Non si può dire che l’immagine che esce da questo Super Martedì delle primarie del Partito Democratico sia tranquillizzante. Per battere Trump alle presidenziali di novembre rimangono in corsa Joe Biden e Bernie Sanders, con una forte ipoteca messa dal primo. Due maschi bianchi quasi ottantenni, politici «tradizionali» di lungo corso del Senato, cioè di quel centro del potere politico istituzionale statunitense tanto inviso all’elettorato trumpista di medio-basso reddito. Dopo quattro anni di Trump, tra i quali uno e mezzo di Steve Bannon, ci si aspettava una forte partecipazione alle primarie democratiche come sintomo di una mobilitazione quanto meno elettorale in vista delle presidenziali. I più di 30 milioni di partecipanti alle primarie del 2016 saranno un obiettivo difficilmente raggiungibile. come del resto i 13 milioni di voti presi da Sanders in quell’occasione. Allo stato attuale una rielezione di Trump, visto il sistema elettorale americano che si regge sul «chi vince per un voto in uno Stato prende tutti i delegati», è più che una possibilità.
I prossimi mesi saranno decisivi per valutare lo stato di salute del Partito Democratico. E in modo particolare conterà come si svolgerà la Convention democratica del prossimo luglio in cui si ufficializzerà il candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Il rischio di arrivare a luglio senza che un candidato abbia la maggioranza assoluta dei delegati e la sua designazione sia in qualche modo scontata si può tradurre in uno scontro in cui avranno un peso decisivo i cosiddetti super delegati. Più di 700, non eletti nelle primarie, che rappresentano i gruppi di pressione e di potere politico all’interno del Partito democratico. Uno scenario temuto da molti, che non sarebbe certo il miglior modo per iniziare a battere Trump. Perché ormai è palese che si tratta non di sconfiggere politicamente Trump, ma di batterlo elettoralmente. E sia Biden che Sanders hanno impostato, seppur in modo diverso, la loro campagna separando l’aspetto politico da quello elettorale. Per Biden la presidenza Trump è stata un’anomalia, una parentesi che può essere chiusa ritornando al periodo migliore della presidenza Obama e ricostruendo una «normalità» tra potere esecutivo e rappresentativo senza le forti tensioni con gli apparati dello Stato. D’altro canto Sanders, che certamente ci mette maggiori contenuti sociali, punta su un sistema sanitario pubblico, un’istruzione pubblica e un salario minimo a 15 dollari l’ora intesi però come diritti civili e non come elementi di conflitto politico e sociale. Diritti che si possono conquistare solo scalando elettoralmente le istituzioni a ogni livello.
A complicare ulteriormente il quadro c’è anche la polarizzazione del voto nero e di quello ispanico: il primo schierato in maniera preponderante per Biden, il secondo a favore di Sanders. In questa prima fase della campagna di Sanders è emerso anche un aspetto negativo rispetto a quella delle primarie del 2016. Gli 80-100 mila giovani, che nel 2016 si sono autorganizzati dal basso vedendo nella campagna per Sanders un luogo e uno strumento per una ripoliticizzazione e la riapertura di un conflitto sociale, oggi non si vedono. Una parte di loro è entrata nei Democratic Socialists of America (DSA) anche perché Sanders e il suo staff non sono stati in grado di dare loro una prospettiva politica credibile a quelle primarie. La crescita dei DSA si è arrestata un anno e mezzo fa, i comizi di Sanders sono sempre molto partecipati, ma il clima di delega si percepisce appieno. Bloomberg è stato l’interprete più conseguente di questa strategia di separazione del politico dell’elettorale commettendo però l’errore di estremizzarla fino all’inverosimile. Il suo «chiunque ma non Trump, quindi chi meglio di me?», sorretto da mezzo miliardo di dollari in pubblicità elettorale sui media mainstream, che ha ingaggiato centinaia di influencer sulla rete, che ha approntato uno staff di circa 3 mila persone a 2,500 dollari al mese, che ha aperto più di 200 sedi elettorali nel paese non ha pagato perché è stato percepito come troppo simile a Trump.
Questo Super Martedì segna anche la crisi profonda della campagna di Elizabeth Warren che non riesce a vincere, arrivando terza, nemmeno nel proprio Stato di riferimento, il Massachusetts. Ora con Bloomberg e Warren fuori gara, Buttigieg e Klobuchar già ritirati, il «chiunque ma non Trump» se lo giocano Biden e Sanders. Il primo con l’appoggio dell’establishment politico, finanziario, mediatico del Partito Democratico. Il secondo raccogliendo la delega di un elettorato che vuole risvegliarsi dall’incubo di Trump.