di VERHAEGHELLI
Nelle scorse settimane un ennesimo, imponente sciopero di lavoratrici e di lavoratori, migranti e non, dell’industria avrebbe dovuto attraversare il Sudafrica. Esso si sarebbe inserito in una lunga scia di proteste e scioperi che si collocano nel nuovo contesto politico segnato dall’elezione del presidente Cyril Ramaphosa. Quest’ondata di scioperi e proteste di lavoratori sudafricani e migranti contro lo sfruttamento è il segno che il governo, le istituzioni e gli investitori europei e cinesi non potranno decidere indisturbati i loro progetti di ‘sviluppo’ dell’economia sudafricana. Quanto sta accadendo nel paese dei BRICS considerato più favorevole ad una modernizzazione economica che lo inserisce pienamente nelle catene globali dello sfruttamento mostra quale sia la posta in gioco che oggi coinvolge tutto il continente africano.
Cyril Ramaphosa, insediatosi nel febbraio del 2018, è nato nel ‘52 nella township di Soweto, la stessa di Mandela, di cui è stato il braccio destro durante le negoziazioni per la fine dell’apartheid. Ex portavoce storico del sindacalismo nero dei minatori, ha contribuito alla creazione dell’Unione Nazionale dei Minatori, il più grande ed importante sindacato sudafricano, icona delle lotte degli ultimi decenni per il miglioramento delle condizioni salariali nelle miniere. Dopo essere stato vicepresidente di Jacob Zuma, Ramaphosa è stato eletto presidente poiché appariva sulla carta come un potenziale candidato capace di tenere assieme tutela dei diritti e crescita del paese tenendo a bada gli investitori esteri, Unione Europea e Cina in particolare. Ma Ramaphosa ha in mente altro. A lui è richiesto, infatti, un approccio più dirompente, come scrivono gli investitori stranieri, che segni un taglio netto con rigidità burocratiche, tasse e promesse di maggiori diritti per i lavoratori. In effetti, i progetti politici ed economici che provengono tanto dall’Unione Europea quanto dalla Cina, i due principali attori coinvolti nell’economia del paese, non solo considerano questo Stato centrale, ma hanno voluto assicurarsene una quota di governabilità una volta destituito il sistema dell’apartheid. A colpi di agreement, convenzioni politiche ed economiche, il Sudafrica è così diventato a tutti gli effetti una parte in gioco nelle riconfigurazioni contemporanee del capitalismo. Questo ha significato anche la parziale rottura della proiezione principalmente africana del paese, a favore di una collocazione globale che lo rende, nei fatti, integrato all’Unione Europea, così come è parte della Repubblica Popolare Cinese.
Da sempre considerato povero, problematico e instabile, il continente africano, soprattutto per quanto riguarda le aree centrali e meridionali, è il più delle volte assente da un discorso politico più ampio sulle catene globali della produzione e dello sfruttamento. Anche all’interno delle riflessioni sulla riconfigurazione contemporanea della logistica, il ruolo chiave di alcuni di questi territori viene spesso trascurato. Eppure, i cambiamenti che investono il Sud Africa riguardano anche l’Europa e più in generale la scala globale entro cui il capitale si articola. Le lotte che lo attraversano, tanto dei minatori neri e spesso migranti quanto delle popolazioni nere locali, trascendono il più delle volte i confini nazionali, proprio a causa del carattere non-nazionale dei bersagli e delle rivendicazioni. È immediatamente evidente il potenziale transnazionale delle lotte in corso.
Il tentativo delle istituzioni europee di intervenire in maniera diretta nella ristrutturazione logistica in Sudafrica mette in luce processi politici che sono oltremodo affini a quelli che intervengono entro i confini geografici dell’Unione Europea. Basti pensare a quanto si è “dovuto” realizzare in nome di una maggior facilità di circolazione di capitali e di investimenti nazionali ed esteri, come auspica il Trade, Development and Co-operation Agreement: il piano di liberalizzazioni previsto dall’accordo ha infatti imposto leggi sul lavoro, riduzione dei salari, privatizzazione delle aziende statali, leggi sull’immigrazione e tagli alla spesa pubblica in nome di un “rilancio” dell’economia sudafricana. Nei fatti, tuttavia, l’Unione Europea, con l’intento apparente di rafforzare il dialogo tra le parti, ormai da un decennio mira a promuovere un processo di transizione economica e sociale del Sudafrica.
