di JACOPO BONASERA e MATTEO ROSSI
Il 29 marzo è arrivato, ma la soluzione dell’enigma Brexit appare ancora distante e materialmente impossibile. La travagliata e incompiuta storia della Brexit porta prepotentemente in primo piano l’esistenza di una dimensione transnazionale, di cui la governance europea è un momento di governo, che attraversa, connette, scuote e mette in crisi Stati e mercati nazionali. Il tentativo di abbandonare le strutture dell’Unione Europea non può così che produrre gli esiti farseschi e paradossali cui si è assistito nelle ultime settimane, quando la House of Commons ha contemporaneamente rifiutato il secondo accordo proposto da Theresa May, votato per escludere un’uscita senza accordo e approvato un rinvio della scadenza che l’Unione, preoccupata da un’eventuale partecipazione britannica alle elezioni di maggio, ha però concesso soltanto in cambio dell’approvazione dello stesso accordo che il Parlamento aveva appena rifiutato. Su tutto questo, il 23 marzo è calata come una sentenza di condanna quella che pare la più grande manifestazione della storia britannica recente, con un milione di londinesi in piazza a chiedere un secondo referendum: una presa di parola che non introduce elementi di novità, data la storica opposizione della capitale alla Brexit, e che di certo non pretende di fare i conti con la miseria dell’alternativa tra leave e remain, ma che non si era ancora data con questa forza. Se la posizione del governo May è ormai compromessa, l’opposizione di Jeremy Corbyn oscilla tra l’appoggio a un secondo referendum e il sogno di una Brexit laburista dall’Unione, ma non da quella doganale o dal mercato comune. Se l’idea è probabilmente quella di condizionare dall’esterno la politica sociale dell’Unione, con ancor maggiore probabilità il risultato sarebbe quello di stare dentro un mercato di cui non si decidono le regole politiche. Il dramma della Brexit si avvia insomma alla propria conclusione in una situazione sempre più disordinata, ma sempre meno eccellente.
Se si vuole ragionare sul significato politico della transizione in corso, senza inseguire con affanno tutti i piccoli e grandi rivolgimenti della cronaca politica d’Oltremanica, non si può dunque fare a meno di partire dal transnazionale per capire perché la Brexit sia impossibile tanto nella sua declinazione sovranista, quanto in quella socialdemocratica. Questa impossibilità si manifesta nella spirale cieca in cui da tre anni si contorce il Regno Unito, una spirale in cui tutto è hung, cioè sospeso: hung Parliament, hung economy e hung government sono gli indicatori di una crisi dell’efficacia del comando politico dello Stato. A rendere impraticabile la Brexit è una frattura che lacera il tessuto economico e politico degli Stati: quella frattura è il transnazionale, che si ripresenta nella forma paralizzante della crisi ogni volta che la politica nazionale tenta di giocare su piccola scala una partita che si decide su un terreno diverso da quello dei parlamenti locali, per quanto gloriosi e antichi essi si pretendano.
Gli ultimi mesi hanno dimostrato che la speranza di ricostruire un comando nazionale sul lavoro è inevitabilmente entrata in tensione con una realtà produttiva e logistica transnazionale che non accetta dazi o impedimenti di alcun tipo alla circolazione del capitale e delle merci. Si dimostra cioè l’inevitabile fallimento del tentativo di ricomporre un assetto scompaginato soprattutto dai movimenti di quella merce “particolare” che è la forza lavoro, attraverso una riproposizione posticcia di un qualche simulacro di mercato nazionale, delle merci, del lavoro e dei capitali, eludendo la dimensione immediatamente transnazionale di questo mercato e di quei movimenti. A un ritmo crescente negli ultimi mesi gli stessi capitali che facevano la fortuna finanziaria di Londra hanno contestato praticamente la possibilità di una Brexit cercando con crescente insistenza un riparo sotto le ali confortevoli della politica economica dell’Unione. Francoforte, Dublino e soprattutto Amsterdam hanno così dato il via a una competizione serrata per aggiudicarsi i capitali di multinazionali, banche e giganti della tecnologia in fuga dal Regno Unito. In particolare Amsterdam, oltre ad aver accolto l’Agenzia europea per il farmaco, è divenuta la sede di decine di imprese, quasi che il capitale avesse deciso di seguire a ritroso la propria storia, tornando in quello che era stato il centro del capitale commerciale europeo prima dell’egemonia britannica. La realtà è che dietro a questo sospetto riavvolgimento del nastro della storia si cela il tentativo dell’Olanda di ergersi tra i campioni della governance europea, di trasformare il rischio di rimanere orfana di un importante partner economico come Londra nell’opportunità di guadagnare prestigio come porta dell’Europa grazie, tra l’altro, alla presenza di un asset rilevante quale il porto di Rotterdam.
