lunedì , 18 Novembre 2024

Tempi interessanti e difficili. Il Green New Deal e la lotta di classe negli USA

di FELICE MOMETTI

Tempi interessanti, ma anche molto difficili alla sinistra del Partito Democratico americano. L’International Socialist Organization (ISO) è crollata come un castello di carte e ha deciso l’autoscioglimento. La maggiore organizzazione di matrice trotskista degli Stati Uniti è stata travolta dalle denunce di molestie sessuali e stupro da parte di alcune attiviste. Una volta scoperchiato il vaso di Pandora, a queste denunce si sono aggiunte quelle di episodi di razzismo interno. Nella sinistra radicale si è aperta una discussione sul sessismo e sul razzismo ‒ spesso celati dietro una linea politica formalmente molto rigida ‒ che è andata oltre la squallida vicenda dell’ISO. Ora si tratta di vedere se questa discussione approderà a una reale svolta nel modo di concepire i rapporti tra politica, organizzazione e relazioni interne in quell’area politica, ma non solo. Il nodo da affrontare riguarda il rapporto che si è dato tra l’agitare pubblicamente una democrazia conflittuale autorganizzata contro il dominio capitalistico, e allo stesso tempo riprodurre al proprio interno gerarchie e tipologie del medesimo dominio. Gli esiti finali, allo stato attuale, non sono prevedibili. Per ora, quel che si vede, è un passaggio di militanti dell’ex-ISO verso i Democratic Socialists of America (DSA). Questi, infatti, occupano gran parte del campo alla sinistra del Partito Democratico dopo che un settore, soprattutto giovanile, li ha considerati come l’approdo naturale dopo le primarie presidenziali di Bernie Sanders. La crescita accelerata a tratti tumultuosa, da circa 6 mila aderenti agli oltre 50 mila in due anni, ne ha stravolto le strutture organizzative, l’immagine politica e l’insediamento sociale. I DSA sono stati visti come uno spazio politico aperto anche da settori anarchici, dall’area politica legata alla rivista «Jacobin» e da attivisti che hanno alle spalle l’esperienza del movimento Occupy che, con l’esaurirsi di quel movimento, si erano dedicati a un intervento politico su base locale e settoriale.

Il risultato ottenuto dai DSA nelle elezioni di medio termine dello scorso novembre ha un valore più simbolico ‒ due eletti su 435 alla Camera dei Rappresentanti e una quindicina su più di 2 mila nelle assemblee rappresentative dei singoli Stati ‒ che reale. Dopo svariati decenni nelle istituzioni americane c’è un gruppo di eletti che si dichiara apertamente socialista. Attenuato l’entusiasmo, non sempre giustificato, del dopo elezioni, ora si deve verificare socialmente una linea politica e una proposta organizzativa. Intanto le adesioni, negli ultimi mesi, hanno subito un significativo rallentamento e l’approssimarsi della Convention dei DSA di agosto – un vero e proprio congresso ‒ vede il posizionamento  e una definizione più precisa delle varie correnti politiche interne. Lo spazio politico inclusivo aperto dai DSA dovrà superare una prova di tenuta di non poco conto: trovare un minimo comun denominatore politico e organizzativo tra gli anarchici californiani, i «kautskiani» di «Jacobin», gli ex attivisti dell’ISO e di altre formazioni trotskiste e il settore di recente politicizzazione che vede in Alexandria Ocasio-Cortez la propria espressione politica, nonché la propria rappresentante istituzionale. Su tutto questo pesa anche il rapporto ‒ ancora lontano da una definizione ‒ con i sindacati e il rischio di fare dell’antitrumpismo una versione d’oltreoceano dell’antiberlusconismo. E, non ultimo, il malumore per l’autocandidatura, decisa in perfetta solitudine, di Bernie Sanders alle primarie del Partito Democratico in vista delle prossime elezioni presidenziali.

