Approfittando impunemente del settantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’ONU, la International Organization of Families (IOF) ha dichiarato: «noi condanniamo il crescente attacco alle famiglie mosso da quella che è stata definita una “rivoluzione sessuale globale” che si maschera sotto il nome di diritti, ma di fatto minaccia i diritti della famiglia e “distrugge la libertà in nome della libertà”». A parlare di «rivoluzione sessuale globale» è stata Gabriele Kuby, sociologa tedesca di fede cattolica nota per aver dibattuto con papa Ratzinger della manifesta immoralità della saga di Harry Potter. Attenta ai fenomeni di massa, Kuby dice il vero: una rivoluzione sessuale globale è in atto e sta efficacemente minando alle fondamenta la famiglia e l’ordine sociale che essa riproduce. Questa rivoluzione spiega il World Congress of Families (WCF), che si svolgerà a Verona dal 29 al 31 marzo. È la rivoluzione della libertà affermata collettivamente da milioni di donne che non accettano la subalternità imposta loro dall’ordine patriarcale. Reclamando e praticando questa libertà, il movimento femminista che l’8 marzo ha travolto il mondo con il suo sciopero globale è una minaccia per la sola e unica libertà che gli animatori del WCF ritengono ammissibile: la libertà ordinata, individuale, da praticare coattivamente sul mercato, la libertà che rifiuta ogni uguaglianza, che presuppone le gerarchie e le figure di autorità stabili e certe. Nostra è la rivoluzione, loro è la reazione.
Bisogna guardarsi dall’attribuire ai custodi dell’ordine che si riuniranno a Verona una forza maggiore di quella che effettivamente hanno. Essi esistono solo grazie al sostegno economico di parte dell’oligarchia finanziaria vicina a Putin e alla Chiesa ortodossa, al lavoro di lobbying avviato negli Stati Uniti e alla collusione con frange dell’estrema destra europea che si richiamano espressamente al fascismo. Il WCF è la schiuma ‒ per non dire altro ‒ che galleggia sulle pozzanghere delle destre neoliberali, che a loro volta si servono di questo think-tank reazionario per supportare ideologicamente politiche mirate a riprodurre le fondamenta patriarcali e razziste dello sfruttamento, o per supportare le correnti filorusse in quelle aree coinvolte dal processo di integrazione europea, come è avvenuto rispettivamente in Ungheria, Moldavia e Georgia, dove non a caso si sono svolti gli ultimi meeting. È un errore credere che siamo di fronte a un ritorno al fascismo, o addirittura al medioevo. Al di là del linguaggio ispirato al passato e di trovate tanto ridicole quanto esilaranti, come il ricorso ai Cavalieri Templari per garantire la sicurezza dei congressisti, i fautori della famiglia come ordine naturale non guardano solo indietro. Non è un caso che il nucleo fondativo del WCF abbia visto la luce negli Stati Uniti sotto gli auspici del governo Reagan, quindi all’alba dell’era neoliberale, e che oggi l’IOF ritenga «esemplare» la leadership di Bolsonaro in Brasile. Dio, patria e famiglia sono parole d’ordine proiettate nel mercato mondiale, transitano fra i confini nazionali e domestici e cercano di rafforzarli per supportare i processi di privatizzazione del welfare, la precarizzazione, l’indebitamento e le politiche razziste.
Nel suo intervento in occasione della recente Conferenza ONU sulla condizione delle donne, l’IOF si è servita delle parole di Micheal Novak – già commissario alle Nazioni unite negli anni ’80 e attento lettore dei classici del neoliberalismo – per affermare che la famiglia è il nucleo della stabilità sociale, poiché lì si instaurano «capacità economiche, abitudini monetarie, attitudini verso il lavoro e l’arte dell’indipendenza finanziaria». La stabilità dei ruoli e delle gerarchie sessuate istituzionalizzate nella famiglia è il pilastro di un processo disciplinare attraverso il quale si riproducono le condizioni della libertà ordinata: gli uomini e le donne devono abbracciare l’etica del lavoro, affidarsi solo ed esclusivamente alla propria intraprendenza (e naturalmente al lavoro riproduttivo delle donne) per non gravare sulle casse dello Stato, devono indebitarsi piuttosto che ricorrere ai sussidi pubblici e, soprattutto, non devono mettere in questione le gerarchie che organizzano la società, accettando che la povertà sia una responsabilità individuale e non un fatto sociale. La promozione ideologica della famiglia è stata e continua a essere l’arma per sostenere lo smantellamento del welfare e le politiche di austerità, indebitamento e privatizzazione. Rigettare sul lavoro delle donne ‒ gratuito o salariato ‒ la riproduzione della vita, è indispensabile per creare continuamente le condizioni di riproduzione della società e assicurarle nel tempo. La previdenza privata deve essere sostenuta in luogo di quella pubblica in modo che sia spezzata qualsiasi istanza collettiva che metta in questione la legittimità dello sfruttamento e la quotidianità dell’oppressione. Come emerge chiaramente dalle voci della Marripedia, promossa dalla IOF per assicurare con indicazioni semplici e perentorie la diffusione della sua dottrina, la famiglia è il luogo di trasmissione generazionale delle regole sociali, ed è per questo che ogni comportamento soggettivo che ne metta in questione la stabilità ‒ divorzio, aborto, omosessualità ‒ è trattato come una minaccia. La famiglia è la fucina societaria in cui si riproducono l’isolamento individuale e il pensiero gerarchico contro ogni possibile pretesa collettiva di uguaglianza.
