di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM
L’ordine non regna in Europa. La scena politica già occupata dagli scontri tra i governi nazionali è ora scossa da segnali di rivolta da Est a Ovest. Il rischio di disintegrazione dell’UE, paventato dalle istituzioni europee dopo la crisi greca per frenare qualsiasi tentativo di messa in discussione delle politiche di austerity, si è ora trasformato nella paura concreta dei governi del diffondersi di atti d’insubordinazione. La sollevazione in Ungheria contro la ‘slave law’ di Orbàn, le manifestazioni in Serbia e Albania contro la violenza del governo, la ribellione delle donne all’ordine sociale patriarcale, gli scioperi che attraversano tutti i settori del lavoro, dai centri logistici agli ospedali, dagli uffici postali alle fabbriche, l’ingovernabile movimento dei migranti che sfida ogni giorno i confini e il razzismo istituzionale. Sono tutte espressioni differenti, per quanto spesso sconnesse tra di loro, di una crescente rivolta contro lo stato di cose presente. Il segno del rifiuto di un sistema che, in maniere diverse e con attori politici differenti, mira a ottenere donne e uomini ubbidienti e sfruttabili attraverso l’impoverimento e la precarizzazione. Se in Europa dell’Est il tentativo di disciplinare il malcontento sociale attraverso l’uso di una retorica nazionalista sta dando segni di cedimento, a Ovest l’idea che le istituzioni neoliberali possano conservare l’ordine sociale si sta frantumando. Che ricorrano a un comando autoritario o facciano appello alle possibilità del mercato, i sistemi politici sembrano incapaci di rispondere alle pretese avanzate dai lavoratori e dai movimenti sociali. Con il sopraggiungere delle elezioni europee che costringono i leader politici a cercare modi per farsi notare, cresce l’incertezza e il transnazionale riemerge nuovamente quale terreno di lotta cruciale. È all’interno di questo quadro che da novembre, la Francia (e le sue regioni e dipartimenti oltremare) è attraversata da ondate di proteste e scioperi ingovernabili, diffusi e sostenuti da manifestanti con il gilet giallo (Gilets Jaunes).
Distanziandosi dalle tradizionali forme organizzative, inclusi i sindacati, e ricorrendo a modalità di aggregazione che in parte riprendono esperienze del recente passato, come nuit début, i GJ stanno utilizzando i social networks e luoghi fisici come le rotonde come punti di connessione, comunicazione e visibilità. Essi hanno organizzato assemblee locali e trovato, in tutte le maggiori città, luoghi d’incontro che spesso sfuggono a ogni tentativo di controllo. L’insurrezione dei GJ prende il posto delle diverse ondate di scontri che hanno scosso il paese negli ultimi anni senza ottenere successi rispetto ai loro obiettivi dichiarati: tra le altre, la lotta contro la loi travail e ‘il suo mondo’, l’opposizione alle ordonnances del presidente Macron e la resistenza al piano di privatizzazione delle ferrovie pubbliche. Significativamente, essa giunge dopo decenni di politiche neoliberali che hanno prodotto una scollatura tra la realtà e la retorica nazionale che celebra la promessa della Rèpublique moralmente superiore agli altri paesi. Quello che noi chiamiamo comando logistico si è imposto duramente in Francia: l’impoverimento, la precarizzazione e l’acuirsi delle disuguaglianze sociali, di pari passo con l’apparente assenza di vie di fuga dalla condizione presente, hanno alimentato un senso di disaffezione e rabbia. Il movimento dei GJ sta politicizzando parti della società colpite non solo dalle recenti leggi di Macron, ma da anni di politiche e trasformazioni che hanno reso le loro vite e i loro impieghi sempre più precari, mentre accrescevano le differenze salariali tra padroni e operai. Lo Stato ha reagito alla protesta dei GJ con una violenza senza precedenti (almeno negli ultimi anni), che va molto oltre la portata degli scontri nelle strade, dei riots e dei danni provocati in molte delle manifestazioni promosse nelle città francesi. Questo spiega almeno in parte il diffuso sostegno al movimento da parte di molti settori della popolazione francese. Il tentativo di comporre un’opposizione di massa ai GJ attraverso il cosiddetto movimento dei ‘foulard rossi’ si è rivelato una mossa mediatica priva di un reale sostegno popolare. La situazione nel suo complesso richiede un supplemento di riflessione intorno ai limiti, alle potenzialità e alle sfide poste dai GJ.
