da «il Manifesto» del 5 aprile 2019
Nel 1973 usciva «Facce dell’Asia che cambia», una serie documentaristica firmata da Carlo Lizzani che coglieva e mostrava un continente le cui dinamiche sociali, i processi politici e la proiezione globale iniziavano ad imporsi anche all’attenzione di mondi geograficamente e culturalmente lontani.
Nel bel mezzo della pandemia di coronavirus con cui stiamo imparando a misurarci, a cambiare sembra invece il volto dell’occidente. In ordine sparso, lentamente e con palpabile indecisione, i Paesi occidentali si sono ritrovati a dover gestire quella che da più o meno tutti i capi di stato e di governo è stata definita come «la più grande crisi dopo la seconda guerra mondiale».
Ne usciremo diversi, si dice, e qualcosa in effetti pare essere già cambiata, più o meno esplicitamente, nella consapevolezza di sé del mondo occidentale: il nostro sguardo sull’Asia si è sostanzialmente modificato nel giro di qualche settimana e i nostri governi non hanno potuto far altro che guardare a oriente per trarre una qualche ispirazione per la gestione di questa inattesa, eppure preannunciatasi, crisi.
Poco di strano, si dirà, perché è lì che l’epidemia si è sviluppata prima ed è lì che si sono quindi realizzate le prime strategie per combatterla. Ma intanto che il virus superava i confini della Cina, a occidente non si elaborava alcuna strategia, né da parte dei singoli Paesi né tantomeno collettivamente. Una volta divenuta questione globale e quindi anche occidentale, ci siamo scoperti privi di qualsivoglia autosufficienza strategica per combattere la pandemia.
Ed è allora, nello sconquassamento dell’ordinario, nell’assenza di paradigmi corroborati, che i Paesi dell’Asia orientale sono diventati un punto di riferimento. Il blocco totale dei cinesi, il massiccio piano di test e tracciamento dei coreani, il modello di prevenzione messo in piedi a Taiwan: alla ricerca di una ricetta che funzionasse, la risposta a domande che mai ci siamo posti l’abbiamo cercata in Asia.
E guardando a oriente, a pandemia ancora in corso, tre dimensioni si sono imposte all’attenzione della visione strategica occidentale.
Anzitutto, il governo dello spazio: una volta che il contagio ha assunto dimensioni rilevanti, il distanziamento sociale si impone infatti come dispositivo necessario (ma non sufficiente) per mantenere la situazione sotto controllo.
Su questo piano la Cina è stata maestra: a ridosso del capodanno cinese – che fa muovere centinaia di milioni di persone attraverso tutto il Paese – e in un territorio cruciale dal punto di vista logistico (Wuhan è uno degli snodi ferroviari più importanti della Cina), l’imposizione del blocco totale ha permesso di contenere l’epidemia entro i confini dell’Hubei evitando che i contagi andassero fuori controllo nel resto del territorio.
Al 23 marzo, dei circa 81mila casi di coronavirus in Cina (inclusi Hong Kong e Taiwan), quasi 68mila si trovano in Hubei. Il secondo piano strategico è il tempo: se su questo fronte molte sono state le criticità dell’approccio cinese – con un numero rilevante di casi in circolazione già da dicembre e ormai acclarate operazioni censorie ai danni di quanti avevano iniziato a denunciare pubblicamente la questione, primo fra tutti il defunto dottor Li Wenliang – è alla Corea del Sud che si guarda per comprendere come quello che per giorni è stato il Paese più esposto dopo la Cina, è riuscito in poche settimane a ottenere il controllo della situazione.
In assenza di un vero e proprio lockdown, se non nella città di Daegu, epicentro dell’epidemia nel Paese, un piano esteso ma mirato di somministrazione dei tamponi (lo stesso che in Italia nessuno voleva fare perché «inutile» o «troppo dispendioso», e di cui ora si richiede l’applicazione a gran voce), tracciamento dei contatti e distanziamento sociale ha permesso, se non ancora una vittoria completa, la stabilizzazione dell’evoluzione del contagio all’interno del Paese.
Il terzo dato ha a che fare con la gestione sanitaria della pandemia. Laddove a occidente si è tradizionalmente guardato alla malattia come evento che investe la sfera individuale, la pandemia ha fatto sì che la sanità si affermasse finalmente come questione politica ben oltre la sua declinazione italiana (di «contagio» delle aziende sanitarie da parte delle classi politiche di ogni ordine e grado), ma in quanto processo strutturalmente collettivo e quindi necessariamente politico.
Anche in questo caso, la ricerca di una strategia politica per gestire la pandemia ci ha fatto volgere lo sguardo a oriente in cerca di un possibile riferimento.
Dove non era riuscita l’epidemia di Sars del 2003 – che era rimasta in gran parte confinata nel contesto asiatico – è arrivato invece il nuovo coronavirus, svelando le debolezze di un occidente spiazzato e impaurito che si rivolge a oriente in cerca di una possibile via di uscita dalla «crisi più grave dopo la seconda guerra mondiale».