Pubblichiamo un’intervista a Cecilia Abdo Ferez, ricercatrice del Conicet e docente di Teoria Politica presso l’Universidad de Buenos Aires, ma soprattutto militante femminista, attiva all’interno del movimento Ni Una Menos fin dalla sua nascita. Cecilia descrive la situazione dell’America latina a seguito dei numerosi mutamenti intervenuti negli ultimi mesi del 2019 – dalla protesta in Cile al colpo di Stato in Bolivia, dalla sconfitta elettorale del neoliberismo in Argentina alla liberazione di Lula e alle sue possibili conseguenze in Brasile –, con una prospettiva che prova a ricostruire una trama unitaria, ancorché complessa e spesso contraddittoria. La fine del decennio progressista da un lato ha segnato un ritorno di pratiche di governo della società e dell’economia ben conosciute in quel continente, imposte con la brutale violenza dalle forze dell’ordine (ritornate protagoniste in gran parte dei paesi latino-americani) e da un élite patriarcale e razzista, che utilizza appelli a valori conservatori e religiosi per legittimare lo status quo; dall’altro, però, ha visto emergere modalità inedite di resistenza, in primo luogo da parte dei movimenti studenteschi e femministi, e tentativi – certamente ancora in fieri – di nuove alleanze contro il dominio neoliberale. Tutto ciò in un contesto in cui la dimensione statuale nella quale questi governi e queste lotte si svolgono appare ancora al tempo stesso il principale referente politico, ma anche per molti versi una sorta di camicia di forza, o quantomeno un orizzonte troppo limitato perché i nuovi soggetti possano davvero organizzare un progetto contro-egemonico all’altezza della sfida che si trovano ad affrontare.
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Cominciamo da uno sguardo complessivo sulla fase politica in America latina. In maniera molto diversa, tanto la rivolta in Cile, quanto la vittoria elettorale del ticket Fernandez-Kirchner in Argentina, quanto infine la liberazione di Lula in Brasile sembrano segnali di una difficoltà del neoliberalismo globale a governare il continente, dopo averlo «riconquistato» quasi interamente. Come leggi questa nuova fase, e che nuove prospettive intravedi in questi eventi?
Sfortunatamente non credo che l’America latina sia entrata in una nuova fase. Mi sembra piuttosto che si apra uno scenario nuovo in Argentina e in Cile, sebbene i due casi siano diversi. Viceversa, l’America latina appare immersa in un processo di profonda delegittimazione delle democrazie esistenti, che non solo rinforza i tratti strutturali comuni a tutti i suoi paesi (egemonia del settore primario nell’economia, dipendenza dalle esportazioni, grande diseguaglianza sociale, precarizzazione e violenza onnipresenti), ma vi aggiunge anche un deterioramento delle garanzie fondamentali dello Stato di diritto, garanzie che dopo la fine delle dittature degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso sembravano ormai acquisite. Questo fenomeno risulta evidente soprattutto con il ruolo preponderante riconquistato dagli attori militari in tutto il continente – con l’eccezione dell’Argentina, dove questo protagonismo non sarebbe accettabile, proprio per le caratteristiche che ha avuto qui la fine della dittatura. Un caso particolarmente preoccupante è quello del Brasile di Jair Bolsonaro. Bolsonaro infatti non è una specie di Trump del Sud con un sovrappiù di cattive maniere, ma segnala la riemergenza di un carattere inscritto nel profondo della società brasiliana, che è rimasto in incubazione anche durante i governi petisti e che è alla base di un ordine teologico-politico fortemente conservatore. Questo ordine combina le chiese evangeliche, una militarizzazione e paramilitarizzazione della società che assassina dirigenti dei movimenti sociali, occupa territori e applica le sue proprie leggi, un’economia neoliberale che avanza lungo la frontiera agricola dell’Amazzonia e un dispositivo mediatico-giudiziario che accusa l’intera classe politica di corruzione. Bolsonaro ne è la figura più in vista, però questo ordine teologico-politico è qualcosa di molto più esteso. In tal senso la liberazione di Lula va senz’altro festeggiata, ma non vedo in che modo possa incidere nello sviluppo di questa situazione, nonostante Lula sia senza dubbio il dirigente politico più importante che il Brasile abbia e abbia avuto, nonché uno dei più importanti dell’intera regione. E tuttavia Bolsonaro è l’espressione di una crisi molto profonda, di una captazione conservatrice e moralista della società brasiliana, e anche dell’impotenza del PT nel contrastarla e perfino nel comprenderla, nonché della sua profonda caduta in discredito. Il Brasile è forse la situazione più preoccupante dell’intero continente, per il suo peso relativo, per la debolezza delle forze che si oppongono al bolsonarismo sociale e per la mancanza di organicità dei movimenti progressisti – con poche eccezioni, tra le quali vi è certamente il Movimento dei Sem Terra. È molto difficile ipotizzare un cambiamento nel medio periodo, come anche prevedere in che modo si trasformerà il bolsonarismo, che può diventare ancora più autoritario poiché al suo interno si trovano correnti ancora più violente.
