di CINZIA ARRUZZA
da «Il Manifesto» del 25 marzo 2020
«Tutti sapevano come si chiamava, ma nessuno, da nessuna parte, sapeva il suo nome». È questa la citazione, tratta dalle pagine finali dello straordinario romanzo di Toni Morrison, Amatissima, che Paola Rudan pone a epigrafe del suo nuovo libro, Donna. Storia e critica di un concetto polemico (Il Mulino 2020). Nel romanzo di Morrison, Amatissima (Beloved) è l’unico appellativo che ci è dato conoscere della bambina che sua madre, Sethe, fuggita dalla schiavitù della piantagione, sceglie di uccidere pur di impedire che venga ridotta nuovamente in schiavitù. Il passo continua: «Dimenticata e inspiegata, non può essere perduta perché nessuno la cerca, e, anche se la cercassero, come potrebbero fare a chiamarla se non sanno il suo nome?»
Al pari di Amata, il concetto di donna elude il suo nome. Lungi dall’indicare una categoria ontologica, biologica o sociologica, per Paola Rudan «donna» è un concetto politico «che diventa tale nel momento in cui le donne hanno la pretesa di definire se stesse contro ogni manifestazione del dominio che le opprime». Il libro di Paola Rudan scava negli archivi del pensiero femminista moderno, a partire dalle veementi proteste di Christine Pizan, nel 1402, contro la misoginia del Roman de la Rose, fino ad arrivare al femminismo nero e postcoloniale, alla ricerca dei momenti di rottura e antagonismo in cui le donne si sono appropriate collettivamente del nome «donna» sottraendolo alle definizioni imposte dal dominio maschile. In questa investigazione, Rudan lascia da parte le controversie sul rapporto tra corpo sessuato e genere per concentrarsi sul modo in cui, storicamente, collettivi di donne e teoriche femministe hanno denaturalizzato la differenza sessuale per mostrarne la sua produzione politica e sociale, impedendo in questo modo la costituzione della politica moderna come unità. Nella misura in cui, come hanno mostrato Susan Moller Okin e Carole Pateman, la riduzione delle donne a essere sessuati e la loro soggezione in quanto tali sono il presupposto latente della costituzione dell’individuo sovrano e quindi dello Stato e della cittadinanza, la ri-politicizzazione del concetto di donna apre la possibilità di una contestazione radicale dell’ordine politico e sociale e dei rapporti di potere complessivi. Ciò che interessa Rudan, infatti, è il processo attraverso il quale una condizione e una posizione sociale divengono il «margine», per usare le parole di bell hooks, la cui politicizzazione permette di portare alla luce e contestare non solo i vari assi di oppressione, ma la loro connessione sistematica.
Da questo punto di vista, «donna» non è un universale, ma un «singolare collettivo», concetto che Rudan prende a prestito, modificandolo in modo originale, da Reinhart Koselleck: «La politicizzazione del concetto di donna non ha però l’effetto di produrre l’unità di molteplici esperienze come fanno, secondo Koselleck, gli altri singolari collettivi». Questa unità è resa impossibile dal continuo fratturarsi interno al concetto di donna, a seguito della presa di parola di una molteplicità di esperienze di donne collocate in posizioni sociali differenti. E, tuttavia, pur con le sue fratture interne, quello di donna rimane il nome di un antagonismo e di un fronte polemico nei confronti dell’ordine sociale e politico.
Rudan si concentra su alcuni momenti chiave di questi processi di politicizzazione, de-naturalizzazione e messa in tensione. Il 1789 è la data che segna il momento decisivo di trasformazione del concetto di donna, che, a partire dalle lotte collettive delle rivoluzionarie francesi, si carica di un contenuto polemico e di un’aspirazione radicale di democrazia e libertà. Nella carrellata di protagoniste, i cui scritti sono esaminati accuratamente e discussi criticamente da Rudan, incontriamo Mary Wollstonecraft, l’abolizionista americana Sarah Grimké, la donna nera della Julia Cooper di A Voice from the South, il femminismo anarchico e operaio di Emma Goldman, il femminismo radicale di Redstockings e Rivolta femminista, e infine il femminismo nero di bell hooks, quello trasnazionale di Chandra Mohanty e quello postcoloniale di Gayatri Chakravorty Spivak.
In quest’analisi, Rudan mette in luce impasse e difficoltà di questi vari momenti di politicizzazione. Il femminismo radicale, ad esempio, soprattutto nella versione offertane da Carla Lonzi, finisce per dare centralità alla sessualità come asse privilegiato della rivolta femminista e in questo modo per dare nuova forza normativa all’appello alla natura, identificata in questo caso con una parte anatomica, la clitoride. È, invece, soprattutto nel femminismo nero, transnazionale e postcoloniale che Rudan individua una capacità dirompente di
politicizzare il concetto di donna a partire dalla sua determinazione sociale, vale a dire a partire dalla posizione specifica della donna nera e postcoloniale in cui agiscono simultaneamente patriarcato, razzismo e sfruttamento capitalistico. In questo modo, una posizione parziale si trasforma in prospettiva globale di critica e contestazione di rapporti sociali di sfruttamento e dominio in cui la logica dell’accumulazione capitalista sincronizza violentemente spazi, tempi e condizioni eterogenei.
La reinterpretazione da parte di Rudan del concetto di donna come concetto politico e polemico apre uno spazio di riflessione importante, che potrebbe avere conseguenze interessanti per il dibattito sul transfemminismo. Potrebbe consentire, infatti, di spostare la discussione dalla questione del rapporto tra biologia e identità ai processi collettivi di politicizzazione che hanno complicato storicamente il significato di questo nome, che nessuno conosce e che continua a esprimere valenze molteplici e mutevoli.