di ALONDRA CARRILLO VIDAL
Pubblichiamo la traduzione italiana del contributo dal Cile, uscito il 13 maggio 2019 nel numero speciale di «Viewpoint Magazine», New Dispatches from the Feminist International. A questo link, l’Introduzione al dossier di Cinzia Arruzza, dedicata al movimento femminista negli Stati Uniti.
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Le immagini dell’8 marzo in Cile sono indubbiamente eloquenti ed emozionanti. L’8 marzo è stato una delle mobilitazioni più grandi e significative del periodo post-dittatoriale nel nostro paese e queste immagini costituiscono la prova documentata che il movimento femminista oggi è capace di chiamare in causa una massa sempre più ampia di donne che vengono da realtà e contesti molto diversi. Tuttavia, si potrebbe essere tentati di pensare che questa protesta di piazza e quelle che l’hanno preceduta esprimano un certo spontaneismo. Oppure, che esse siano un mero fatto a partire da cui dovremmo considerare – dall’esterno – le questioni politiche rilevanti che lo riguardano e il loro rapporto con ciò che alcuni chiamano il passaggio al momento della contesa per il potere. In questo articolo vorrei offrire alcuni elementi per dare un’interpretazione diversa di queste immagini, per coloro che le vedono da lontano. Come è possibile comprendere questo processo non in quanto sequenza di momenti isolati in cui una massa inorganica irrompe nelle strade, ma in quanto processo di organizzazione espansivo e dotato di forza autonoma? E come possiamo inoltre capire che è precisamente dentro questo processo che, con tutte le difficoltà del caso, si sta sviluppando una discussione politica sulla costituzione della capacità di produrre e dirigere un’effettiva trasformazione sociale? Per questo, e forse perché nessuna analisi da sola può parlare più eloquentemente della storia che stiamo scrivendo, presenterò un breve riassunto del percorso intrapreso.
Ottobre 2016: dall’Argentina arriva l’eco di un grido di orrore contro l’incessante violenza che costituisce la normalità della nostra vita quotidiana, cosa di cui siamo sempre più consapevoli. Questa volta all’appello rispondono non solo collettivi e gruppi organizzati: migliaia di donne riempiono le strade con una prima manifestazione che esprime tanto un limite quanto un potere – quello di dire «no», di dire «basta».
2017: «femminismo» inizia a essere un termine comune. Le nostre vite quotidiane occupano il centro del dibattito: ci riconosciamo reciprocamente e questo riconoscimento inizia a essere una denuncia e una rivendicazione in ogni organizzazione di cui facciamo parte. Le organizzazioni che non hanno risposto a questa domanda si sono spaccate. Qualcosa ha iniziato a bollire in pentola, pieno di vivace attività, qualcosa di impaziente e intenso. Insieme a questo, è apparsa una forza inesauribile.
Verso la fine dell’anno, è iniziata l’organizzazione dell’8 marzo. Le studentesse hanno fatto un primo appello, a cui hanno risposto decine di compagne. Abbiamo detto: abbiamo speso tanto tempo a denunciare la violenza, mostrandone la centralità nelle nostre vite. Ora è tempo di fare un passo avanti e mettere in questione la posizione di vittime in cui ci troviamo, una posizione molto comoda per quell’ordine che si fonda precisamente su quella violenza. Abbiamo detto: è necessario poter parlare della nostra vita in tutta la sua complessità; di come questa vita è molto peggio per quelle di noi che vivono del proprio lavoro. Allora ci è venuto in mente lo slogan che avrebbe dato un orientamento preciso alla lotta: le donne lavoratrici in piazza, contro la precarizzazione della vita.
In quel momento ci giunge voce della convocazione dello Sciopero Internazionale delle Donne e durante un’assemblea di militanti, dirigenti sindacali, attiviste femministe e donne organizzate nelle comunità decidiamo che le condizioni per dare seguito a quell’appello sono avverse e che rispondere ci richiederebbe qualcosa che ancora non abbiamo: una forza autonoma. A prescindere da ciò, tra di noi facciamo circolare un appello per un 8 marzo diverso: rifiuteremo fiori e regali. Chiamiamo a una giornata nazionale di protesta. È così che inauguriamo l’anno: tre giorni prima che Sebastián Piñera inizia il suo secondo mandato presidenziale, ci riuniamo per dare inizio all’offensiva. Prendiamo di mira il suo governo e tutti coloro che amministrano la precarietà delle nostre vite. E parliamo di razzismo e territorio, di dissenso sessuale e diritti sessuali e riproduttivi, di lavoro e pensioni.