In Cile la situazione attuale è di attesa e sorpresa al tempo stesso. Il Cile infatti, in tutta la regione, ma in special modo per l’Argentina, è sempre stato indicato come modello esemplare del neoliberismo. Il Cile era il paese che si doveva imitare, se si voleva porre fine ai vincoli dello Stato sociale, anche di uno Stato sociale così limitato come quello esistente a queste latitudini; il Cile era il paese degli imprenditori, dove tutto è privatizzato (dall’acqua alle pensioni di vecchiaia), dove non vi era nulla di pubblico, neppure la formazione primaria; un paese dove la dittatura di Pinochet era effettivamente riuscita a cambiare radicalmente la società, al punto che la disuguaglianza sociale, che non veniva toccata neppure dai governi della concertazione, era accettata senza eccessive proteste; con una soggettivazione profonda dei suoi cittadini costruita attorno allo slogan «diventare responsabili di se stessi» che attraversava tutte le classi, senza venire messa in discussione. Per queste ragioni non solo lo scoppio delle proteste, ma anche la loro radicalità e soprattutto la loro durata sono paragonabili all’esplosione di un fulmine a ciel sereno.
In realtà una simile impressione è erronea, dal momento che in Cile ci sono stati gli studenti «pinguini» [così chiamati per via delle loro uniformi scolastiche] che nel 2011 avevano richiesto una riforma del sistema dell’istruzione, il movimento femminista, i giovani che ora occupano le strade ed espongono letteralmente i loro corpi a una crescente repressione; tutto ciò indica quanto poco si siano riformati e democratizzati gli apparati repressivi cileni e quanto, in ultima istanza, la democrazia cilena dipenda da loro. In Cile ci sono stupri, torture, migliaia di persone che hanno perso la vista, perché la polizia spara mirando agli occhi, e tuttavia questi giovani, che vengono definiti «piccoli delinquenti», sono ancora lì, a mostrare che anche la paura si può vincere, perché loro non erano ancora nati quando la paura si era completamente impossessata della società cilena. Guardando al Cile dall’Argentina, appare veramente sorprendente che Piñera possa continuare a mantenere la sua carica presidenziale, forse perché in Argentina le proteste popolari hanno un’influenza sulle istituzioni molto maggiore che non in Cile. In ogni caso è incredibile che egli possa restare in carica con le immagini della violenza repressiva che circolano e con il livello delle proteste in atto. La Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH) in plenaria visiterà per la prima volta il paese in gennaio, in una situazione inedita ed eccezionale che ricorda la sua visita in Argentina del 1979, sempre in sessione plenaria, durante la dittatura.
Bisogna prestare molta attenzione all’accordo che si è creato per riformare la Costituzione, che è stato criticato da molti settori della società, ma soprattutto bisogna fare attenzione a quanto esso trasformi realmente l’economia, almeno per ciò che riguarda la possibilità di ampliare gli spazi sottratti alla logica mercantile e modificare le dinamiche politiche, in un paese in cui partecipa al voto un numero molto basso di cittadini e la politica manifesta un corporativismo e un’auto-riproduzione delle élites del tutto scollegati dalla vita popolare.
