Mi-en-leh insisteva sempre sulla radicalità e l’audacia sovversiva dei dominatori. – Guardate un po’, – diceva, – che rischi affrontano, come infrangono tutte le convenzioni e abbandonano i loro beni più sacri, come non risparmiano se stessi quando si tratta di fare dei sacrifici per ottenere dei vantaggi o arginare delle perdite. Imparate da loro come si domina.
Me-ti insegnava: I rivolgimenti avvengono nei vicoli ciechi.
(Bertolt Brecht)
Matteo Salvini ha perso le elezioni europee. Ciò non significa che qualcun altro le abbia vinte, ma Salvini le ha sicuramente perse. Il suo strapotere in Italia non è destinato a diminuire nel breve periodo, ma la sua spallata all’Europa si è risolta in un fallimento per la frammentazione del fronte sovranista e il misero pareggio di Madame Le Pen in Francia. Questa è una prima indicazione politica che questa fase ci consegna: il sovranismo in un paese solo è semplicemente impossibile. Ha bisogno di legami internazionali e quando non riesce a stabilirli deve sottostare a vincoli altrettanto internazionali. Costo economico della sconfitta: svariati miliardi per una correzione di bilancio passata tanto rapidamente quanto silenziosamente. Costo politico: la dimostrazione che il sovranismo non è, e non può essere, la riabilitazione della pura politica, ma deve trovare necessariamente un accomodamento con le leggi ferree del capitale. Per questo da tempo diciamo che il sovranismo è il populismo del capitale che, alimentando l’illusione della patria contro l’Europa e i migranti, promette inutilmente di restituire agli individui pezzi di sovranità sulle loro vite, investite da trasformazioni globali che hanno colpito duro salari e welfare. La materia di questa illusione è l’arbitrio del padrone al quale non sono sottoposti solo i migranti, ma anche la stragrande maggioranza di coloro che si aspettano una liberazione nazional-patriottica.
L’elezione di Ursula von der Leyen ha certificato la sconfitta di Salvini, ma non per questo si può parlare di una vittoria dell’Unione Europea. Lo specifico piano sovranazionale che l’UE pretende di imporre non è infatti l’alternativa al sovranismo. Piuttosto, quando non gli è speculare, esso è la riproposizione delle politiche ordoliberali che hanno prodotto la crisi, l’austerità e riconosciuto la centralità degli Stati nazionali dentro all’Unione. Di fronte a processi di spossessamento vasti e trasversali, la nuova direzione dell’UE riconosce solo a parole l’insufficienza dell’austerity, mentre cerca disperatamente di imporre un ordine nuovo per rassicurare – con le parole di von der Leyen – la pensionata irlandese che deve districarsi con il mobile banking, l’operaio polacco che dopo vent’anni di lavoro deve seguire corsi di formazione per mantenere il posto, l’agricoltore che deve fare i conti con i cambiamenti climatici, le piccole e medie imprese impegnate nell’innovazione che subiscono la concorrenza sleale di giganti e nani del capitale, che spesso non pagano le tasse e sempre pagano il lavoro con un salario minimo. A parole la soluzione dovrebbe essere quella di ricompattare sul piano istituzionale un’Europa decomposta dalla crisi e affetta da nostalgie per lo Stato-nazione, rivolgendosi a quei soggetti che a ogni latitudine confidano nel sovranismo. Più che un’inversione di rotta rispetto alle politiche precedenti, siamo di fronte a una selezione chirurgica degli interessi economici cui concedere alcuni parziali risarcimenti per aver sopportato i costi della crisi. L’obiettivo non è riesumare una consunta dialettica tra società e istituzioni, che continuano a governare dall’alto di una superiore competenza tecnica un’«economia che lavora per le persone», salvo occultare lo sgradevole fatto che ci sono persone che devono lavorare per l’economia. Qualcuno d’altronde dovrà pur pagare i finanziamenti promessi alle piccole e medie imprese, dato che quello che si spende, tiene a precisare von der Leyen nel suo programma per un’«Unione più ambiziosa», si deve prima guadagnare.