A questo proposito, la decisione del ristrettissimo Comitato Politico Nazionale dei DSA (18 componenti) di tamponare il disagio crescente promuovendo una consultazione online, con valore vincolante, degli aderenti sulla candidatura di Bernie Sanders ha dato sicuramente un risultato chiaro: il 76% a favore, ma con una partecipazione del 24% degli aventi diritto. In altri termini, tutte le contraddizioni rimangono aperte. E sono contraddizioni che il settore dei DSA più mediaticamente esposto, non si sa se anche maggioritario,  vorrebbe saltare a piè pari con l’accelerazione dell’ingresso nelle istituzioni a qualsiasi livello, una pratica politica interna-esterna al Partito Democratico e infine il lancio della campagna per il Green New Deal che dovrebbe fungere anche da tratto identitario. Le prime due, il risolvere l’insediamento sociale con una presenza istituzionale e una sorta di «entrismo 2.0» nel Partito Democratico dovrebbero essere quantomeno tenute presenti, senza scomodare la storia di parte della sinistra radicale europea ma solo alcune esperienze americane del passato, una su tutte la Coalizione Arcobaleno di Jesse Jackson degli anni ’80. Diverso il discorso sul Green New Deal.

Si fa leva sulla costruzione di un immaginario collettivo che metta in relazione il New Deal rooseveltiano dopo la crisi del 1929 con un New Deal, ma stavolta Green, per uscire dalla crisi del 2007-2008. Senza entrare nel merito di cosa sia concretamente stato il New Deal rooseveltiano sul versante della ristrutturazione capitalistica della produzione sociale, il Green New Deal dovrebbe costituire il punto di incontro dei DSA con tutto ciò che si muove e muoverà attorno alla candidatura di Bernie Sanders, con una serie di lotte locali ambientaliste, con una sensibilità che si sta diffondendo contro i disastri climatici provocati dal modo di produzione capitalistico. Lo slogan, che si pensa performativo, è «Salviamo noi stessi e il pianeta». L’idea di un Green New Deal non è affatto nuova negli Stati Uniti, se ne parla da una quindicina d’anni nei circoli ambientalisti. La mossa dei DSA è stata di quella di attualizzarla e trasformarla in battaglia politica. Prima, all’inizio di febbraio, con la presentazione di una risoluzione alla Camera dei Rappresentanti, che con le ultime elezioni è a maggioranza democratica, da parte di Alexandria Ocasio-Cortez e successivamente con la produzione di testi, organizzazione di convegni e iniziative che collocassero il Green New Deal nella posizione centrale di una strategia anticapitalistica. La risoluzione, che secondo l’ordinamento legislativo americano anche se approvata non è vincolante, elenca un insieme di obiettivi da raggiungere tra il 2030 e il 2050. Tra questi, la riqualificazione di tutti gli edifici esistenti con criteri di efficienza energetica, la ristrutturazione dei sistemi di trasporto in modo da azzerare le emissioni di gas nocivi entro il 2050, un lavoro garantito con salari a sostegno della famiglia, congedo familiare, ferie retribuite e sicurezza pensionistica, un’assistenza sanitaria di alta qualità per tutti gli americani.

Su come e dove reperire le risorse finanziarie per raggiungere questi obiettivi, la risoluzione presentata rimane volutamente nel vago. Questo dev’essere argomento delle dichiarazioni di Ocasio-Cortez, dei comizi di Bernie Sanders, delle ipotesi fatte nei convegni. E così si spazia da una tassazione fortemente progressiva sopra il milione di dollari, a una tassa patrimoniale secca, alla tassazione dei guadagni di borsa e alla carbon-tax.  Fin qui si resta all’interno di un’impostazione tutto sommato neokeynesiana dai contorni redistributivi. Per i DSA che dirigono «Democratic Left», la rivista ufficiale dell’organizzazione, il Green New Deal ha però un valore politico aggiunto soprattutto per due motivi. In primo luogo, è un programma per costruire il potere della classe operaia, mediante una «mobilitazione nazionale come quando una nazione si mobilita per una guerra»; in secondo luogo, il raggiungimento della piena occupazione «verde» aiuterebbe non solo a evitare una catastrofe climatica, ma anche a indebolire il potere discrezionale dei padroni con una forza-lavoro «meno ricattabile da un esercito industriale di riserva». Appare evidente, nella supposta consequenzialità di queste affermazioni, un indubbio salto logico. Sembra più un approccio «idraulico» che politico alla lotta di classe, dove non esistono né le catene globali del valore, né la dimensione transnazionale della divisione del lavoro e della cooperazione sociale. La classe è già data. si tratta solo di riattivarla trovando la giusta pedagogia politica. Non tutti nei DSA condividono questa impostazione e la prossima Convention sta diventando uno snodo importante che riguarda l’intera sinistra radicale americana.

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