Di certo, nuovo e salutare per l’America latina c’è che il modello perfetto del neoliberismo nella regione dove tutto ha avuto origine, con i Chicago boys coinvolti dalla dittatura di Pinochet, ora non può più rappresentarsi come tale. È un modello in crisi, e con esso va in crisi un simbolo molto amato dalle destre del continente. Va in crisi l’esempio al quale si faceva riferimento per spiegare che il problema del neoliberismo negli altri paesi dipendeva dal fatto che non lo si applicava bene, che non si andava fino in fondo, che c’era troppa sindacalizzazione ecc. ecc. Va in crisi grazie a un processo destituente che si genera nelle strade e che mette in campo una creatività e una radicalità che rifiutano qualsiasi ritorno alla normalità, perché proprio nella gestione «normale» stava il problema.
La situazione argentina è incoraggiante, pur all’interno di una catastrofe sociale. Sebbene non sia possibile valutare un governo installatosi da poche settimane, tuttavia si può affermare che vi sarà un cambio di rotta rispetto al governo di Mauricio Macri. In primo luogo, è stata votata una formula di governo, quella di Fernández-Fernández, che si era posta in netta contrapposizione alle linee direttrici del governo precedente: non come continuità, né come alternanza, bensì come contrapposizione e rovesciamento del macrismo. In secondo luogo, in questi primi giorni di gestione si è potuto osservare l’intenzione di introdurre delle politiche che vanno in una direzione opposta rispetto a quelle precedenti: si è posta l’enfasi sulla solidarietà sociale, che deve avere la precedenza affinché il paese possa redistribuire la ricchezza a coloro che hanno di meno (in Argentina la povertà supera il 40%), dal momento che non si può continuare a generare debito estero né a stampare moneta. Per questa ragione, alcuni giorni fa è stata votata una legge che in nome della solidarietà assegna per sei mesi i poteri legislativi all’esecutivo, allo scopo di introdurre una serie di imposte differenziate secondo la situazione sociale e il settore economico (aumentando le ritenute nelle esportazioni agrarie e minerarie, benché in quest’ultimo caso più basse di quanto è stato ipotizzato inizialmente), e dare inizio a un programma contro la fame; inoltre è stato nominato un Consiglio economico e sociale, affinché ridefinisca i livelli salariali e produca un accordo sui prezzi.
Questo governo nasce all’interno di una forte crisi economica e sociale, però con un’altra posizione politica rispetto alla precedente: una posizione politica che costituisce una nuova sfida. Nasce con un’opposizione forte e articolata, quella del macrismo, che concentra il suo consenso nella zona produttiva del paese – la zona centrale – dalla quale dipende l’economia, poiché lì si trovano i settori legati allo sfruttamento agricolo, che permettono di acquisire valuta estera. Il governo dovrà pertanto cercare dei negoziati per giungere a un accordo, non solo per ricostruire l’unità di tutte le diverse correnti del peronismo, ma anche perché è necessario non produrre un conflitto irrisolvibile con il settore esportatore agricolo, come era accaduto sotto il governo di Cristina Fernández quando aveva tentato di aumentare le imposte alla fonte. Il futuro del governo nascente si giocherà all’interno di questa cornice politica, che comprende anche altri attori corporativi del paese, nonché sulla capacità di riattivare l’economia (la cui crisi dura ormai da anni, con una produzione industriale pressoché ferma e sull’orlo del default) e di rovesciare la povertà e la precarizzazione, a tutt’oggi altissima.
Allo stesso tempo, però, la Bolivia vive un momento terribile. Ora la situazione sembra in una fase di stallo, anche se la violenza della destra razzista e fascista non cessa. Pensi che sia possibile uscire da questa situazione in una direzione che non sia quella di un ritorno in grande stile del dominio di classe e di razza nella «nuova» veste neoliberale? E se sì, come?
