di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM
Questo testo è stato pubblicato in vista del prossimo meeting della Transnational Social Strike Platform, che si terrà il 28-30 giugno a Tiblisi. → Leggi il programma del meeting e la call.
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Il meeting del TSS, che si svolge dal 28 al 30 giugno a Tiblisi in Georgia, è la prima assemblea della piattaforma al di fuori dei confini dell’UE. Andiamo a Tiblisi mentre la città è scossa da una sollevazione contro il Parlamento. Le ragioni di questa ondata di protesta hanno a che fare con una insoddisfazione nei confronti del governo che prende la forma di un’offesa all’orgoglio nazionale, mentre i partiti di opposizione soffiano sul fuoco dei sentimenti anti-russi diffusi nel paese. Come TSS, al di là dell’orgoglio nazionale e delle interpretazioni geopolitiche, vediamo la necessità di inserire la situazione in un quadro transnazionale, e di affermare che la geopolitica e i sentimenti nazionali sono sempre più utilizzati per coprire la natura reale dei conflitti sociali, in Georgia come altrove. Davanti al capitalismo globale, un cambiamento radicale può passare solo per il riconoscimento della dimensione transnazionale in cui viviamo, per un rifiuto delle facili alternative e per la costruzione di una prospettiva autonoma capace di indicare nemici e alleati degli interessi dei lavoratori, uomini e donne, cittadini e migranti. È evidente che la strumentalizzazione in atto unisce i presunti nemici: i neoliberali favorevoli alle riforme «occidentali», i nazionalisti conservatori, gli interessi stranieri e i loro sostenitori locali hanno tutti lo scopo di impedire che lo scontento dei lavoratori diventi una lotta transnazionale contro sfruttamento, precarietà e impoverimento. Con questo meeting vogliamo affrontare la necessità di inquadrare diversamente la dimensione transnazionale, anche per fare i conti con le questioni che si nascondono dietro la rivolta nelle strade di Tiblisi e per costruire una prospettiva politica autonoma.
Sin dall’inizio abbiamo insistito sulla necessità di superare le abituali mappe politiche dei movimenti sociali e del lavoro per renderci conto della dimensione transnazionale in cui viviamo e in cui dobbiamo lottare. Questo ci ha portati a essere particolarmente attenti agli sviluppi dell’Est europeo, dove negli ultimi trent’anni sono state sperimentate le politiche neoliberali, le ristrutturazioni industriali e la precarizzazione del lavoro. L’inclusione di questi paesi nelle catene produttive europee e globali, la loro integrazione nell’UE e la mobilità del lavoro li hanno resi cruciali per qualsiasi progetto politico che ambisca a cambiare lo stato presente delle cose. Le stesse motivazioni ci hanno portati nei Balcani, seguendo il movimento dei migranti dopo la «crisi» dei rifugiati nel 2015. Al di là dell’alternativa tra europeismo neoliberale ed europeismo sociale, da una parte, e anti-europeismo nazionalista dall’altra, il progetto TSS non vede l’Europa come il proprio orizzonte esclusivo, ma come il primo spazio transnazionale di lotta. Con il meeting in Georgia, il TSS aggiunge altri elementi alla forza collettiva transnazionale di cui abbiamo bisogno per fare i conti con l’integrazione logistica del lavoro e della società, e per rispondere al loro impatto sulla possibilità di scioperare e di organizzarsi.
Dopo la crisi del 2008, le politiche di privatizzazione, precarizzazione e tagli al welfare che hanno riguardato l’Est durante la transizione si sono diffuse a tutti i paesi europei con pesanti conseguenze sulla capacità di lottare per condizioni migliori. Senza dimenticarne le differenze, abbiamo discusso il filo rosso che lega il Jobs Act italiano, la Loi Travail francese e le ordinanze di Macron, la legge contro lo sciopero in Svezia, l’Hartz IV in Germania e i numerosi attacchi contro i sindacati di base. Abbiamo compreso come i tagli al welfare siano una realtà in tutta Europa e come pongano nuovi problemi su come formulare le nostre domande e su come rivolgerci allo Stato. Abbiamo indicato il modo in cui le forze politiche anti-immigrazione e il razzismo istituzionale contribuiscano allo sfruttamento strutturale del lavoro migrante, e come il discorso contro i migranti e nazionalista operi per precarizzare ulteriormente il lavoro e mantenerlo asservito al giogo dei padroni e dei politici. Abbiamo riconosciuto nella crescente mobilità uno dei principali strumenti usati dai lavoratori per scioperare con i piedi, per cambiare la propria condizione e cercare salari migliori. Abbiamo seguito le sollevazioni delle donne che hanno radicalmente contestato i pilastri patriarcali della produzione e riproduzione sociale.