La durata dell’accordo è a tempo indeterminato, benché sia prevista la revisione ogni cinque anni dall’entrata in vigore al fine di apportare eventuali modifiche e, come specificato in alcune clausole, di aumentarne la portata, qualora il progetto europeo dovesse cambiare direzione. Un primo accordo tra Comunità Economica Europea e Sud Africa risale al 1999, a cui è seguito nel 2016 un nuovo accordo per un’area di libero scambio sudafricana. Nell’insieme questi agreement instaurano un regime commerciale preferenziale tra l’UE e il Sudafrica, con la creazione progressiva di zone di libero scambio (ZLS) per la libera circolazione delle merci. Questo vale sia per gli scambi commerciali, sia per gli investimenti, definendo di fatto l’UE come principale partner economico del Sudafrica. Secondo un modello ormai diffuso su scala globale e di cui l’Ue si fa promotrice, le zone economiche speciali (ZES) sono definite come aree geograficamente designate per attività economiche mirate. La legge che riguarda queste zone, rinnovata nel 2016, riguarda la designazione, la promozione, lo sviluppo e la gestione delle ZES. Per garantire la crescita delle ZES, la generazione di reddito, la creazione di posti di lavoro, l’attrazione degli investimenti diretti esteri (IDE) e la competitività internazionale è prevista una serie di incentivi: per un imprenditore spostare la produzione in una ZES vuol dire infatti accedere a un’aliquota preferenziale del 15% dell’imposta sulle società, ottenere delle indennità di costruzione senza vincoli particolari, ad esempio i vincoli ambientali; vuol dire anche ricevere incentivi fiscali all’occupazione (i cosiddetti ETI – Employment Tax Incentive) e ulteriori consistenti sgravi fiscali. Sicura fonte di attrazione degli investimenti esteri diretti – prima preoccupazione dell’UE – le ZES non sono altrettanto forti sul campo dei diritti di chi si trova a lavorare in quei contesti “speciali”. Le ETI, benché pensate come incentivo all’assunzione di giovani in imprese situate in zone speciali, hanno di fatto ottenuto scarsi risultati. I datori di lavoro che hanno adottato questo modello promosso dall’Europa, infatti, ne hanno assunto soprattutto gli “incentivi” allo sfruttamento e alla precarizzazione che esso garantiva. L’aumento dei posti di lavoro per i giovani è così stato bilanciato da una eguale perdita di posti di lavoro, paradossalmente sempre tra i giovani. Per ogni giovane assunto, un altro viene licenziato, forse perché, come nello spirito del Jobs Act in Italia, gli incentivi hanno un limite di due anni.
L’UE fornisce inoltre assistenza tecnica per aiutare il Sudafrica a ristrutturare la sua legislazione in materia di concorrenza. L’accordo, infatti, riconosce all’Europa il diritto, in caso di bisogno, di svolgere consultazioni urgenti e prestare al partner commerciale un’assistenza definita tecnica, ma che rende evidente la pretesa di influenzare direttamente le decisioni politiche attraverso interventi legislativi diretti nell’ordinamento sudafricano. Gli aiuti UE al Sudafrica vengono finanziati prevalentemente dal bilancio comunitario attraverso lo strumento per il finanziamento della cooperazione allo sviluppo. Esso agisce in particolare nei settori prioritari del programma indicativo pluriennale per la cooperazione con il Sudafrica nel periodo 2014-2020 con particolare riferimento a tre assi, in cui l’UE si pone come vero e proprio modello di riferimento: la creazione di posti di lavoro; l’istruzione, la formazione e l’innovazione; e, ultimo ma non meno rilevante, la costruzione di uno stato capace e orientato allo sviluppo, proprio come accade in Europa, o così vorrebbero far credere a chi in Europa non ci vive.