Così, la dimensione transnazionale del mercato mondiale ha dimostrato la velleità dell’utopia sovranista dei politicanti britannici che con il referendum del 2016 promettevano di ristabilire un qualche brandello di protezione della forza lavoro nazionale fornendo salari più alti e intensificando lo sfruttamento della forza lavoro migrante, infra ed extra-europea, attraverso una stretta del comando sui suoi movimenti e l’introduzione di permessi di soggiorno specifici per distinguere tra lavoratori qualificati e non. Da parte sua, ritrovatosi nella scomoda posizione di dover gestire il risultato a dir poco imprevisto del referendum, il governo May sosteneva di poter ricostruire uno Stato sovrano capace di controllare i propri confini e di decidere del proprio ruolo internazionale strizzando l’occhio agli Stati Uniti del neo-eletto Trump. Questo maldestro tentativo si è però scontrato con una debolezza strutturale degli organi politici nazionali di fronte alla sfida e alla crisi portata dal transnazionale al cuore della loro prassi istituzionale. Simili aspettative, infatti, oltre a ignorare consapevolmente che l’Atlantico sarebbe rimasto un Oceano e la Manica uno stretto, collidevano con quelle molteplici trasformazioni che negli ultimi quarant’anni hanno fatto dello Stato una funzione politica del comando capitalistico transnazionale. In altre parole, l’invocazione di una Brexit si è scontrata con il fatto che lo Stato non è più, se mai lo è stato, un soggetto politico che governi e parlamenti possano modellare a proprio piacimento perché il suo spazio interno non è più, e mai lo è stato, alieno al conflitto che oggi si dà esplicitamente sul piano transnazionale tra il movimento della forza lavoro e il capitale che pretende di comandarne la messa a valore.
Ecco allora che, posto di fronte all’intreccio di cavilli giuridici, tecnici e amministrativi che compongono il tessuto del mercato comune europeo, l’urlo scomposto della Brexit scopre per esempio che, fuori dall’Unione Europea, il Regno Unito non potrebbe beneficiare della regolamentazione europea sui pallet, senza la quale muovere le merci diventerebbe un’impresa titanica. Oppure, volgendosi verso l’Irlanda, dimentico della fine dell’Impero, o forse più semplicemente dell’esistenza di un confine fisico con il resto d’Europa, quell’urlo viene strozzato dalla scoperta che scozzesi e irlandesi del Nord potrebbero non gradire la reintroduzione di una frontiera fisica. Proprio sugli accordi riguardanti il confine irlandese è saltato il piano presentato due volte da Theresa May alla House of Commons e continua, non per caso, a infrangersi ogni tentativo di governo della transizione in corso: il cosiddetto backstop, che lascerebbe invariati i rapporti sul confine fino a data da destinarsi, rappresenta per qualcuno un pericoloso cavallo di Troia del mercato comune europeo, per altri una restrizione della libertà di movimento tale da mettere in discussione gli accordi politici degli anni Novanta. Un’eventuale rottura degli equilibri politici intorno al confine irlandese minaccia così di risvegliare i dormienti spettri della guerra civile, che dell’unità dello Stato è la più concreta negazione. La questione nord-irlandese esplicita e materializza il transnazionale come crisi, quella frattura che il sovranismo non può risolvere nemmeno con le più acrobatiche contorsioni politiche. Contemporaneamente, la dimensione transnazionale in cui si sta consumando la crisi britannica rende nel migliore dei casi ridicolo anche il sogno di una Brexit da sinistra, con cui i laburisti britannici vagheggiano di poter ricostruire fuori dall’Europa e fuori dal mercato mondiale un qualche brandello di welfare State. Così, Jeremy Corbyn pensa ancora di poter uscire senza macchia dal pasticcio della Brexit, come senza colpa ritiene di esservi entrato, e pensa ancora che gli eventi, maturando, finiranno per dargli ragione. Pensare una Brexit socialdemocratica contro l’Europa del capitale significa tuttavia non aver compreso come la ristrutturazione neoliberale dello Stato sia stata un processo molto più ampio e profondo dell’integrazione europea, e significa non aver compreso che il comando capitalistico transnazionale va molto al di là dell’Unione Europea, che certamente ne rappresenta un momento organizzativo rilevante, ma che non lo esaurisce. Uscire dall’Europa non significa quindi emanciparsi dal transnazionale e dalla sua presa. L’Unione Europea, forse proprio grazie al suo presentarsi come eternamente in crisi, appare sempre più un decisivo centro di governo del transnazionale, e proprio in quanto tale ha rappresentato la roccia su cui si sono infrante le onde della Brexit. Si deve così registrare che il transnazionale irrompe costantemente come crisi di tutto ciò che si pretende stabile, conosciuto e duraturo, con il risultato tutt’altro che scontato che tanto le convulsioni del mercato interno quanto la crisi dello Stato non appartengono né al mercato interno né allo Stato. Anche quando pretende di riaffermare protervamente il proprio potere sovrano, lo Stato deve fare i conti con la sua sospensione.