Questi cambiamenti si sono accompagnati a un fondamentale slittamento nel modo in cui le istituzioni e gli Stati funzionano, con la crescente centralità dei governi rispetto ai parlamenti e con l’emergere del nazionalismo. A questo proposito, ciò che è successo negli Stati dell’Est dell’allargata UE è stato il segno di una trasformazione generale. Questo non comporta che l’UE sia oggi uno spazio omogeneo: al contrario, l’integrazione logistica europea funziona sfruttando le differenze economiche e sociali tra paesi. Questo sfruttamento si sta ora allargando al di là dei propri confini istituzionali, verso un «Est dell’Est» che aiuta a bilanciare l’instabilità politica dell’Est europeo e fornisce nuove aspettative di profitti e lavoro a basso costo. In questo senso, le trasformazioni che stanno investendo la Georgia come paese post-sovietico e come passaggio cruciale tra Europa e Asia, insieme alle lotte che lì stanno emergendo, ci pongono nuovi interrogativi e nuove sfide.
Dal 2014 la Georgia è collegata all’UE tramite un Association Agreement che dice molto sul modo in cui l’attuale integrazione logistica europea si sta realizzando e rivela la profonda trasformazione dell’UE come progetto politico. L’Agreement contiene una serie di regole che la Georgia deve adottare per avere rapporti economici previlegiati con l’UE. Esso è stato presentato come la promessa di un migliore futuro democratico, e l’UE come il regno di diritti e di un benessere che garantirebbero un progresso civile e continuo, un’alternativa alle brutalità del passato socialista e a quelle della dura deregulation degli anni Novanta e dei primi Duemila. Inoltre, la Georgia è presentata come un ideale paese di collegamento tra grandi mercati, come una potenziale riserva di lavoro a basso costo e come un perfetto sito per l’industria del turismo. Di conseguenza, tutti gli sforzi devono concentrarsi sull’essere pronti a questa incerta prospettiva di integrazione, in nome della quale è legittimato ogni tipo di sacrificio. L’Association Agreement è così usato come uno strumento per disciplinare e placare i tentativi di sollevare critiche sulle condizioni di questa integrazione e di questo «sviluppo», anche in settori che non sono materialmente inclusi nei circuiti transnazionali. Questo accordo si accompagna quindi a un attacco al diritto di sciopero e a un progetto politico di disciplinamento dei lavoratori insubordinati. E questo si applica a lavoratori e lavoratrici di tutti i settori, inclusi quelli pubblici, dei trasporti e dei servizi. Come abbiamo visto altrove, e come hanno mostrato i lavoratori della metro in sciopero a Tiblisi lo scorso anno, il problema è come praticare lo sciopero in condizioni che cambiano e come superare le costrizioni legali tramite cui lo sciopero è limitato e reso inefficace.
In Georgia la realtà è lontana dall’immagine che ne forniscono lo Stato georgiano e l’Unione Europea: sta montando in diverse forme un’insofferenza contro il progetto di trasformare il paese in un «fornitore di servizi» senza alcuna voce in capitolo e alcun potere. Diverse lotte stanno emergendo, nonostante la retorica dello sviluppo e gli attacchi contro le condizioni di vita e di lavoro: dallo sciopero dei minatori alle proteste contro le centrali idroelettriche che devastano il paese, dagli scioperi dei lavoratori della metro, delle infermiere e del settore dei servizi sociali fino alla manifestazione delle donne l’8 marzo. Ognuna di queste lotte affronta diversi aspetti, connessi tra loro, dell’attacco neoliberale che vuole trasformare i lavoratori georgiani, donne e uomini, in una forza lavoro povera e sfruttabile a piacere dagli investitori, in quanto non potrebbero ottenere più di questo. Mentre questo attacco è presentato come una serie di decisioni prese altrove, la Georgia, lo Stato georgiano e il capitale georgiano sono sempre più collegati con il capitalismo globale. Dietro la lotta per garantirsi influenza, profitti e potere nel paese, si nasconde un’altra posta in gioco: le condizioni dell’integrazione globale del lavoro e della società georgiani.