Dal momento che due sconfitte altrui non fanno una nostra vittoria, si tratta di capire quali spazi di iniziativa si possono aprire in questo panorama in cui sovranazionale e nazionale non sempre si oppongono, ma talvolta agiscono contraddittoriamente uno attraverso l’altro. Non ci interessano particolarmente le relazioni tra gli Stati. Se siamo obbligati a guardarle è perché le condizioni di vita, i salari, la libertà di milioni di proletari e proletarie in Europa dipendono da questo gioco di specchi, in cui c’è chi indossa la maschera farsesca del cattivo e chi quella responsabile dell’eroe dell’economia sociale di mercato. Sappiamo che tutti hanno indistintamente a cuore i conti (pubblici) che devono tornare e gli affari (del capitale) che devono girare. E così von der Leyen ha ottenuto il sostegno di due campioni del sovranismo come l’ungherese Orbán e il polacco Kaczynski, ma non quello dei socialdemocratici tedeschi, che in un sussulto di vitalità hanno scelto di procrastinare il loro suicidio in Europa, mentre lo perseguono ostinatamente in patria. Nonostante le minacce di ridurre i finanziamenti a quegli Stati dell’Est Europa che spesso e volentieri fanno a meno dello Stato di diritto, i sovranisti ungheresi e polacchi sanno che nessuno vuole seriamente rinunciare all’integrazione logistica offerta dall’Europa a guida tedesca. Paesi come Polonia e Ungheria non possono fare a meno di attingere ai capitali europei che legittimano materialmente l’esistenza del loro sovranismo feroce. Così come sanno di poter contare sul complice sostegno dell’UE per governare a tutto vantaggio delle imprese, tedesche e non solo, i movimenti dei migranti e lo sfruttamento della forza lavoro autoctona. È il sovranismo, bellezza, e – anche quando viene sbandierato dagli intellettuali di sinistra – non contempla nessuna illuminazione sulla via di Bruxelles per il semplice fatto che è già dentro l’Europa.
Sul terreno dimenticato del salario si giocherà nei prossimi mesi una battaglia politica fondamentale. E questa è una seconda indicazione politica che non possiamo ignorare. Lo sa bene Frau von der Leyen che ha subito promesso l’introduzione di un salario minimo europeo. Presentata come misura per «conciliare sociale e mercato», è evidentemente un sostegno economico a milioni di working poors e pertanto, come il reddito di cittadinanza italiano, non potrà essere semplicemente respinta al mittente. Al tempo stesso, però, i suoi sostenitori sottolineano che ‘europeo’ non significa ‘uguale per tutti’. Si tratta di stabilire una soglia minima da legare a indicatori comuni (quali il salario medio o il PIL pro capite, a seconda delle varie proposte) e spingere così verso un’armonizzazione dei livelli salariali minimi. Mentre nominalmente si prefigge di combattere le disuguaglianze, questa proposta mira a consolidare e istituzionalizzare i differenziali salariali tra paesi, fissando una soglia da cui difficilmente le imprese si distanzieranno, e assicurare le gerarchie di classe e dello sfruttamento. Così inteso, il salario minimo targato UE è la verità dell’economia sociale di mercato. Tanto più che, regolando ma non annullando i differenziali salariali, esso mira a disciplinare indirettamente la mobilità e a sancire la concorrenza come principio d’ordine del sociale a livello europeo. Da Maastricht in avanti, la regolamentazione del salario è stata lasciata alle legislazioni nazionali e alla negoziazione tra le parti sociali. Oggi per la prima volta la Commissione europea si prefigge di intervenire direttamente, consapevole che la riproduzione indiscriminata della povertà si sta rivelando ben più pericolosa di molti vaneggiamenti nazionalistici. Il salario minimo è una risposta ai movimenti che, ai suoi confini interni ed esterni, donne e uomini, migranti hanno messo in atto per conquistare salario e libertà, ma svela anche il punto debole dell’integrazione logistica europea nel suo disperato sforzo di garantire a ciclo continuo la realizzazione dei profitti. Il problema del salario non è semplicemente una faccenda sindacale, ma un punto politico di fondamentale rilievo. All’interno di filiere importanti come quelle di Amazon già circola la richiesta di un salario europeo uguale per tutti, che non sia semplicemente la stabilizzazione delle differenze salariali tra paesi, su cui fa leva Amazon come molte imprese multinazionali per aumentare i profitti, ma uno strumento di comunicazione politica transnazionale capace di far valere una pretesa di uguaglianza attraverso i confini. Questa è un’indicazione politicamente irrinunciabile. Non si tratta di accettare o rifiutare il salario minimo di Frau von der Leyen, ma di forzarlo verso l’alto e soprattutto di farne un terreno di lotta per tutti quegli uomini e quelle donne che ogni giorno riproducono la propria esistenza con salari che sono già minimi, se non infimi, o che si muovono dentro e oltre i confini europei per cercare salari più alti.
