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La proposta per un Green New Deal (GND), avanzata a febbraio 2019 dai membri del partito democratico statunitense Alexandria Ocasio-Cortez e Ed Markey, è stata recentemente ripresentata dal candidato democratico Bernie Sanders. Il nuovo piano prevede un investimento di 16.300 miliardi di dollari per raggiungere il 100% di energia sostenibile per l’elettricità e il trasporto entro il 2030 e decarbonizzare completamente l’economia al più tardi entro il 2050. Il primo passo verso questo obbiettivo consisterebbe nel ridurre del 45% le emissioni di gas serra nel prossimo decennio e di arrivare a zero emissioni per il 2050: questo punto è stato anche il focus del Climate Action Summit 2019 dell’ONU svoltosi il 23 settembre a New York, che però è stato boicottato da Trump.
Uno dei punti innovativi del GND proposto da Sanders, e che invece non era menzionato nella proposta di Ocasio-Cortez e Markey, è quello di comprendere misure volte a frenare la produzione di combustibili fossili, proponendo un divieto di importazione ed esportazione di petrolio e gas e tassando i permessi di trivellazione sui terreni pubblici. In questo modo, il GND di Sanders mirerebbe a riconoscere la responsabilità storica degli Stati Uniti nell’emissione di sostanze nocive nell’atmosfera e, conseguentemente, a impegnarsi a frenarle tramite la creazione di agenzie pubbliche per la ridistribuzione di energia pulita. Si tratterebbe anche di assumersi «l’obbligo di aiutare le nazioni meno industrializzate a raggiungere i loro obiettivi, migliorando al tempo stesso la loro qualità di vita», attraverso lo stanziamento di 200 miliardi di dollari al Green Climate Fund, la restipula dell’Accordo di Parigi e la «riaffermazione della leadership degli Stati Uniti nella lotta globale contro il cambiamento climatico». Questo punto ha generato un forte sostegno internazionale al GND, facendolo percepire come un progetto anticapitalista. Di conseguenza, un gruppo di associazioni – tra cui Finanza Etica – e singoli, tra cui spiccano esponenti dei verdi, di Diem25 e del movimento Fridays for Future, ha lanciato ad agosto 2019 la proposta per un Green New Deal europeo, le cui linee guida prendono ispirazione dal GND americano.
Tuttavia la proposta di Sanders non va a intaccare minimamente né i trattati di libero commercio – come l’USMCA (ex NAFTA) e l’Andean Trade Promotion and Drug Eradication Act – né le infrastrutture logistiche che rappresentano il corollario materiale dell’ormai scomparso trattato ALCA (Area di Libero Scambio delle Americhe) – quali l’IIRSA, il CANAMEX e il NASCO: questi sono alla base della proliferazione di maquiladoras, enclaves e zone economiche speciali nei paesi latinoamericani in cui la legislazione del mercato del lavoro e le norme ambientali consentono maggiore autonomia alle industrie estrattive e processi di delocalizzazione. Inoltre, sebbene ponga l’eradicazione dei combustibili fossili come un obbiettivo primario, il GND non tiene conto del business dei biocombustibili che, per quanto producano minime emissioni di CO2 nell’atmosfera durante la combustione, sono una delle principali cause di deforestazione, di espansione di monoculture in aree non agricole o in aree protette e di agflazione. Infine, puntando all’incremento in energie rinnovabili, fornendo addirittura prestiti per le famiglie e le piccole imprese per l’acquisto di veicoli elettrici, il GND non considera né il costo sociale della produzione di energie rinnovabili, né i circuiti transazionali del capitale che alimentano politiche estrattive in paesi come Argentina, Cile e Bolivia dove giacciono l’80% delle riserve mondiali di litio, la principale materia prima per la produzione di veicoli elettrici.
Allo stesso modo, pur affermando che è necessario attuare una transizione ecologica che non si trasformi in un’esportazione dell’inquinamento in altre parti del mondo, il progetto per un Green New Deal Europeo evita di menzionare l’accordo commerciale siglato il 28 Giugno 2019 tra UE e MERCOSUR, che ha fra i suoi obbiettivi quello di innalzare del 30% le importazioni di carne bovina proveniente dai paesi del MERCOSUR (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay), incrementando così quell’allevamento intensivo che non solo è tra le cause dei recenti incendi divampati in Amazzonia, ma è anche responsabile del 18% delle emissioni totali di gas serra, secondo i dati FAO (Food and Agricultural Organization).