Mentre le trasformazioni in atto sono globali, le forme di lotta e organizzazione restano prevalentemente settoriali, locali o nazionali. Frammentazione e differenze bloccano la maggior parte dei tentativi di politicizzare le lotte operaie e le lotte sociali al di là delle singole istanze. La domanda è per noi come praticare questo campo di tensione in cui, da un lato, esistono lotte contro aspetti differenti ma legati della trasformazione in atto e, dall’altro, esiste una completa integrazione della Georgia nel mercato mondiale e nei circuiti transnazionali del capitale, degli investimenti e del potere. Noi crediamo che questa domanda sia cruciale sia per le lotte in Georgia, sia per le lotte transnazionali.
Dobbiamo anche comprendere che cosa lo Stato possa fare in questa condizione e che cosa lo Stato abbia fatto per contribuire ad essa. Il sito Invest in Georgia assicura agli investitori stranieri intenzionati ad aprire un’impresa in Georgia che «il salario mensile medio ammonta a 430$», inclusi operai e impiegati, e che «il paese ha un Codice del Lavoro abbastanza flessibile». Di fatto, «la Georgia ha condizioni di lavoro tra le più liberali non solo a livello regionale, ma a livello globale». Negli ultimi decenni, i governi georgiani hanno affermato con insistenza di star trasformando il paese in un «ambiente favorevole agli affari» mentre operavano per smantellare ogni diritto del lavoro e, soprattutto, ogni possibile potere collettivo e autonomo di lavoratori e lavoratrici. Mentre la realtà post-sovietica può dare l’idea di un ritiro dello Stato dalle proprie responsabilità e una svendita delle proprie capacità, lo Stato georgiano sta agendo come uno Stato neoliberale, promuovendo attivamente e proteggendo l’integrazione del lavoro e della società georgiani nel mercato mondiale. Questo emerge chiaramente se si guarda allo sciopero del mese scorso dei minatori a Chiatura, un grande sito di estrazione del manganese. I minatori hanno rivendicato migliori condizioni di lavoro e misure di sicurezza, coinvolgendo l’intera città in uno sciopero sociale che ha fermato tutte le attività, dai negozi, alle scuole e ai luoghi di lavoro. La lotta ha reso evidente che i lavoratori erano messi sotto pressione da diversi agenti: il governo, che considera il sito di estrazione come risorsa nazionale da sfruttare nelle trattative con i capitali stranieri e nel legittimare la propria azione interna; dagli investitori stranieri, che richiedono la salvaguardia degli investimenti; dagli speculatori sui mercati di materie prime; dal capitale finanziario. Mentre il governo ha preso il controllo dell’azienda americano-ucraina che gestiva la miniera, non ha fatto nulla fin qui per migliorare le condizioni di lavoro e per ridurre i carichi di lavoro. Lo sciopero a Chiatura, dove in ultima istanza i minatori hanno visto le proprie richieste soddisfatte, mostra come le promesse di sviluppo possano prendere direzioni inattese: lavoratori e comunità che si rivoltano contro le condizioni di lavoro e le conseguenze ambientali di una attività economica che è al tempo stesso un settore «strategico» per la Georgia, e un campo di sperimentazione per il tipo di integrazione logistica nel mercato mondiale.
Inoltre, nella Valle del Pankisi si è di recente assistito a numerose proteste contro una centrale idroelettrica che aveva lo scopo di garantire autonomia energetica. Dopo che sono esplose le proteste il governo, mentre metteva in pratica una violenta repressione tramite un’operazione speciale di polizia, ha promesso di informare meglio la popolazione sui benefici dell’impianto e sulle sue potenzialità in termini di occupazione. La popolazione locale, tuttavia, sa che per quanto la costruzione dell’impianto possa garantire circa 80 assunzioni, dopo il suo completamento soltanto una manciata di lavoratori sarebbero assunti per la manutenzione, a fronte di danni ambientali irreversibili provocati dallo sfruttamento intensivo del terreno e dell’acqua. Lo stesso vale per alcuni grandi progetti di costruzione legati alla One Belt One Road Initiative: ferrovie, autostrade e infrastrutture collegate sono in corso di costruzione in tutto il paese. Espropriazioni di terra e danni alle risorse naturali sono le normali conseguenze di questi progetti, con lavoratori assunti solo provvisoriamente per le costruzioni e poi licenziati al termine. Questo mostra la necessità di connettere la lotta contro sfruttamento e danni ambientali come facce differenti della lotta contro la costruzione di un ambiente «favorevole agli affari». Praticare la dimensione transnazionale come campo di battaglia significa quindi cercare e creare connessioni autonome tra le lotte, anche quando appaiono improbabili: connessioni tra differenti settori lavorativi, tra differenti paesi che sarebbero divisi da diverse condizioni di lavoro, compresa la divisione sessuale del lavoro e i livelli salariali, connessioni tra chi rimane nel paese e chi emigra all’estero, connessioni tra lavoro produttivo e riproduttivo.