Quello che era sembrato l’inizio di un suo possibile processo di disgregazione, a tre anni di distanza risulta allora un buon esempio di come l’Unione Europea resti un terreno di scontro ineludibile, un nucleo di potere che si rafforza tanto nella gestione del proprio processo di allargamento, sempre più condotto lungo linee economico-commerciali e sempre meno sul piano politico dell’annessione di nuovi Stati membri, quanto in quella del primo, imprevisto, tentativo di abbandono delle sue strutture. Come ha recentemente ammesso con candore Macron, la Brexit doveva servire da lezione; non stupisce allora che il premier danese Rasmussen, anch’egli alle prese con tensioni anti-europeiste interne al proprio governo, abbia tuonato che sulla questione europea non accetterà mai di indire un referendum. Rendere la Brexit più dolorosa possibile è stato lo strumento con cui la governance europea ha scelto di lanciare un monito ai sovranisti d’Oltremanica e a quelli continentali, per dimostrare loro come solo dentro le strutture dell’Unione sia dato stabilire le condizioni di funzionamento del mercato e del comando capitalistico sul lavoro. La Brexit rappresenta così uno squarcio privilegiato da cui guardare al rapporto tra sovranismo, governance europea e capitale transnazionale, in quanto sulla Brexit l’Unione ha deciso di giocarsi un pezzo importante del proprio rafforzamento politico: l’altra faccia di un’impossibile Brexit dall’Europa è la brutale affermazione di un’Europa di governo del transnazionale in cui farsi uno Stato tutto per sé non è possibile, perché da tempo non è più possibile farsi un mercato tutto per sé. Nell’Europa della Brexit, allora, l’unico Stato possibile è uno Stato sospeso di fronte al capitale transnazionale e all’Unione Europea come suo specifico tentativo di governo e di organizzazione.
Più precisamente, il processo della Brexit e la sua gestione politica aveva e ha il fine di evidenziare come, senza quel momento organizzativo del mercato del lavoro e delle merci, sia impossibile per gli Stati membri affacciarsi autonomamente sul mercato mondiale se non a prezzi insostenibili. Di contro, l’approccio europeo alla Brexit sembra lasciar intravedere un curioso accordo di maggioranza tra popolari e populisti dopo le elezioni europee di maggio, che chiuderanno forse l’ingloriosa stagione della socialdemocrazia europea, se non proprio la sua storia, sancendo un rafforzamento amministrativo dell’Unione, ma difficilmente genereranno una sua messa in discussione dall’interno. La forza dell’Europa della Brexit non equivale però alla sua pacifica stabilizzazione. Dentro un quadro sempre più spezzettato le tensioni interne al transnazionale producono spinte centrifughe come quella britannica che costringono l’Unione a riaffermarsi continuamente come l’unico piano di governo legittimo della tensione transnazionale tra lavoro e capitale, nel tentativo di produrre uno spazio sempre meno accidentato per i peregrinaggi del secondo, e sempre più irreggimentato per il movimento del primo. In una simile cornice, a prescindere da quando e da come si risveglierà da questo incubo, il Regno Unito sarà ancora uno Stato sospeso. Coloro che, in ogni angolo del mondo, continueranno a rifiutare le imposizioni di chi pretende di esercitare un comando sulle loro vite non potranno dunque accontentarsi di una qualsivoglia misera alternativa tra leave e remain, ma dovranno riconoscere e praticare quello stesso terreno di conflitto transnazionale che rende la Brexit un enigma apparentemente senza soluzione.