Per questo ‒ come sostiene l’inqualificabile Pillon ‒ la famiglia deve essere difesa con la forza della legge e l’intervento dello Stato dai movimenti che la minacciano. Come recita la Dichiarazione mondiale della famiglia, in quanto «fondamento ultimo di ogni civilizzazione» e «baluardo della libertà», «l’unione matrimoniale di un uomo e di una donna» deve essere considerata a tutti gli effetti una «comunità universale». Al di là delle retoriche nazionaliste che infarciscono il discorso di questi nuovi Cavalieri Templari, e al di là dei loro riferimenti alla «patria» e all’«identità nazionale», la famiglia è il nucleo portante di un ordine dei rapporti sociali che deve essere globale, ovvero deve rendere universalmente vigenti le proprie regole e gerarchie. Più del nazionalismo, a essere centrale in questa ideologia reazionaria è il razzismo, che insiste sulla «promiscuità sessuale» delle donne nere, o sulla prolificità di quelle islamiche, per riaffermare l’identificazione naturale tra donne e madri, incoraggiare la procreazione come un dovere e allo stesso tempo rafforzare e riprodurre la subalternità sociale di neri e migranti. D’altronde, sono cinquanta anni che l’ossessione per la Negro Family e la scandalosa indipendenza delle madri nere senza mariti animano gli incubi di chi ha materialmente smantellato le strutture di welfare.
Ci sono ottime ragioni, allora, per prendere parte a Verona città transfemminista, l’iniziativa di Non Una Di Meno contro il ridicolo teatrino dei Fontana, Salvini e Pillon di ogni provenienza. Dobbiamo farlo con la chiara consapevolezza che sul palco del WCF andranno in scena due parti diverse e complementari: quella di chi invoca l’ordine e quella di chi approfitterà dello spazio politico aperto da NUDM per rappresentare un’opposizione di circostanza alla forma reazionaria, ma non alla sostanza delle politiche neoliberali. Persino l’ala 5stelle del governo ha colto l’occasione del WCF per smarcarsi dall’egemonia della Lega, ritirando il patrocinio al Congresso. Per rifarsi una verginità politica dopo avere sostenuto piani nazionali per la fertilità, jobs act e razzismo istituzionale, il Partito Democratico per voce del suo nuovo segretario ha dichiarato il suo «supporto» alle femministe. Per sollevarsi dalla propria insignificanza politica, alcuni ritengono possibile incanalare la forza del movimento all’interno di improbabili «liste femministe» costruite ad arte in vista delle prossime elezioni europee. Infine, dopo aver cercato in tutti i modi di ignorare lo sciopero globale dell’8 marzo, la CGIL si costruisce ancora una volta il suo ambito separato ‒ separato, prima di tutto, dalle lavoratrici e dai lavoratori che rappresenta ‒ insieme al femminismo d’ufficio che ancora pensa di poter contrattare sul tema della «parità di genere», magari sedendosi a qualche tavolo ministeriale con il governo giallo-verde. Una velleità recentemente coltivata da alcune, che evidentemente cercano di trarre piccoli utili per le proprie piccole organizzazioni approfittando della forza del movimento femminista globale.
A Verona costoro possono solo mettere in scena la preoccupata reazione alla potenza del movimento sociale transnazionale che sta imponendo una centralità politica senza precedenti e un significato nuovo e globale alla parola femminismo. Non è un femminismo che cerca la parità, che rivendica diritti individuali spendibili sul mercato e libertà indifferenti, che riduce le donne a una categoria da proteggere, che in loro nome porta avanti politiche dell’identità e che aspira a moltiplicare la famiglia e il suo ordine, anziché criticarli entrambi. È il femminismo che trasforma la libertà sessuale nella pratica di una rottura che fa vacillare l’ordine complessivo della società e produce connessioni tra chi rifiuta oppressione e sfruttamento. È la libertà di rifiutare la maternità come destino, di essere madri senza accettare le condizioni di subalternità imposte dalla divisione sessuale del lavoro, di attraversare i confini per liberarsi dell’oppressione di un padre, di un marito, di un padrone, di fare del sesso un campo di battaglia contro i ruoli e le gerarchie di genere che sorreggono questa società. È una libertà che lo sciopero femminista continuamente trasforma in un movimento di massa capace di portare alla luce e combattere il matrimonio politico tra patriarcato, razzismo e politiche neoliberali. Questo è ciò che fa la differenza. Questo è ciò che distingue Non Una Di Meno da qualsiasi opposizione di maniera e che dà voce al desiderio collettivo di libertà delle migliaia di donne e di uomini che il prossimo 30 marzo animeranno la piazza veronese.