata da una «rivoluzione politica» già iniziata. Forzando un po’ le parole del Moro di Treviri, politicamente si è affermata una classica inversione del soggetto con il predicato.
Le primarie non si ripetono
Si sa che la storia non si ripete mai allo stesso modo e nemmeno le primarie del partito democratico. Anche solo per il semplice motivo che gli avversari in campo hanno accumulato l’esperienza del passato. Bernie Sanders nelle primarie di questi mesi ha riproposto lo stesso copione delle primarie del 2016, ma senza un potenziale movimento sociale che lo avrebbe potuto sostenere. La scelta di ricandidarsi, presa ancora una volta in perfetta solitudine, senza un confronto con i vari soggetti sociali e politici già schierati al suo fianco ha accentuato una concezione «sindacale» del programma come sommatoria di tre grandi rivendicazioni: l’accesso per tutti a un sistema sanitario pubblico, un Green New Deal inteso come una riconversione ecologica del sistema produttivo e l’azzeramento del debito studentesco. Rivendicazioni che hanno incontrato e incontrano certo il favore di consistenti settori della società americana, ma da parte di Sanders sono spesso tanto evocate nei comizi quanto poco articolate nei contenuti, nei tempi e nei modi. Si percepisce un’usura nelle modalità comunicative e più la ricerca della delega che non lo stimolo all’autorganizzazione. Il pareggio con Buttigieg in Iowa e le vittorie in New Hampshire e in Nevada alimentano oltremisura le illusioni. In molti articoli pubblicati su Jacobin si dà per certa la nomination e ci si sbizzarrisce sul programma da attuare una volta che Sanders siederà nello studio ovale.
L’ultima stazione
I risultati del Super martedì, in cui Biden fa terra bruciata, riportano quasi tutti alla realtà. Per Sanders si tratta solo di pensare una exit strategy con meno danni possibili. Rimane in gara ancora un mese e lo scoppio della pandemia negli Usa viene usato come evento drammatico che richiede responsabilità. Va per gradi. L’8 aprile sospende la campagna elettorale, lasciando campo libero a Biden, non ritirando però il suo nome dalle schede elettorali. Ammette la sconfitta elettorale ma rivendica una vittoria ideologica: la «rivoluzione politica» ormai non può tornare indietro. E cinque giorni dopo in una conferenza stampa congiunta annuncia il sostegno a Biden mettendogli a disposizione il proprio database dei contatti e dei volontari nonché una quota dei finanziamenti raccolti. In cambio presenta come importante risultato la formazione di alcune commissioni, tra i due staff elettorali, che affrontano alcuni punti qualificanti del programma di Sanders. Paradossalmente, ma poi nemmeno tanto, l’ultima stazione della corsa di Bernie coincide con la stazione di partenza: il Partito democratico. L’uscita di scena di Sanders ha aperto un dibattito difficile, caricato anche da parecchio risentimento, per il venir meno della principale opzione strategica di una linea politica. Si tratta di vedere se quelli che lo hanno sostenuto riusciranno a chiudere velocemente il capitolo Sanders e a riflettere su come sta incidendo la pandemia sulla società americana, sulle decine di scioperi spontanei, sui milioni di disoccupati e quale risposta politica intrecciare con i cambiamenti in atto nella composizione di classe.