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La non continuità del dominio

di SANDRO MEZZADRA

Da «Il Manifesto» del 12 marzo 2019.

Il potere temporaneo si intitola il libro di Maurizio Ricciardi su «Karl Marx e la politica come critica della società» (Meltemi, 2019, pp. 230). Tema onnipresente nella sconfinata opera di Marx, il potere è stato in effetti raramente fatto oggetto di un’analisi sistematica nella altrettanto sconfinata letteratura a lui dedicata. Una delle interpreti più brillanti e raffinate che si sono soffermate sulla questione negli ultimi anni, Wendy Brown, ha preso le mosse (in La politica fuori dalla storia, a cura di Paola Rudan, Laterza) dalla focalizzazione di Marx sulla logica del potere, ponendo criticamente in rilievo lo scacco del suo tentativo di coglierla in modo «trasparente» e «oggettivo». Non è questa la via seguita da Ricciardi: la questione del potere gli offre piuttosto un filo conduttore attraverso cui seguire l’intero sviluppo dell’opera marxiana a partire dallo scarto che la scoperta del rapporto di capitale e dell’antagonismo che lo costituisce determina nei confronti della riflessione politica precedente. Radicalmente distante da ogni pensiero che (anche solo analiticamente) riconosca il primato dell’ordine, l’autore del Capitale non si pone in alcun modo l’obiettivo di formulare una «teoria generale del potere»: in questione per lui è l’emergenza storica, in precise condizioni sistemiche, di rapporti di potere che si distendono nello spazio e lavorano su diversi ordini temporali, incidendo corpi e costituendo soggettività.

Il potere in Marx non ha più come suo luogo eminente di manifestazione e di cristallizzazione lo Stato. È cosa nota, che Ricciardi tuttavia legge e sviluppa in modo particolarmente originale: lo «sguardo» marxiano sul potere, fin dagli anni giovanili, non si appunta più sulla sua fondazione e legittimazione. Ne segue piuttosto la «costanza dell’esercizio» e quella che potremmo definire la disseminazione, per fermarsi sui suoi momenti di cristallizzazione: nel denaro, ad esempio, come sanzione del dislivello di potere tra gli individui, o nel comando sulla cooperazione di fabbrica. Ricco di indicazioni sulla riflessione marxiana negli anni che precedono le rivoluzioni del 1848, quando il potere viene analizzato in riferimento a temi classici, quali ad esempio il rapporto tra Stato e società civile e il significato della democrazia, il volume di Ricciardi trova il suo centro in una specifica interpretazione del nesso tra rapporto di capitale e trasformazioni delle figure del potere.

Il rapporto di capitale, lungi dall’essere ridotto alla sfera dell’economia per rifrangersi poi su altri ambiti, è per Marx un «rapporto sociale». Ricciardi lavora su questa definizione per radicalizzarla, parlando di un rapporto societario proprio per enfatizzare il suo impatto sulla società nel suo complesso, che in qualche modo precede logicamente la sua articolazione in diversi ambiti e in diverse sfere. Al tempo stesso, ed è un altro punto sottolineato con forza nel libro, in quanto rapporto societario il rapporto di capitale ha per Marx come suo ambito spaziale di riferimento il «mercato mondiale», quasi ad anticipare per lo meno la problematica di quella che Niklas Luhmann avrebbe definito un secolo più tardi «società mondiale».