L’Unione Europea non è il solo attore che mira a espandere e consolidare il proprio spazio politico in Sud Africa. Se l’UE è infatti il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura. Come si legge sul sito di Taung Gold, una delle principali società finanziarie cinesi attiva principalmente nel settore minerario, la Cina «è profondamente consapevole dell’importanza degli investimenti cinesi in Sudafrica». Taung Gold è da oltre un decennio una delle molte imprese della Repubblica Popolare che investono in Sud Africa, soprattutto nel settore minerario. Non solo: negli ultimi anni, ci sono stati anche grandi investimenti in settori come quello manifatturiero, bancario, tessile, immobiliare e, in misura crescente, agricolo, in cui spicca la produzione di noci di macadamia per il mercato cinese. Tra gli investimenti più significativi c’è stato quello finanziato dalla Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) che ha acquistato il 20% delle attività della Standard Bank, una delle maggiori banche sudafricane, per 5,5 miliardi di dollari. Il produttore cinese di elettronica, Hi Sense, è entrato nel mercato sudafricano nel 1997. Nel 2013, l’azienda ha creato un parco industriale a Città del Capo, nella provincia del Capo occidentale. Questi e altri investimenti hanno l’obiettivo ufficiale di creare più posti di lavoro per i sudafricani alle prese con tassi di disoccupazione elevati, ma in realtà mirano ad accedere a nuovi bacini di manodopera e consolidare la quota di mercato delle imprese cinesi in Sudafrica. Anche altre aziende cinesi di punta come Zhong Xing Communications (ZTE) e Huawei Technologies stanno espandendo la loro presenza in Sudafrica.
Anche sul fronte estrattivo, la portata degli investimenti cinesi supera quella degli investimenti europei. Il Sudafrica è attualmente al secondo posto tra le mete di investimento nel settore minerario della Cina in Africa. Tra gli esempi più significativi vi è l’acquisizione da parte del Gruppo Jinchuan e del China-Africa Development Fund del 45% di Wesizwe Platinum, una junior mining company. Al momento dell’acquisizione, gli investitori cinesi hanno anche contribuito a raccogliere 650 milioni di dollari per il finanziamento di progetti per lo sviluppo della miniera Frischgewagde di Wesizwe. Nel 2011, la China Investment Corporation (CIC) ha pagato 243 milioni di dollari per una partecipazione del 25% nel gruppo Shanduka. Shanduka Gold è controllato in parte da Pan African Resources, che a sua volta gestisce operazioni di estrazione mineraria dell’oro vicino al sito estrattivo di Evander dove opera Taung Gold.
Altre società cinesi attualmente impegnate nel settore minerario sudafricano sono Zijin Mining, Minmetals, Jiquan Iron and Steel (JISCO), East Asia Metals e Sino Steel. Zijin sta sviluppando la Miniera Blue Ridge e la Miniera di Sheba nel nord del Sudafrica. Sino Steel è coinvolta in una joint venture con una società parastatale (Lindev) per gestire una miniera di cromo nella provincia di Limpopo e ha investito nello sviluppo di una miniera insieme a Cemencor, società attiva nell’estrazione di mangenese.
Con l’elezione di Ramaphosa, queste attività hanno visto un’incredibile accelerazione, dovuta alle promesse del neoeletto presidente. Nonostante il passato di lotta, Ramaphosa ha infatti messo da parte minatori e miniere per favorire l’arrivo di nuovi investimenti al fine di risollevare l’economia sudafricana dopo la grande crisi che l’ha colpita negli ultimi anni del governo di Zuma. Non stupisce che gli investitori, come ha ribadito a più riprese Lin Songtian, ambasciatore della Cina in Sudafrica, lo considerino come «l’ultima speranza di questo paese». Ciononostante, come emerge dai dati economici degli ultimi mesi, la spinta che il presidente ha voluto dare agli investimenti esteri non è servita, o solo in misura molto limitata, ad alleviare la disoccupazione o a stimolare la crescita economica, sebbene anche gli Emirati e l’Arabia Saudita abbiano deciso di entrare in gioco con un esborso di circa 55 miliardi di dollari. Quello che manca, a detta degli investitori, non è solo l’impegno economico nazionale, ma anche un insieme di condizioni politiche che rassicurino i governi stranieri e soprattutto le banche, in cerca di rendite sul lungo termine. Quel che vorrebbero, in sostanza, sono delle garanzie di condizioni favorevoli perenni, sancite da una legge sugli investimenti stranieri approvata dal parlamento sudafricano. Insomma, vorrebbero che il Sudafrica stabilisse de jure la propria sudditanza ai piani di espansione economici e politici tanto europei quanto cinesi. A questo si dovrebbero aggiungere una modernizzazione delle infrastrutture e la privatizzazione dell’azienda elettrica Eskom, in quanto fattori capaci di attrarre ulteriori finanziamenti esteri. All’interno dell’iniziativa cinese Belt and Road (BRI) il porto di Durban dovrebbe infatti diventare il nodo principale di un corridoio logistico nel nordest del paese. Il Sudafrica si trova così nel crocevia tra l’interventismo europeo e un mutato atteggiamento cinese dovuto al rovesciamento dei rapporti tra i due paesi nel corso dell’ultimo ventennio: da partner relativamente forte, infatti, il paese ha decisamente segnato il passo di fronte all’accresciuto potere cinese. Il risultato è che oggi i dirigenti europei possono insegnare al Sudafrica come ristrutturare uno Stato, e quelli cinesi possono dire che le ferrovie del paese sono troppo lente e i suoi porti inefficienti, offrendo in cambio di gestirne la modernizzazione.