Presentando come soluzione alla crisi ambientale il protagonismo degli Stati nell’amministrazione delle risorse ambientali e dell’energie rinnovabili, insomma, né la proposta di Sanders né quella per un Green New Deal Europeo tengono conto delle dinamiche transnazionali di produzione e riproduzione del capitale. Per evidenziare queste dinamiche, è utile analizzare le cause e le conseguenze degli incendi in Amazzonia, partendo però dal contesto boliviano anziché da quello brasiliano. È infatti nota e indiscutibile la responsabilità del governo Bolsonaro nella deforestazione dell’Amazzonia. Oltre ad aver dichiarato durante il Climate Action Summit che l’Amazzonia è patrimonio nazionale e non dell’umanità, egli è riuscito anche a provocare in soli otto mesi la perdita di 2.273 km quadrati di foresta, tra disboscamento illegale e incendi. Meno note ma altrettanto rilevanti sono invece le dinamiche che hanno provocato gli incendi in Bolivia, paese il cui partito al governo – il MAS (Movimiento al Socialismo) – si definisce socialista e indigenista, e il cui presidente Evo Morales porta avanti da anni una retorica ambientalista e anticapitalista basata sulla strumentalizzazione di valori indigeni. Anche al Climate Action Summit, infatti, egli ha dichiarato che è necessario porre fine all’economia capitalistica per difendere la Madre Terra, ma questa posizione non si è mai tradotta in azioni concrete volte a frenare lo sfruttamento intensivo delle risorse boliviane.
Il caso boliviano è esemplare perché mostra come il GND non solo non è applicabile universalmente, ma può anche avere ripercussioni negative nel continente latino-americano, dove negli ultimi anni si è imposto un nuovo ordine politico-economico che ha trasformato il Washington Consensus dei neoliberali anni ‘90, basato sulla valorizzazione finanziaria, in quello che Maristella Svampa ha chiamato il Commodities Consensus, basato sull’esportazione di beni primari su larga scala. Questo nuovo assetto, dovuto principalmente al boom dei prezzi internazionali delle materie prime e dei beni di consumo sempre più richiesti dai paesi centrali e dalle potenze emergenti come la Cina, ha portato i paesi latinoamericani a cambiare il modello di accumulazione tramite la riprimarizzazione delle loro economie in favore del mercato internazionale: in questo modo, anche se si è registrato un aumento delle riserve monetarie, queste non sono state riutilizzate per promuovere un sistema di welfare a favore della popolazione, nemmeno dai governi più progressisti del subcontinente. Al contrario, quelle riserve sono state reinvestite in megaprogetti estrattivi e agricoli, che hanno generato nuovi differenziali di potere e nuove disuguaglianze nei paesi latinoamericani, andando a colpire soprattutto i territori indigeni.
In Bolivia il paradigma di crescita attuale è totalmente basato su progetti di mega-mining, produzione di idrocarburi e biocarburanti e agricoltura intensiva, tutto per l’esportazione su larga scala. Ed è proprio l’espansione della frontiera agricola, che secondo il Plan de Desarrollo Económico y Social approvato nel 2015 da Morales dovrebbe passare da 3,5 a 4,7 milioni di ettari entro il 2020 e arrivare addirittura a 10 milioni di ettari entro il 2025, una delle cause principali degli incendi che dal 5 di agosto 2019 continuano a divampare nelle zone della Chiquitanía, del Chaco e dell’Amazzonia boliviana. Secondo l’ultimo rapporto del FAN (Fundación Amigos de la Naturaleza), gli incendi sono arrivati, al 25 settembre, a distruggere circa 5,3 milioni di ettari – la stessa estensione dell’intero Costa Rica – danneggiando ben 30 tra riserve naturali e aree protette. La causa scatenante è stato il Decreto 3973, emanato da Morales appena un mese prima dell’inizio dei fuochi, che autorizza il disboscamento tramite incendi controllati nei dipartimenti di Santa Cruz e Beni per lo sviluppo di attività agricole su terreni privati e comunitari. Alle spalle di questo decreto vi sono però altre due leggi che legalizzano il condono degli ettari deforestati senza autorizzazione tra il 12 luglio 1996 e il 31 dicembre 2011 – per un totale di 1.582.807 ettari – e il disboscamento fino a venti ettari in proprietà private, comunitarie o collettive in via di risanamento o legalmente costituite con delibera di autorizzazione, per favorire lo sviluppo di attività agricole su tutto il territorio nazionale. Queste leggi, così come il conseguente ampliamento della frontiera agricola, si inseriscono all’interno di un più vasto piano economico promosso dal MAS volto all’intensificazione delle relazioni economiche tra Cina e Bolivia. Queste sono iniziate ufficialmente a fine 2015, quando il vicepresidente boliviano A. García Linera ha contratto il maggior debito del paese con la Cina – 7,5 miliardi di dollari, pari al 17% del PIL della Bolivia – per finanziare un ambizioso programma di megaprogetti nel paese – tra infrastrutture, dighe idroelettriche e miniere – che però è totalmente vincolato all’esecuzione da parte di imprese cinesi. Ciò ha significato un forte deterioramento delle condizioni lavorative e dei diritti dei lavoratori locali assunti per la realizzazione di tali opere e la violazione delle norme ambientali boliviane. Nell’agosto 2017 i due paesi hanno dato avvio a nuovi accordi strategici per regolamentare la vendita al mercato cinese di prodotti boliviani come soia, carne e quinoa. A dicembre 2018 si è concluso il primo accordo commerciale che ha significato l’invio di 40 tonnellate di quinoa allo Stato asiatico. A marzo 2019, invece, Evo Morales ha approvato un negoziato per introdurre la semina di due nuove varietà di soia transgenica e per incrementare di 250.000 ettari il territorio agricolo riservato alla sua produzione – facendolo passare da 1,3 a quasi 1,6 milioni di ettari –, avendo come obbiettivi da un lato quello di arrivare a produrre 100 milioni di litri di combustibile vegetale all’anno e, dall’altro, quello di aprirsi al mercato principale per la soia, ovvero la Cina, che ne richiede ogni anno circa 90 milioni di tonnellate, pari al 65% delle importazioni mondiali. Infine, il 26 aprile 2019 il ministro degli Esteri boliviano Diego Pary e il ministro delle dogane cinese Ni Yuefeng hanno siglato un accordo che ha aperto le porte all’esportazione di carne bovina boliviana verso la Cina, prevedendo di arrivare ad esportarne 117.000 tonnellate annue entro il 2025.