Diversamente rispetto ad altre lotte come quella contro la loi travail, accesa dagli scioperi dentro i luoghi di lavoro e poi diffusasi nelle piazze come scioperi sociali e metropolitani, le proteste dei GJ stanno crescendo fuori dai luoghi di lavoro e dalle organizzazioni sindacali. Lungi dall’essere una semplice pratica dei blocchi stradali, l’attenzione alle rotonde e ai blocchi della circolazione ha creato spazi di incontro e comunicazione per la forza lavoro frammentata – impiegata o autonoma – delle reti di produzione francesi, la quale nonostante gli interventi infrastrutturali (ricordiamo che la Francia ha avuto i treni veloci, come il TGV, molto prima degli altri paesi) è costretta a fare affidamento su mezzi di trasporto autonomi per lavorare. Anche grazie agli smartphone e ai social media, utilizzati come strumento di discussione e coordinamento, un’intera popolazione di precari, lavoratori autonomi, lavoratrici domestiche, pensionati con pensioni da fame e giovani in cerca di un lavoro si sono uniti per far sentire la propria voce. Anche se il grosso dell’attenzione si focalizza su ciò che accade a Parigi, la peculiarità dei GJ consiste nella loro presenza capillare in tutta la Francia, dai piccoli villaggi alle medie e grandi città. Il movimento è vasto, forte e ampiamente diffuso. In un simile contesto, i membri dei sindacati hanno spesso preso parte agli incontri dei GJ, o li hanno incrociati in manifestazione, ma molti sindacati sono stati fin dall’inizio sospettosi nei loro confronti in quanto il loro movimento mette direttamente in discussione la volontà di controllo delle burocrazie sindacali. Inoltre, tra i GJ la disaffezione nei confronti dei sindacati, considerati distanti dai bisogni del popolo, è alta.
Iniziata come una rivolta contro il rincaro dei prezzi della benzina, il movimento dei GJ ha l’intento manifesto di rovesciare il presidente Macron. Contestualmente, essi richiedono un referendum dei cittadini (RIC, référendum d’initiative citoyenne) e la delegittimazione delle istituzioni rappresentative, governative e parlamentari, ritenute strutturalmente dalla parte dei ricchi e dei potenti. Non senza contraddizioni, i GJ stanno radicalizzando le loro rivendicazioni con il susseguirsi delle proteste, con richieste che mirano all’aumento del salario minimo, alla messa in discussione dell’iniquità fiscale, all’esenzione dal pagamento della CGS (la tassa che finanzia i fondi per la sicurezza sociale) per i pensionati, alla cessazione della chiusura dei servizi pubblici quali uffici postali, piccole stazioni ed ospedali, e alla reintroduzione della tassa sulle proprietà che colpisce i più ricchi e che è stata cancellata da Macron immediatamente dopo la sua elezione. Inoltre, il protagonismo delle donne tra i GJ, presenti negli incontri alle rotonde, nelle assemblee locali e nelle maggiori manifestazioni, è il segnale di una disaffezione strisciante, ma sempre più diffusa, nei confronti dell’incessante precarizzazione e dello smantellamento del sistema di welfare che, come sempre, appesantisce il carico di lavoro delle donne, su cui ancora gravano le principali responsabilità del lavoro riproduttivo, retribuito o meno.
La marcia delle donne a Parigi, letta in termini nazional-repubblicani come la protesta delle ‘madri della Repubblica’, non sembra rappresentativa del modo in cui le donne stanno politicizzando la loro presenza pubblica attraverso i GJ. Sono d’altra parte numerose le questioni che passano sotto silenzio e che mostrano quanto le gerarchie sociali, la frammentazione e le differenze prodotte dal comando logistico tormentino i GJ, all’ombra dell’opposizione alle élites e ai ricchi. Uno degli esempi principali è la questione delle migrazioni e del ruolo del lavoro migrante nel dominio dell’Europa post-austerity, una questione che pare quasi impossibile da affrontare senza che sorgano tensioni.