Guardare alla Bolivia dall’Argentina, da dove io scrivo, obbliga a chiarire la posizione che si intende sostenere. Anche nella sinistra argentina vi è una tendenza a replicare lo sguardo colonialista, che attribuisce immediatamente alla società boliviana una maggiore tolleranza nei confronti della violenza, quasi una sua naturalizzazione, insieme a un occasionalismo politico che finisce per negare ogni storicizzazione e invalidare qualsiasi giudizio su quanto sta accadendo: una sorta di: «eh, certo, in Bolivia è sempre stato e sempre sarà così». D’altra parte, guardare alla Bolivia dall’Argentina significa anche confrontarsi con una differenza culturale che effettivamente esiste, e cercare un livello di analisi nel quale le similitudini e le specificità dei due paesi possano collocarsi per venire comprese. Quanto è accaduto in Bolivia con la rinuncia forzata di Evo Morales lo scorso 10 novembre è, di fatto, un colpo di Stato; però limitarsi a dire questo non permette di comprendere interamente quello che è successo.
Lo sguardo folkloristico, che attribuisce ai paesi latino-americani un’instabilità e un’informalità costanti, giustificando entrambe perché così è sempre stato e così sempre sarà, diventa complice delle violenze e spiega poco di quanto accade: è epistemologicamente inutilizzabile. In Bolivia c’è stato un colpo di Stato, e sostenerlo non cancella certo i fattori che hanno portato a esso, come gli errori compiuti dal MAS, né tantomeno giustifica o immunizza nessuno. Non credo alle interpretazioni che attribuiscono a Luis Fernando Camacho, del comitato civico di Santa Cruz, la responsabilità di ogni male, mentre d’altro canto partecipano alla santificazione di Evo Morales Ayma; però dire che sono stati gli errori di Morales a causare il colpo di Stato finisce per relativizzarne il significato e per porre in secondo piano coloro che lo hanno perpetrato. Ci sono stati senz’altro errori, come c’è stata una caduta in discredito del governo di Morales, e di questa situazione di debolezza ha approfittato chi ha compiuto il golpe: come è sempre avvenuto nel passato della storia boliviana e degli altri popoli latinoamericani, in generale i colpi di Stato avvengono quando i governi sono deboli, non quando sono nel pieno della loro legittimazione.
Detto questo, io credo che sia possibile una soluzione democratica della situazione boliviana, anche con il governo de facto di Jeanin Áñez. La Bolivia andrà a nuove elezioni nazionali, in una data scelta dal Tribunale Elettorale Supremo, i cui membri sono stati designati dal governo di Áñez. A queste elezioni si è giunti grazie a un accordo tra i dirigenti del governo de facto e il MAS, con il quale quest’ultimo ha accettato di escludere dalle candidature sia Evo Morales, sia il suo vice Álvaro García Linera. Nei giorni scorsi Morales ha detto che si incontrerà alla frontiera tra l’Argentina (dove ha ottenuto asilo politico) e la Bolivia con dei delegati del suo partito per definire il candidato alle elezioni. Un simile accordo, visto dall’Argentina, aumenta lo «sconcerto» nei confronti della situazione del paese vicino: come si può credere che ci saranno elezioni regolari in un paese in cui l’ex presidente sconfitto è ora il capo delle forze armate di un governo de facto? Quale strategia sta costruendo il MAS, di fronte all’esclusione del suo leader più significativo dalla candidatura? Come può denunciare il golpe e subito dopo accordarsi in Parlamento?
La mia ipotesi è che la convocazione delle elezioni nasca da due riconoscimenti, o per meglio dire da un riconoscimento reciproco. In primo luogo, il riconoscimento da parte del MAS del logoramento delle figure presidenziali e della mancanza di sostegno di attori chiave dopo il golpe – alcuni movimenti sociali, tra il quali senza dubbio la Central Obrera Boliviana (che, come ha ricordato Morales, nel 1979 ha bloccato un colpo di Stato con uno sciopero generale, cosa che in questo caso non ha fatto), e una parte degli elettori –, nonché dell’assenza di appoggio da parte dell’apparato militare. Questo riconoscimento deriva dal fatto che il MAS si è trasformato negli ultimi tempi nella forza principale di sostegno al governo di Morales, diventando un partito egemonico a detrimento delle organizzazioni sociali e delle leadership comunitarie, e producendo una spoliticizzazione di ampi settori della popolazione. In secondo luogo, vi è il riconoscimento di un settore dell’opposizione dei risultati economici ottenuti dal governo di Morales e della possibilità di una articolazione tra governabilità e crescita. Si tratta di un riconoscimento, che coinvolge anche una parte delle élites che hanno promosso il golpe, del fatto che con Morales hanno goduto dei benefici di una crescita economica senza precedenti ed eccezionale per tutta l’America latina. Che piaccia o no a queste élites, una simile combinazione virtuosa non può essere garantita da un governo guidato da Áñez, né tantomeno da altri potenziali leader provenienti dai settori più radicalizzati del mondo agroindustriale di Santa Cruz, e resta da vedere se possa essere garantita dall’ex presidente Carlos Mesa, mentre lo è senza alcun dubbio dal progetto di governo sviluppato dal MAS in questi anni. I risultati di questo progetto ‒ che ha redistribuito i proventi dei settori estrattivi ed energetici nazionalizzati ‒ sono stati il principale motivo del sostegno al governo Morales, che le élites hanno tollerato come male minore, pur restando legate a un razzismo e a un classismo insuperabili.