Infine, per assicurarsi che la produzione agricola non calasse, il MAS ha basato sulle clientele il sistema di redistribuzione delle terre, gestito dall’INRA (Instituto Nacional de Reforma Agraria): secondo i dati INRA forniti nel marzo di quest’anno, più di 1.400 assegnazioni di terra sono state approvate nel paese tra il 2013 e il 2018, di cui 900 nella zona della Chiquitanía – nel dipartimento di Santa Cruz in cui sono iniziati gli incendi –, e il restante 500 diviso tra gli altri dipartimenti. Tuttavia, da un’indagine della Fundación Tierra risulta che queste assegnazioni non hanno seguito una politica di redistribuzione in favore della popolazione povera delle zone rurali boliviane, così come stabiliscono i principi della Riforma Agraria, ma hanno seguito gli interessi del settore agricolo boliviano affine al MAS. Gran parte del terreno fiscale disponibile è stato assegnato a persone che vivono in aree urbane o a comunità campesinas dell’altopiano boliviano – storicamente sostenitrici del MAS – ricollocandole nella parte orientale del paese, violando così l’articolo 43 della Legge 1715 di Riforma Agraria che stabilisce che la redistribuzione di terreno fiscale deve favorire le comunità indigene e campesinas senza terra e che già risiedono nel dipartimento in cui si trova il lotto da assegnare. In questo modo il MAS è riuscito in un solo colpo ad assicurarsi sia una solida base elettore nel dipartimento di Santa Cruz ‒ una zona storicamente contraria al suo governo –, dato che le assegnazioni sono vincolate all’iscrizione al collegio elettorale del dipartimento di ricollocazione, sia un maggiore controllo della produzione agricola e delle risorse nella zona. Queste misure corrispondono dunque a un interesse politico da parte del governo a continuare a mantenere il potere territoriale in diversi dipartimenti, anche considerando che a breve, il 20 ottobre 2019, Morales dovrà affrontare le elezioni presidenziali che lo vedono ricandidarsi per la quarta volta, nonostante la costituzione lo proibisca e nonostante il voto contrario alla ricandidatura espresso dalla popolazione tramite referendum il 21 Febbraio 2016. Ed è per questo motivo che Morales non ha ancora dichiarato il «Disastro Nazionale», malgrado la Bolivia sia colpita ininterrottamente dagli incendi da più di due mesi, e si rifiuta di accettare gli aiuti internazionali per spegnere i fuochi: accettare la situazione e porvi rimedio significherebbe infatti ammettere la sconfitta, dimostrando al mondo intero le varie contraddizioni nascoste dietro la retorica socialista e indigenista del suo governo.
Il caso boliviano rende così evidente la non universalità del Green New Deal che, pur presentandosi come un progetto anticapitalista, non fa i conti con i differenziali di potere che andrebbe a rafforzare ridefinendo i movimenti del capitale industriale e finanziario e ristrutturando la produzione sociale del capitale. Sebbene il disinvestimento nei combustili fossili proposto dal piano porterebbe a una drastica riduzione delle emissioni di CO2 nell’aria, raggiungendo i parametri stabiliti nell’Accordo di Parigi, esso porterebbe allo stesso tempo un incremento dei processi di sfruttamento del suolo nei paesi esportatori di materie prime, ovvero sia danni ambientali causati dal disboscamento e dalla perdita della biodiversità in zone ecologicamente importanti, sia la messa a rischio delle condizioni materiali di esistenza delle popolazioni colpite da questi processi, modificando la loro economia di sussistenza attraverso l’espansione della monocultura e intensificando il comando del capitale sul lavoro in questi territori.