Dopo l’8 marzo 2018, durante cui 28 città cilene hanno risposto a questo appello e 100.000 donne hanno riempito l’Alameda, la strada principale di Santiago, ci siamo incontrate di nuovo. Eravamo decine di compagne femministe, provenienti da spazi distinti: donne che combattevano per i semi, per la casa, per il territorio, per l’educazione, per la salute, il lavoro, le pensioni, contro la violenza, per l’aborto. Volevamo che questo spazio continuasse a esistere e, affinché non fosse soltanto una mostra di belle intenzioni, abbiamo deciso che avesse senso farlo dato che questa volta avremmo davvero risposto all’appello per lo sciopero dell’8 marzo. Abbiamo deciso di darci un anno per lavorarci e che nel processo avremmo sviluppato tre obiettivi: rendere il femminismo trasversale al movimento sociale, ovvero diffondere una prospettiva femminista sull’attività delle organizzazioni sociali e così espandere il vero significato del movimento femminista; dinamizzare le articolazioni tra le distinte organizzazioni e produrre un calendario comune di mobilitazioni contro la precarizzazione della vita. Abbiamo deciso, affinché nessuno potesse dirci per che cosa lottare, di stilare un programma e di organizzare un incontro plurinazionale delle donne in lotta.
Tra l’8 marzo 2018 e l’8 marzo 2019 costruiamo allora un percorso in avanti incentrato sulla nostra capacità di articolare, a partire dal femminismo e dalla forza dei suoi appelli, la sua capacità di portare allo scoperto le nostre vite concrete, quotidiane. A maggio, attraverso il neonato Coordinamento femminista 8 marzo, organizziamo un’assemblea su donne e pensioni: collocato all’interno della cornice delle recenti lotte dei lavoratori contro il sistema della capitalizzazione collettiva e per ottenere un sistema di distribuzione solidaristica e tripartita, sosteniamo che questo nuovo sistema deve riconoscere il lavoro riproduttivo come lavoro e coloro che lo svolgono come lavoratrici. Affermiamo che il lavoro di cura è lavoro qualificato e che la maternità è un mestiere logorante. E per la prima volta formuliamo l’idea di una battaglia per ottenere un sistema di cura unificato come parte della battaglia per la sicurezza sociale. Lo stesso mese inizia un processo che avrebbe diviso il nostro territorio: la lotta contro la violenza e la pratica di denunciarla si riversa sugli spazi educativi, incapaci di fare i conti con questa nuova forma di contestazione politica delle loro strutture, delle loro reti di potere e dell’invisibile politica sessuale dei loro oscuri corsi. A Valdivia, nel sud del paese, studenti e studentesse hanno occupato l’università chiedendo ai suoi organi di smettere di ignorarli e di agire una volta per tutte per accogliere le loro rivendicazioni. La loro azione ha dato vita a un’ondata che si è riversata su tutto il territorio. Le università sono state occupate ed è iniziato lo sciopero, caratterizzato da striscioni e slogan che chiedevano spazi senza aggressioni o abusi, e un’educazione pubblica, non sessista e non mercificata.
Davanti a questo scenario, i media e la destra hanno lanciato un’offensiva, dando visibilità alla protesta al fine di isolarla: il femminismo sarebbe un fenomeno da studentesse universitarie privilegiate, la rivendicazione di coloro che non rischiano niente, un capriccio dell’èlite, qualcosa con cui le donne che «faticano» non potrebbero mai identificarsi. Piñera ha presentato la sua «Agenda delle donne», una serie di fantomatiche misure rimaste praticamente lettera morta, indirizzate in particolare alle donne più agiate.
Un paio di settimane prima della Cuenta Pública, il discorso annuale del presidente sullo stato della nazione, abbiamo tenuto un’assemblea alla Scuola di legge occupata presso l’Università del Cile. Centinaia di donne hanno deciso di organizzare una giornata di protesta il giorno del discorso per dimostrare due cose: che il femminismo non è un movimento elitario e che come donne abbiamo già la nostra agenda politica – sarebbe stata la nostra Cuenta Pública, popolare e femminista.
Il primo giugno la giornata è iniziata con le strade bloccate, cortei in tutto il paese. E verso la fine della giornata si sono tenute assemblee territoriali. Come femministe non eravamo solo in un unico posto, ma in molti luoghi diversi. Dopo questa giornata di azione, si sono aperti nuovi spazi di organizzazione: reti di donne e sindacaliste, nuove assemblee territoriali, cioè quello che avrebbe portato all’organizzazione del primo tentativo di sciopero.