In conclusione, il rompicapo boliviano, lungi dall’essere «soltanto boliviano», pone un problema che riguarda tutti i governi progressisti dell’America latina, e forse anche oltre: come combinare crescita e sviluppo sociale? Come cambiare una matrice produttiva che si basa quasi esclusivamente, dall’epoca coloniale a oggi, sull’economia agricola ed estrattiva, e soprattutto come farlo in pochi anni? Quanto è forzata questa modernizzazione, ovvero quando contrasta pratiche di vita ancestrali, che non sono capitalistiche? E come accompagnare la crescita economica con l’aumento delle aspettative sociali che tendono a differenziarsi, proprio a causa di questa crescita? Come fare in modo che la Bolivia non diventi un paese in cui lo Stato, invece di ricercare un progetto alternativo al capitalismo, sia il principale propiziatore della riconversione economica del capitale e dei suoi vincoli sociali?
Al di là della contrapposizione che si è sviluppata nella discussione interna alla sinistra latino-americana (e non solo) sulla dicotomia golpe-non golpe in Bolivia, quali sono secondo te le ragioni per cui, negli ultimi anni, attivisti e movimenti sociali boliviani hanno criticato fortemente le politiche del governo Morales?
La discussione che si è sviluppata in America latina, con ripercussioni particolarmente significative in Argentina, a proposito di quanto è accaduto in Bolivia (in particolare se si fosse trattato di un colpo di Stato o di un sollevamento popolare per la possibile frode elettorale di Morales o per la sua forzatura della Costituzione nel ricandidarsi per la quarta volta), ha significato qualcosa di più di un dibattito su questo punto specifico, perché ha avuto come attori principali delle militanti femministe che hanno un forte seguito nel continente: Silvia Rivera Cusicanqui, María Galindo, Raquel Gutiérrez Aguilar, Rita Segato sono alcune tra le più note[1]. Si è trattato quindi di una discussione indiretta sui femminismi e sulla loro capacità teorica di leggere le situazioni politiche e di intervenire al loro interno, come pure la violenza di alcune delle risposte alle loro analisi.
Anche se io non condivido alcuni dei loro interventi ‒ come quello di Rita Segato ‒ è difficile comprendere per quale ragione le sue opinioni abbiano fatto tanto clamore diversamente da quelle di Raúl Prada Alcoreza, che non solo è stato ben più duro e tagliente, ma non ha mai sviluppato a fondo la sua analisi (che trattava Morales come «un agente sotto copertura delle multinazionali estrattiviste»), né tantomeno ha spiegato, come ha fatto invece più volte Segato, che il suo principale referente polemico erano quelle compagne boliviane che davano per scontato che si fosse trattato di un colpo di Stato.
Per questa ragione diventa fondamentale dissociare quello che è un esercizio di sessismo da quella che invece deve essere una critica del quadro teorico e dei presupposti che hanno condotto a dare simili giudizi: ovvero, una critica che intende essere interna ai femminismi e che vuole essere equanime. I femminismi infatti sono l’unico movimento politico contemporaneo della regione che sta producendo innovazioni sia sul versante pratico, sia su quello teorico, in esplicita contrapposizione ai neoliberismi locali, con un enorme potenziale per rovesciare i rapporti sociali che il neoliberismo produce quotidianamente. È quindi di estrema importanza individuare le conseguenze di queste posizioni teoriche, perché bisogna continuare a pensare la relazione possibile tra le sinistre e i femminismi, che pur con lessici, tempi storici e composizioni sociali differenti devono comunque cercare di immaginare un orizzonte comune.