L’azienda di servizi pubblici Eskom, ente sudafricano per l’energia elettrica, secondo il piano cinese dovrebbe essere rilanciata attraverso una sua privatizzazione. Eskom viene infatti regolarmente citata dalle agenzie di rating come una delle principali minacce alla solvibilità e alla crescita economica del Sudafrica, poichè fortemente indebitata e spesso costretta a sospendere le forniture per l’eccesso di domanda. Ma queste accuse lasciano il tempo che trovano dal momento che i blackout, che come si può facilmente immaginare, hanno riguardato in modo particolare le popolazioni più povere del paese, colpendo il più delle volte i luoghi abitati da popolazione nera e migrante e hanno intaccato solo in misura minore il regolare funzionamento delle aziende a titolarità estera. Non va tuttavia sottovalutato l’impatto della transizione verso la produzione veicoli elettrici intrapresa su scala globale, in particolare dalla Cina, sulle attività estrattive, quanto su una rinnovata centralità del mercato delle forniture di elettricità.
È del resto evidente che l’accesso all’elettricità diventa un problema solo se compromette, anche in misura minima, il regolare funzionamento della operazione del capitale, mentre quando si tratta delle condizioni materiali di vita di neri e migranti vale il più assoluto disinteresse. Infatti, benché tanto la Cina, quanto l’Europa spendano molte parole e risorse per fare del Sudafrica uno dei centri del loro programma politico neoliberale, né il modello europeo né il socialismo con caratteristiche cinesi paiono avere nulla da offrire per migliorare le condizioni reali dei lavoratori e in particolare della manodopera migrante che vive e lavora in Sudafrica. Questo è dovuto al fatto che sono proprio queste condizioni a definire un “differenziale di sfruttamento” che attira gli investitori verso una nuova frontiera: la fine ufficiale della segregazione razziale ha infatti contribuito ad aprire le porte a investimenti massicci che prima erano difficilmente giustificabili di fronte al pubblico europeo. A seguito della fine dell’apartheid, gli stessi schemi di mobilità nell’Africa australe si sono rapidamente e profondamente modificati, trainati in gran parte dalla trasformazione politica ed economica del Sudafrica dovuta all’abolizione del regime segregazionista che tuttavia non cancella un apartheid che continua di fatto. Da un lato, la contrazione dell’industria mineraria sudafricana sta causando spostamenti su larga scala di lavoratori migranti provenienti dai paesi vicini come il Mozambico, il Lesotho e lo Swaziland. Allo stesso tempo, la fine dell’apartheid e la conseguente abolizione delle sanzioni commerciali stanno alimentando un forte aumento dell’afflusso di migranti in cerca di lavoro in altre industrie. Le competenze di questi lavoratori, dai medici dello Zimbabwe ai contadini mozambicani, variano molto. Tra i lavoratori non qualificati, invece, l’ingresso illegale in Sudafrica sembra aumentare rapidamente. Le stime ufficiali della popolazione migrante senza documenti variano da 2,5 milioni (4,4% della popolazione) a 8 milioni (il 18% della popolazione). La società gerarchica costruita sulle ceneri dell’apartheid è nei fatti diventata il principale asset del paese, insieme alle sue materie prime. Tuttavia, proprio i lavoratori migranti mostrano come questa stessa società sia tutt’altro che pacificata.
