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Un’ondata femminista per cambiare tutto

di CINZIA ARRUZZA

Pubblichiamo la traduzione italiana dell’Introduzione al numero speciale di «Viewpoint Magazine», New Dispatches from the Feminist International, pubblicato il 13 maggio 2019.

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Il terzo sciopero femminista transnazionale dell’8 marzo 2019 ha finalmente tolto ogni dubbio sul fatto che ci troviamo nel mezzo di una nuova ondata femminista di portata storica. Con sei milioni di persone in sciopero in Spagna, scioperi generali o astensioni dal lavoro indetti da organizzazioni sindacali in Italia, Argentina e Cile, manifestazioni di massa in diversi paesi tra cui la Turchia e il Messico e una significativa crescita delle mobilitazioni nel Regno Unito, Belgio, e Germania, questo 8 marzo ha mostrato la dinamica espansiva del nuovo movimento femminista. Una crescita che va considerata sotto due aspetti. Il primo è quello che le argentine e altri movimenti femministi latinoamericani hanno definito «trasversalità», ossia la capacità del movimento di diffondersi nella società, attraversando le organizzazioni preesistenti e le lotte più recenti e agendo da catalizzatore per la loro unificazione sotto la bandiera femminista, anti-razzista, anti-capitalista e antimperialista. Una trasversalità che può anche essere letta come un processo di generalizzazione del movimento femminista, che, partendo da un punto di vista specifico (quello del genere e dell’oppressione sessuale e delle identità che ne derivano) è stato in grado di articolare una politica di liberazione che coinvolge tutti, o ‒ per citare lo slogan dello sciopero femminista in Spagna ‒ una politica che mira a «cambiare tutto». Il secondo aspetto riguarda la diffusione transnazionale del movimento, che quest’anno ha visto la presenza di scioperi femministi in nuovi paesi come la Germania e il Belgio e si è ulteriormente diffuso in Asia e in Medio Oriente.

In questo dossier abbiamo chiesto ad attiviste di vari paesi di descrivere i processi e le dinamiche organizzative e politiche che hanno portato allo sciopero femminista nei loro differenti contesti. In particolare, abbiamo chiesto loro di discutere le loro forme organizzative, il loro rapporto con il movimento operaio nel processo di indizione e organizzazione dello sciopero sui posti di lavoro, quale significato la dimensione transnazionale del movimento ha ricoperto per la propria organizzazione e le sfide che ci aspettano di qui in avanti. Questo dossier è tutt’altro che esaustivo, tuttavia vuole fornire un campione significativo delle strategie femministe messe in campo al fine di costruire un primo tassello per l’apertura di una discussione transnazionale tra le attiviste coinvolte in questa nuova ondata femminista. Per questa ragione, continueremo ad aggiornare il dossier con ulteriori contributi provenienti da altri paesi.

I contributi raccolti fino a questo momento mettono in luce una serie di affinità e di differenze tra le varie mobilitazioni. Mostrano anche l’eterogeneità del movimento nei diversi paesi. Gli Stati Uniti, per esempio, sono tra i paesi in cui l’onda femminista non è ancora riuscita a raggiungere una dimensione di massa significativa. Tuttavia, le imponenti women’s marches del gennaio 2017, il successo del – più modesto – primo sciopero internazionale delle donne nello stesso anno, così come l’impatto mediatico del #metoo e del #timesup sono tutti elementi che concorrono a mostrare la presenza di potenzialità per lo sviluppo di un movimento femminista di massa in questo contesto. Come ha messo in luce Tithi Bhattacharya, l’ondata di scioperi che ha coinvolto i comparti di istruzione, servizi alberghieri e sanità, ovvero i settori della riproduzione sociale pesantemente colpiti dalla crisi, suggerisce la presenza di due fattori chiave che caratterizzano la nuova ondata femminista e molte lotte sociali in corso su scala globale: da un lato, una crisi della riproduzione sociale e, dall’altro, il ruolo trainante delle donne nella lotta per la nostra vita. Nondimeno, questi fattori non sono riusciti a saldarsi in un ampio movimento femminista.