La politica è un campo che, nei momenti che potremmo definire «seri» (come quelli di un colpo di Stato, di una rivoluzione, di una tensione sociale estrema), si divide in due. Questo avviene che ci piaccia o no, anche quando noi pensiamo che sia un errore e che si debba agire contro una simile divisione. Certamente è sempre possibile cercare di aumentare la complessità di questo dualismo, però in generale, in questi momenti, tutti coloro che parlano o agiscono in pubblico si collocano all’interno di una delle due parti del campo. Credo che qualcosa di simile sia avvenuto in Bolivia. Qualunque opinione emerga in questi tempi si colloca immediatamente in uno dei due campi, cosicché da Segato, Rivera Cusicanqui, Galindo e le altre femministe ci si attendeva una netta opposizione al golpe e un appoggio esplicito a Evo proprio in conseguenza della divisione esistente, poiché riconoscere tale divisione significa pensare politicamente.
Segato ha risposto alle critiche identificando questa divisione con un pensiero binario che avrebbe obbligato a scegliere tra Morales e Camacho come se si trattasse di scegliere tra il bene e il male. E tuttavia si tratta davvero di un binarismo di questo tipo, o piuttosto si tratta di riconoscere che la propria opinione si colloca sempre in un campo sovradeterminato, la cui divisione non si sceglie volontariamente, bensì è già data? È possibile, in questi momenti «seri», scrivere e agire come se questa divisione non esistesse, per poi sorprendersi degli effetti delle nostre parole e azioni? È possibile cioè personalizzare a tal punto i giudizi politici, da anteporre le frequenti espressioni maschiliste di Evo a quello che il suo governo aveva ottenuto per alcune donne che prima non erano mai esistite né socialmente né politicamente, ma solo come forza lavoro servile? Morales ha detto che quando si fosse ritirato dalla politica sarebbe andato a vivere in campagna con una quindicenne; certamente va criticato per questa affermazione, come per i suoi giudizi sugli omosessuali. Però va criticato con molta maggiore forza per aver applicato debolmente l’agenda di governo a vantaggio delle donne e delle dissidenti, o per l’alleanza con le chiese evangeliche. Ma tutto ciò deve indurci a essere equidistanti tra questo governo maschilista e quello che verrà in futuro? Anche se non è questa la posizione di Segato, mi chiedo però se sia utile accusare di maschilismo ogni organizzazione sindacale, invece di cercare di riformarla, affinché cessi di esserlo. E poi, davvero pensiamo che gli aymara o altre comunità indigene siano libere dal sessismo?
Senza dubbio la violenza contro le donne è sempre violenza politica, come ci ha insegnato Segato, e senza dubbio non sono meno gravi le opinioni che si pronunciano sulle donne, o il sessismo istituzionale che esse subiscono. Non sono «contraddizioni secondarie», la cui soluzione è rinviabile a un momento futuro. Però queste violenze devono essere colte nella loro complessità, per non ridurle sempre alla forma di intersoggettività soggiacente all’identificazione tra Stato e maschilismo: un’identificazione utile come slogan ‒ come quelli che rintracciamo nelle bellissime performance del collettivo «LasTesis», dove si dichiara che lo Stato è un maschio violento e stupratore ‒, ma che senza dubbio deve essere guardata da una prospettiva più articolata, se si vuole pensare e fare politica in maniera efficace. Perfomance bellissime, lo ripeto, perché riescono a mostrare la posizione di dominio discriminante dello Stato nei confronti delle donne, la sua condizione di garante del perpetuarsi della violenza sessuale, tanto nelle sue azioni quanto nelle sue omissioni. E tuttavia all’interno di quello stesso Stato vi sono anche le agenzie che lottano contro questa violenza: pubblici ministeri, agenzie di ricerca, avvocati, università, legislatori che impongono la parità di genere, assemblee costituenti. Per questo parlare di binarismo in presenza di contraddizioni di tal genere, e soggettivizzare il potere, equiparando la molteplicità contraddittoria che è uno Stato alla sola categoria «maschio», sono scelte che rischiano di non riconoscere la storicità dello Stato stesso.