Questi cambiamenti, oltre a ristrutturare l’organizzazione del lavoro e a intensificare ancora di più lo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, sia migranti sia neri sudafricani, stanno infatti conferendo all’immigrazione una maggiore importanza come questione politica transnazionale. Un certo numero di Paesi confinanti nell’Africa del Sud, da cui proviene una buona parte della manodopera migrante, è, infatti, sta conducendo negoziati bilaterali su questioni come le condizioni di ingresso, le rimesse salariali e la protezione sociale. E per questa ragione che un ente come il South African Trade Union Coordinating Council (SATUCC) ha prodotto un progetto di Carta Sociale chiedendo standard minimi di protezione sociale per tutti i lavoratori, compresi i migranti, indipendentemente dallo status. Inutile dire quanto poco siano stati ascoltati. Il totale disinteresse nei confronti di tale progetto si deve anche al fatto che ad oggi in Sudafrica l’afflusso di grandi masse di lavoratori migranti sta suscitando profonde controversie. Da un lato, vi sono coloro che insistono sul fatto che una politica migratoria liberale, per quanto non necessariamente orientata al benessere dei lavoratori migranti, sia una componente essenziale della nuova democrazia della nazione; dall’altro, vi sono quelli che sostengono che la migrazione debba essere ridotta per concentrare le risorse economiche sul miglioramento della vita dei sudafricani indigeni.
In questo dibattito non c’è spazio per quello che le lavoratrici e i lavoratori chiamati in causa pensano, dicono e fanno ormai da decenni, scioperi compresi. Sono loro, infatti, ad aver fondato in questi anni gran parte dei sindacati delle miniere, del settore agricolo e di quello edile, con lo scopo di «difenderci dall’oppressione e dallo sfruttamento», come ha affermato Joe Montisetse, minatore venuto dal Botswana e ora nuovo presidente dell’Unione nazionale dei minatori in Sudafrica. Montisetse stesso aveva contribuito alla fondazione di questo sindacato presso la miniera d’oro dove lavorava, in seguito a un incidente in cui due suoi colleghi erano morti in una pozza di metano esplosiva (oltre che estremamente tossica) in cui lui si era rifiutato di lavorare pagandone le conseguenze. Sono molti i lavoratori migranti delle miniere che in questi anni hanno scioperato e lottato per essere regolarizzati, per ottenere salari più alti, condizioni di lavoro decenti, quote di welfare che a oggi gli sono negate (assistenza sanitaria e pensione in particolare). Un altro esempio è rappresentato dall’Association of Mineworkers and Construction Union, guidata da un minatore proveniente dallo Swaziland (dal 2018 chiamato eSwatini) che continua senza tregua a rivendicare maggiori diritti e migliori condizioni per i lavoratori migranti, perché, come hanno da poco dichiarato: «anche se tutti i lavoratori delle miniere versano la stessa somma al fondo sanitario, i lavoratori migranti ricevono un’assistenza peggiore e le pensioni sono rare».
Eppure, le lavoratrici e i lavoratori sudafricani e migranti stanno andando oltre, creando delle trasversalità da cui anche l’Europa può apprendere molto. Lo dimostra lo sciopero dei lavoratori dell’industria che è stato bloccato poche settimane fa e che avrebbe dovuto coinvolgere molti altri settori lavorativi, miniere comprese, facendo scendere in piazza centinaia di migliaia di lavoratori. L’idea era di produrre uno sciopero da molti punti di vista globale, che sarebbe stato forse il più grande dell’ultimo secolo unendo i lavoratori «contro lo sfruttamento, contro i continui tagli, non solo nel settore bancario, ma anche nella produzione, nell’industria mineraria, nella zona agricola», come Solly Phetoe, il vicesegretario generale del Congress of South African Trade Unions (Cosatu), ha dichiarato ai giornalisti fuori dal tribunale che ha annullato lo sciopero. Ha aggiunto poi che questa mobilitazione è lungi dall’essere annullata, essendo solo stata sospesa per vie giudiziarie. Questo, ha concluso, «è l’inizio della lotta». Certo non la sua fine. Se Ue, Cina e l’élite locale vogliono fare del Sud Africa una nuova frontiera dello sfruttamento, gli scioperi che lo attraversano mostrano che la lotta contro il dominio del capitale è anche qui aperta e pronta a riservare loro spiacevoli sorprese.