È difficile identificare le ragioni precise dello scarso impatto del movimento negli Stati Uniti, ma quantomeno è possibile indicare alcuni fattori che hanno giocato un ruolo significativo. Dopo la partecipazione inaspettata e senza precedenti di diverse centinaia di migliaia di persone nelle varie manifestazioni in tutto il paese nel gennaio 2017, la Women’s March è diventata l’ovvio punto di riferimento per la «resistenza» femminista all’amministrazione Trump. Circa 650 marce si sono svolte in varie città, con una partecipazione totale stimata di quattro milioni di persone, forse la più grande manifestazione nella storia degli Stati Uniti. Tuttavia, piuttosto che promuovere un’auto-organizzazione e partecipazione dal basso caratteristiche delle esperienze descritte in questo dossier, la Women’s March si è strutturata come un’organizzazione no-profit. Nelle parole di Keeanga-Yamahtta Taylor, «le organizzazioni no-profit […] fanno affidamento su finanziamenti esterni per pagare personale e attivisti, trasformando così in “lavoro” la loro partecipazione a gran parte delle iniziative in cui sono coinvolti». Questo modello senza scopo di lucro «dà la priorità alla competenza e all’esperienza degli attivisti di professione, del direttore esecutivo e del comitato di supervisione e non al pubblico a cui in genere si chiede solo di partecipare alle azioni». Il focus top-down di molte di queste organizzazioni ha perciò effetti negativi sul coinvolgimento dal basso. Taylor continua:

Ciò che non è chiaro è come e dove le persone coinvolte nelle azioni possano svolgere un ruolo attivo nel definire la politica, la strategia e la tattica dei movimenti che sono chiamati a popolare ma non a dirigere. Questo approccio concepisce il pubblico come un soggetto passivo, in attesa di ordini, mentre la dinamica di costituzione del movimento è delegata a un gruppo professionale di attivisti e organizzatori.

Inoltre, nel 2018, la Women’s March Inc. ha preso la sciagurata decisione di spostare la propria iniziativa dalla mobilitazione di massa e dalla protesta sociale (nelle strade, nelle comunità e nei luoghi di lavoro) all’arena elettorale. Lo slogan principale della Women’s March del 2018 recitava «Potere alle urne!», sostenendo cioè l’idea che per la resistenza a Trump fosse giunto il momento di passare dalle strade ai seggi elettorali, una mossa tra l’altro incoraggiata dal loro diretto contributo all’elezione di candidate progressiste tra le file del Partito Democratico nelle ultime elezioni di midterm. L’intento esplicito delle organizzatrici della Women’s March Inc. era di trasformare la potenza espressa nelle marce in «potere politico», cioè nella capacità di definire l’agenda di un gruppo chiave di rappresentanti progressiste. Di conseguenza, la maggior parte delle energie che si erano manifestate nella Women’s March sono state indirizzate nelle campagne elettorali. Per dirla senza mezzi termini, l’elettoralismo ha contribuito a ridimensionare la possibilità di sviluppo di un movimento di massa. A peggiorare le cose, l’establishment del Partito Democratico ha ripagato l’attivismo elettorale della Women’s March prima attraverso una virulenta campagna mediatica contro il presunto antisemitismo delle sue organizzatrici e, successivamente, ritirando il sostegno del Democratic National Committee. Questa campagna mediatica è riuscita produrre una disillusione di massa rispetto alla Women’s March Inc., oltre che una vera e propria smobilitazione, portando alla cancellazione di diverse marce originariamente programmate per il gennaio 2019 e a una partecipazione molto più modesta a quelle che si sono riuscite a tenere.

In un contesto dominato dalla visibilità pubblica della Women’s March e di altre organizzazioni femministe tradizionali, l’International Women’s Strike US, assieme ad altre organizzazioni e reti di base socialiste e femministe, ha cercato di ripoliticizzare l’8 marzo, organizzando presidi e manifestazioni, creando le condizioni per le astensioni sui posti di lavoro e diffondendo le analisi e le esperienze pratiche del movimento femminista provenienti da altre parti del mondo. Organizzare l’8 marzo sotto l’ombrello dello sciopero femminista ha richiesto, inoltre, di fronteggiare un’ulteriore difficoltà, ovvero il costante declino del sindacalismo e degli scioperi, causato da leggi proibitive e dall’orientamento imprenditoriale della maggior parte dei sindacati più importanti – un declino interrotto dall’ondata di scioperi della primavera del 2018. Mentre in paesi come l’Italia o la Spagna alcune organizzazioni sindacali hanno accettato di indire lo sciopero generale o delle astensioni temporanee dal lavoro e sono riusciti a realizzarle, negli Stati Uniti questa possibilità è stata esclusa fin dall’inizio.

Nonostante ciò, in un contesto transnazionale caratterizzato da una crisi della riproduzione sociale e dalla crescente militanza delle donne e dei soggetti queer, e in un contesto nazionale segnato da un’onda di scioperi sostenuti soprattutto dalle lavoratrici e dalla radicalizzazione politica di una nuova generazione di attivisti, le potenzialità per un movimento femminista di massa sono tutt’ora aperte. Realizzare queste potenzialità richiederà un approfondimento delle discussioni tra le attiviste femministe sulla strategia, ma, soprattutto, la volontà di imparare dai processi organizzativi e politici che si svolgono in altri paesi.

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