Fare del salario europeo uno spazio politico di lotta, senza accontentarsi delle briciole concesse alle esistenze precarizzate, significa attaccare l’ordine europeo sulla base della pretesa di autonomia e mobilità che migliaia di uomini e di donne oppongono alla logica della valorizzazione del capitale. È per questo che il movimento delle e dei migranti rientra a pieno titolo nella partita sul salario. Per la svalutazione sistematica della loro forza lavoro nel momento in cui attraversano i confini, essi sono il salario minimo fatto carne e la sempre più massiccia messa al lavoro di richiedenti asilo e rifugiati ne è la rappresentazione plastica. L’approccio umanitario alle migrazioni che – almeno a parole – l’Europa porta avanti a suon di porti aperti, relocation e corridoi non è uno schiaffo a Salvini. È piuttosto un progetto di governo della mobilità che si aggancia al tentativo di stabilire una più elevata soglia salariale di sussistenza per disinnescare una rabbia sociale che, in assenza di alternative, rischia di prendere la via dei nazionalismi.
Se la lotta sul salario non è una questione solo sindacale, non è nemmeno ovviamente una questione solo nazionale. Non è per il piacere dell’esotismo che da tempo stabiliamo e pratichiamo connessioni transnazionali che si contrappongono sia alle varie versioni del sovranismo sia alla governance sovranazionale. Il punto di vista transnazionale è uno spostamento radicale della prospettiva politica. Dal punto di vista transnazionale appare chiaro che l’Unione europea non agisce secondo il modello degli Stati nazionali. L’integrazione logistica segue strade che quella politica nemmeno può immaginare. Così, anche quando non riesce a imporre delle decisioni politicamente vincolanti, per esempio sui migranti, essa è tutt’altro che immobile o assente. Esiste una costituzione materiale europea che va oltre l’Unione e che riserva a precarie, operai, donne, migranti, studenti, una posizione subordinata che tale deve restare. Essa è l’espressione reale dell’economia sociale di mercato che non solo promette di adeguare gli apparati normativi statali al mantra del «fare impresa» senza troppi vincoli burocratici – leggi soprattutto normative a tutela dei lavoratori e residui di welfare – e con un accesso facile al credito, ma consente all’Europa di proseguire sulla strada dell’integrazione logistica tramite accordi economici e commerciali transfrontalieri. In questo quadro si inseriscono gli association agreement che l’Unione ha già stipulato con Georgia, Ucraina e Moldavia che sono ben più di accordi commerciali, perché stabiliscono un comando politico sul lavoro che comprende tanto una specifica politica dei visti quanto la creazione del famoso ambiente favorevole alle imprese (business friendly environment), cioè lavoro povero, ma facilmente reperibile e soprattutto sempre disponibile. L’Unione Europea non è quella che dice Salvini, non perché più buona o più giusta, ma perché è uno spazio politico che eccede la sua configurazione istituzionale immediata. Solo consolidando una capacità autonoma di attraversare e organizzarsi in questo spazio si potrà individuare una risposta dentro e contro l’Europa che va oltre di essa, oltre il suo corpo molle che si modella sui flussi transnazionali del capitale per tarare i flussi migratori sulle sue esigenze. Rompere i margini dell’Europa, stabilire connessioni transnazionali con i movimenti e le lotte a un passo dai confini europei è una scelta ineludibile per chi non voglia annegare in stanchi dibattiti che si fermano all’uscio di casa. La stessa lotta sul salario è davvero possibile solo aggredendo la complessità di questo spazio. Altrimenti il risultato sarà solamente che l’aumento minimo del salario sarà pagato da chi viene tenuto prudentemente fuori dal confine e che viene fatto entrare solo in caso di stretta necessità.