Allora, per tornare alla domanda iniziale, alcuni femminismi sono stati critici del governo di Morales per buone ragioni; altri femminismi non lo hanno criticato, e altri ancora non hanno avuto delle posizioni «felici», dimenticando che le altre compagne non sono le loro nemiche principali, che abbiamo appreso e continuiamo ad apprendere molto da loro e che molte di loro sono in Bolivia a opporsi al golpe. Però anche altri gruppi sono stati molto critici, da posizioni vicine a Morales, e mi interessa sottolinearne le ragioni: sono i gruppi che si sono sentiti subordinati al MAS in politica, nonché quei movimenti sociali che mettono in discussione lo sviluppismo del «modello Evo». È facile quindi immaginare che questi mutamenti abbiano generato tensioni, anche a causa di una gestione politica sempre più discutibile; e che sia urgente ritrovare un punto di equilibrio nel quale il paese possa mantenere la propria sovranità sui beni naturali, senza che questo però significhi un cedimento al capitalismo estrattivista, bensì la possibilità che lo sfruttamento di questi beni sia sostenibile nel tempo e continui a servire allo sviluppo sociale. Come ho già detto, il rompicapo della situazione boliviano non è una specificità di quel paese, bensì un problema che riguarda tutti i paesi di quell’area.
Ultima questione: se e in che misura gli esiti dello scontro politico in Bolivia potranno produrre delle conseguenze negli equilibri interni a diversi paesi del continente (penso in particolare al Cile, ma non solo), nonché in quelli tra i diversi Stati? Solo per fare un esempio, immagino che una vittoria dei golpisti rafforzerebbe il ruolo di Bolsonaro in America latina.
Se in Bolivia si consolidasse il governo golpista, o se nelle prossime elezioni risorgesse un governo delle élites agro-industriali (della qual cosa però io ho forti dubbi), si aprirebbe senz’altro la possibilità di una relazione molto più stretta tra le destre al governo nel continente. Si tratterebbe di uno scenario molto negativo, soprattutto per il governo argentino, che ha bisogno della possibilità di costruire un’alleanza progressista regionale come sostegno alla rinegoziazione del debito pubblico. Quello che ha mostrato la situazione boliviana (e, prima di essa, anche quella ecuadoriana), è che la regione non ha forti istituzioni transnazionali in grado di intervenire legittimamente per gestire i conflitti. Per i movimenti sociali progressisti – per i femminismi, per i movimenti indigeni e contadini – lo scenario sarebbe altrettanto negativo, perché quello che è in gioco è l’appropriazione dei territori da parte delle imprese minerarie, lo sfruttamento dei lavoratori agricoli e la vendita delle riserve d’acqua a imprese straniere. È in atto una disputa sui modi di vita, con un forte tentativo di rimoralizzare la società, di attaccare i femminismi su tutti i fronti (dalla finanziarizzazione della vita, come hanno ben mostrato Veronica Gago e Luci Cavallero, alla violenza fisica), e al tempo stesso una disputa sulle risorse naturali – la terra, l’acqua, i minerali, il paesaggio – che non solo possono venire assoggettate alla logica mercantile, ma sono anche strumenti per privare i paesi della loro sovranità: possono costituire una garanzia del pagamento del debito pubblico, possono essere vendibili, scambiabili con valuta estera, venire posti sotto la giurisdizione di leggi speciali…Questo non significa che i governi progressisti agiscano immediatamente contro lo sfruttamento e la vendita agli stranieri dei beni, ma che perlomeno essi sono governi «contestabili»; e questa contestabilità non è sostenibile in un continente dove la violenza, anziché venire abitualmente risolta in tribunale, interviene senza mediazione sui corpi e sui territori.
[1] Qui alcuni contributi per inquadrare la situazione: 1, 2, 3, 4, 5, 6