È all’interno di questo scenario che l’analisi proposta da Ricciardi segue le molteplici figure assunte dal potere in Marx (segnalate da termini come forza, dominio, comando, ma anche dittatura, dispotismo, autocrazia) sottraendosi alla ricerca della «determinazione in ultima istanza» ma cercando di fissare gli «effetti sistemici» di un gioco di forze che deve sempre garantire la riproduzione del rapporto di capitale – e dunque di un dislivello di potere e dell’assoggettamento di quel soggetto che Marx chiama classe operaia. Questa impostazione si rivela particolarmente felice nella stessa analisi del «politico» marxiano. Certo destituito di ogni autonomia, dal momento che il suo «criterio» è la lotta di classe, il politico mantiene tuttavia un’importanza fondamentale per la comprensione del potere nella società del capitale. Molto belle sono, ad esempio, le pagine dedicate da Ricciardi alla riflessione di Marx sulla politica di Lord Palmerston negli anni Cinquanta dell’Ottocento in Inghilterra e alle trasformazioni del «governo» sul ritmo dell’emergere di una «complessiva integrazione di economia, finanza e Stato». Messa in risonanza con l’analisi marxiana della politica di Napoleone III e del Secondo Impero in Francia, questa riflessione induce ad allargare il campo prospettico, investendo direttamente la dimensione coloniale e imperiale del sistema di dominio britannico. E Ricciardi mostra molto bene quanto Marx fosse consapevole del rapporto tra l’accentramento politico attuato da Palmerston e quel che accadeva in Asia, dove in particolare il dominio britannico era sfidato in modo radicale dalla grande rivolta indiana del 1857.

Nello specchio coloniale il dominio del capitale appare a Marx necessariamente connesso alla violenza, riproponendo costantemente – scrive Ricciardi – «il problema del suo rapporto con il potere politico». E il «dispotismo orientale», per nominare un altro tema rilevante in questo contesto, finisce per indicare un carattere generale del rapporto di capitale. Disteso spazialmente nella «società mondiale» del capitale, il potere di cui questo libro ricostruisce la semantica nell’opera di Marx opera tuttavia essenzialmente sulla dimensione del tempo. Al cuore del modo di produzione capitalistico c’è infatti secondo l’autore un rapporto di potere che si impone «grazie alla sua capacità di far valere il passato nel presente, di valorizzare anacronismi il più importante dei quali è senza dubbio il dominio esercitato dal lavoro morto oggettivato nel capitale su quello vivo e la sua forza lavoro». Come il denaro esprime quella differenza che ha la propria origine in una passata accumulazione, determinando lo squilibrio che segna fin da principio il rapporto tra capitale e lavoro, il sistema delle macchine si presenta come oggettivazione di un lavoro passato («morto»), si contrappone al lavoro presente («vivo») e costituisce la base materiale del comando esercitato dal capitale sulla cooperazione di fabbrica.

Il potere in Marx assume questa fondamentale matrice temporale, si radica nell’anacronismo costitutivo del rapporto di capitale e si caratterizza come governo di eterogenee temporalità: Ricciardi ne definisce efficacemente i contorni e il carattere generativo di molteplici figure e rapporti, soffermandosi ad esempio in questa chiave sul nesso tra il capitalismo e il patriarcato, «una forma di assoggettamento che l’ha storicamente preceduto, ma che esiste rinnovando costantemente l’intreccio tra assoggettamento e sfruttamento». La condanna a vivere in una sorta di eterno presente, in un mondo povero perché privato di quel rapporto costitutivo con la storia che è appunto cristallizzato nel denaro e monopolizzato dai suoi proprietari, investe d’altra parte i soggetti che il rapporto di capitale vorrebbe costruire come soggetti senza potere. E tuttavia questi soggetti, «la moltitudine di figure sociali che Marx compendia con il nome di classe operaia» come scrive Ricciardi, sono per lui «il sale della terra», sono la potenza senza la quale il rapporto di capitale (e dunque gli stessi rapporti di potere che lo costituiscono) non potrebbe riprodursi.

È per questo che il potere analizzato e criticato da Marx, anche quando assume le fattezze del dispotismo, non può che essere definito temporaneo. Una essenziale differenza lavora all’interno dei rapporti di potere nella società del capitale, una differenza sempre potenzialmente in grado di interrompere la continuità del dominio e di divenire potere, nei termini utilizzati da Ricciardi, che legge ad esempio da questo punto di vista le pagine dedicate da Marx alla Comune di Parigi. Di un «diritto alla differenza» come chiave di una politica della liberazione, parla l’autore nelle ultime pagine del libro, valorizzando a pieno il «rifiuto marxiano di un pensiero dell’ordine». È in fondo la formulazione di un compito, per certi aspetti di un rompicapo, che non cessa di interrogarci nel nostro presente. E su cui Il potere temporaneo ci incita a continuare a lavorare tanto teoricamente quanto politicamente.

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