Solo praticando il terreno transnazionale potremo davvero attaccare l’Europa che abbiamo adesso che, non a caso, è fatta di sfruttamento all’interno e di morti nel mare sotto casa, la responsabilità dei quali ricade più o meno equamente su Salvini e sui suoi necessari nemici. Salvini queste cose le sa, come sa benissimo che con l’affermazione della patria ci rimetteranno tutti quelli che non sono i padroni e i padroncini a vantaggio dei quali vuole sottomettere il meridione d’Italia all’autonomia rafforzata delle regioni settentrionali. L’esito del sovranismo salviniano sarà un’Italia ungherese con tanto di slave law, che si può già intuire dalle misure contro scioperi e picchetti contenute nel decreto Salvini bis. Questa è la verità che la macchina del consenso salviniana deve cancellare, praticando e legittimando forme quotidiane di violenza sociale, razzista e patriarcale. D’altra parte, sarebbe miope confondere l’arroganza di Salvini con un’eccezione: ovunque in Europa il potere statale di punire deve trovare costantemente dei nemici del popolo, che siano migranti o Ong, occupanti di case o del Pantheon di Parigi. E se l’Europa democratica guarda storto Italia e Ungheria, nello stesso tempo plaude all’istituzione dello Stato di polizia quando si tratta di stroncare una minaccia di insurrezione in Francia. Il terrore esagerato di ogni minima traccia di disordine sociale che accomuna i governi europei cela la consapevolezza che lo spazio politico sovrano deve essere delimitato e rinchiuso, pena l’evidenza della sua inconsistenza. Anche per questo la prospettiva transnazionale è fondamentale per forzare i confini angusti di chi pretende di ridurre al silenzio ogni opposizione sociale e che, dopo la dura sconfitta subita dal ministro Fontana a Verona grazie a Non una di meno, sta già pensando di riaffermare la dura legge del patriarcato, imponendo nuovamente per decreto cosa possono o non possono desiderare le donne. Il movimento femminista non si è lasciato ingannare da richiami generici a una parità di genere che vale solo per alcune e penalizza altre, a partire dalle donne migranti. Allo stesso tempo, esso ha colto forse per primo la necessità di connettere azione locale e analisi transnazionale e questa è una sua specifica forza, che si afferma in modo espansivo e tutt’altro che simbolico con lo sciopero femminista globale. D’altra parte, la riproduzione sociale da tempo non è chiusa dentro le mura domestiche e la sua contestazione radicale può avere solo un carattere globale.
Proprio ora che ogni cosa pare finire in un vicolo cieco, dobbiamo trovare la forza e l’intelligenza per spostare radicalmente il piano su cui combattere chi pretende di occupare ogni spazio. Essere radicali come la realtà significa per noi riconoscere i nostri limiti, mentre cerchiamo tutte le occasioni che essa ci offre per non arrenderci all’arroganza dei dominatori.