Questo significa riconoscere che la dimensione transnazionale sta già dando forma alla composizione della classe operaia e alle condizioni in cui il lavoro si riproduce. Di fatto, il «labor asset» della Georgia non è limitato ai lavori svolti nel paese, ma anche a quelli svolti all’estero, a causa della crescente mobilità del lavoro. Le politiche migratorie georgiane stanno intensificando l’impiego di forza lavoro migrante al punto che, come scrive il sito Invest in Georgia, «non sono richiesti permessi di soggiorno e i cittadini di 94 paesi possono stare in Georgia senza visto per un anno intero». Questo, ad esempio, ha permesso a molte aziende cinesi di costruire infrastrutture in Georgia impiegando direttamente lavoratori cinesi. Si tratta di un altro aspetto dell’integrazione logistica transnazionale: scambiare forza lavoro a basso costo grazie a differenziali salariali, spesso a spese di chi è maggiormente danneggiato da disoccupazione, povertà e assenza di sicurezza sociale, mentre allo stesso tempo viene frammentato il mercato del lavoro, differenziando le condizioni lavorative e lasciando mano libera ai padroni. Il punto è come perseguire una forza collettiva dietro le differenze e costruire connessioni politiche contro le divisioni nazionali e contrattuali. Questa interconnessione non si limita al campo di lavoro, ma si estende alla riproduzione sociale. Ancora più che gli operai edili o di fabbrica impiegati all’estero, la principale risorsa che la Georgia sembra offrire sul mercato mondiale sono le donne. Più di mezzo milione di donne georgiane lavorano in Europa come lavoratrici di cura o domestiche. Le rimesse che mandano sono parte consistente del PIL e spesso coprono bisogni familiari di base. Il lavoro di cura delle donne rafforza la divisione sessuale del lavoro e connette la Georgia ai paesi dell’Europa occidentale. Mentre le donne sono impiegate, come lavoratrici salariate migranti o come lavoratrici della riproduzione non pagate, per riempire le mancanze del welfare, confermando così che la riproduzione è un fardello delle donne, la privatizzazione del welfare, che in Georgia corrisponde al 90% del settore, ha reso sempre di più i servizi un luogo di lavoro precario e sottopagato, specificamente praticato da donne. Non è un caso quindi che il settore dei servizi sia diventato un terreno di lotta delle infermiere e delle lavoratrici e lavoratori dei servizi sociali, che protestano sia contro le contro le condizioni di lavoro, sia contro la conseguente mancanza di servizi. Al di là del lavorare in condizioni peggiori, la mancanza di welfare aumenta il carico di lavoro riproduttivo e le donne devono essere sufficientemente disciplinate per sopportare questo crescente sfruttamento a casa e al lavoro. Inoltre, grazie a una quasi totale deregolamentazione del business delle gravidanze surrogate e grazie ai prezzi competitivi rispetto ad altri luoghi, le donne georgiane sono tra le prime «fornitrici di uteri» per il mercato internazionale. Questo è un ulteriore esempio di come lo Stato georgiano stia trasformando il paese in un ambiente «favorevole agli affari», pur restando apparentemente inesistente e debole. Come mostrano le manifestazioni dell’8 marzo, un nuovo movimento globale sta contestando l’intreccio tra lo sfruttamento del lavoro e la posizione che le donne sono costrette a mantenere nella società e lungo le catene transnazionali della riproduzione. Questo mostra un altro elemento di una dimensione transnazionale in cui la riproduzione sociale è organizzata sul piano transnazionale e richiede una risposta transnazionale.
Nel cercare un terreno comune di lotta che connetta politicamente forze disperse, noi riconosciamo nello sciopero non solo una pratica da mettere in atto sui luoghi di lavoro, ma un progetto collettivo che connetta differenti forme di rifiuto del comando neoliberale. L’integrazione logistica transnazionale è continuamente attraversata da conflitti, la cui connessione può essere trovata cogliendo in tutta la sua ampiezza il nesso tra condizioni lavorative e condizioni complessive di riproduzione della società, quindi individuando i fili che collegano i conflitti riguardanti accordi istituzionali, le politiche migratorie, la deregolamentazione del mercato riproduttivo, la divisione sessuale del lavoro, la mobilità, i progetti estrattivi e infrastrutturali, in Georgia come altrove. Solo all’interno della dimensione transnazionale potremo sviluppare un potere collettivo autonomo che ci permetta di rifiutare di essere una pedina nelle mani dei padroni e governanti del momento.