I mesi successivi sono stati pieni di attività e forza. A giugno, in occasione della prima marcia per l’aborto accessibile, libero, sicuro e legale, la nostra presenza in strada si era moltiplicata. Abbiamo fatto nostri i fazzoletti verdi della battaglia argentina per l’aborto, che osservavamo con enorme entusiasmo, e abbiamo stampato su di essi immagini che testimoniavano la lunga storia della lotta femminista nel nostro paese. Nonostante la repressione della polizia abbiamo accompagnato le nostre sorelle argentine nelle piazze durante la loro vigilia dell’8 agosto. Per la prima volta da molto tempo, lo sciovinismo della nostra realtà di provincia intrappolata tra le montagne e l’oceano ha iniziato almeno un po’ ad affievolirsi.
Abbiamo agito per rivendicare la memoria di una storia di lotta che ci portiamo con noi, svincolandoci dalle ricostruzioni legate soltanto al dolore e alla morte e l’abbiamo usata come risorsa che abbiamo chiamato «una memoria per il futuro» – la memoria delle ribellioni e della resistenza, della lotta contro la dittatura e la sua eredità.
A ottobre abbiamo annunciato l’Assemblea plurinazionale delle donne in lotta e l’abbiamo preparata con più di cinquanta assemblee organizzate autonomamente in varie parti del paese. In due giorni, con la partecipazione di 1300 donne da tutto il paese, siamo riuscite a definire il nostro programma strutturandolo su dieci assi, ciascuno di essi con tre rivendicazioni e orientamenti contro la precarizzazione della vita e abbiamo anche definito il nostro sciopero: sarebbe stato uno Sciopero Generale Femminista e abbiamo individuato più di 100 modi di prendervi parte.
Abbiamo proposto differenti tipi di comitati per lo sciopero: organizzati per territorio e settore, per sindacato, per istituzione educative, per ambiente sociale e per orientamento sessuale. Abbiamo creato brigate artistiche e di propaganda per la diffusione del nostro programma, e centinaia di compagne organizzate hanno fatto interventi sullo spazio pubblico che sono stati irreversibilmente incisi nella nostra memoria collettiva.
Settantadue città e comuni in tutto il paese si sono preparati per quella giornata. Le barche trasportavano materiale di propaganda per lo sciopero alle piccole isole nell’estremo sud del paese. Coloro che non lo avevano fatto, quelle che non lo avrebbero mai fatto e le «nessuno» sono scese in piazza ovunque, appropriandosi del femminismo, molte per la prima volta.
Il lavoro che ci prefiggiamo ora è quello di creare sempre più occasioni di diffondere il nostro programma, portarlo in tutti i luoghi possibili affinché possa essere approfondito e ampliato e poi convertirlo in un utile strumento di lotta. In tal modo consolideremo le articolazioni che stiamo costruendo, per confrontarci e superare collettivamente gli ostacoli del burocratismo sindacale cieco alla forza di questo movimento, e per poter imporre la nostra forza. Ci riorganizzeremo internamente e inizieremo a costruire deliberatamente i nostri legami internazionali, convocando un’Assemblea internazionale che coincida con l’incontro dell’APEC (Cooperazione Economica Asiatico-Pacifica) che avrà luogo nel nostro paese. Immagineremo un qualche genere di attività politica internazionale per superare le tappe intermedie e unificare i processi che rendono quelle tappe possibili; per permetterci di sviluppare una battaglia condivisa che accresca il nostro potere effettivo di lottare per un tipo di vita radicalmente differente. Costruiremo la nostra forza di discutere e prendere parte nel dibattito politico che sostiene ogni nostra iniziativa nel passato e nel futuro. Davanti all’importanza della situazione in cui ci troviamo, fronteggiamo la sfida, a volte soverchiante, di non perdere la prospettiva del sentiero che abbiamo intrapreso.
Abbiamo portato avanti questa costruzione, un processo verso il superamento della frammentazione pratica della classe operaia di cui siamo parte, senza nessun altro orientamento se non le nostre intuizioni collettive; ma ci troviamo davanti, necessariamente, le stesse sfide delle generazioni precedenti che si sono organizzate per trasformare la vita in maniera sostanziale. Ciò ci mette innegabilmente in una posizione di responsabilità, a cui ci ha costretto la necessità di provare a dare le nostre risposte e di superare i limiti che la divisione sessuale del lavoro ci ha imposto. Non possiamo farlo da sole. Avremo bisogno di tutti, in ogni angolo del mondo in cui questa forza sta covando, per avanzare sul sentiero inesplorato di questo nuovo momento storico in cui la possibilità di un ordine radicalmente differente sta emergendo.
Ora siamo insieme, ora ci vedono.