Ciò che risulta evidente è come il movimento riveli l’impossibilità di un semplice ritorno alla normalità, almeno per tre ragioni. La prima ha a che vedere con la scala e l’intensità dell’insurrezione: si tratta di un’ondata di politicizzazione che non dà segni di resa e testimonia una fondamentale disaffezione verso il sistema politico, mentre il dibattito nazionale promosso da Macron per distrarre i GJ non produrrà altro che effetti marginali. La seconda ragione è che, semplicemente, il governo di Macron non ha intenzione di cambiare direzione: il presidente esprime la quintessenza di una classe politica neoliberale (europea e globale) che crede nella supremazia del mercato ed equipara il welfare pubblico agli interessi commerciali. La caricatura che ritrae Macron come il burattino dell’alta finanza è superficiale, poiché il suo governo non è il solo schierato su questo fronte, e ricalca la linea tracciata dalle riforme neoliberali imposte con forza in tutta Europa dopo la crisi del 2008: esse includono le riforme del mercato del lavoro, che hanno normalizzato la precarietà, le riforme fiscali a beneficio dei più ricchi, delle aziende e degli imprenditori, tagli ai salari, un ulteriore smantellamento dei servizi pubblici, attacchi al diritto di sciopero. Abbiamo visto i segni di queste politiche in Germania con l’Hartz IV, in Italia con il Jobs Act, in Svezia con la proposta di legge volta a rendere illegale la maggior parte delle forme di sciopero, in Ungheria con la famigerata ‘slave law’. Il terzo elemento, troppo spesso trascurato, è che queste politiche sono connesse a trasformazioni globali che hanno mutato i limiti di ciò che gli Stati possono o non possono fare, aumentando le interdipendenze sul piano della mobilità del lavoro, della finanza, delle reti produttive e delle infrastrutture. L’intreccio della logistica dello sfruttamento prodotta da queste trasformazioni include le connessioni materiali e le politiche che si pongono all’origine sia della frammentazione con cui si stanno confrontando i GJ, sia delle interdipendenze con cui devono fare i conti nel proseguimento del movimento. Queste connessioni e interdipendenze non sono il prodotto di un potere impalpabile che ci opprime, ma il campo di tensione dove i limiti presenti possono essere messi a confronto e nuove possibilità possono essere scoperte.
Tutte queste dimensioni aprono dei quesiti sulle prospettive dei GJ. Come abbiamo detto, l’ordine non regna in Europa. Collocare questo movimento unicamente entro un contesto nazionale potrebbe quindi impedirci di vedere non solo che le stesse condizioni locali che tengono vivo il movimento sono il prodotto di trasformazioni più ampie, ma anche le possibilità politiche che si dispiegano se inserite in un orizzonte transnazionale: i GJ non sono soli nella loro rivolta. Collocando ciò che sta accadendo in Francia in questa dimensione transnazionale, le sfide e i limiti dei GJ si rivelano significativi per tutti noi. Mentre Macron, con il ‘dibattito nazionale’, cerca disperatamente di aggirare il confronto vis-à-vis su argomenti chiave – come il reddito, i salari, il sistema di previdenza sociale – ciò che è in ballo è la possibilità di colpire davvero le condizioni politiche contro cui i GJ stanno insorgendo, rifiutando l’idea che la soluzione possa provenire da un patto nazionale che accantona le questioni più spinose, come il razzismo istituzionale o le relazioni patriarcali, o da un’insurrezione generale contro ‘le élites’, laddove lavoratori e imprenditori possono congiuntamente cambiare le regole del gioco. Sul tavolo c’è anche la possibilità di riconoscere in ogni mobilitazione locale, in Francia come altrove, questa dimensione transnazionale come il terreno su cui lo scontro sta avvenendo e può esprimere tutto il suo potenziale. Adottare questa prospettiva transnazionale è anche l’unica strategia efficace per sottrarre il movimento al tentativo di esercitarvi un controllo da parte della destra e dei militanti nazionalisti.
Ciò che appare chiaro dopo più di due mesi di continue mobilitazioni è che i GJ hanno fatto i conti con diverse opzioni. Questo si riflette nelle direzioni divergenti che il movimento sta prendendo, l’una che sfida la falsa rappresentazione dei GJ come un’insurrezione di un generico ‘popolo francese’ e la seconda che vorrebbe imbrigliare il movimento in uno schema patriottico (tentativo perseguito in modi differenti sia da Macron sia dai gruppi di estrema destra). La prima direzione suggerisce che l’interruzione diffusa della pace sociale è necessariamente ricondotta agli scioperi nei luoghi di lavoro per superare le divisioni tra sindacati. La seconda è l’istituzionalizzazione del movimento dei GJ, che include l’ipotesi di formare una lista elettorale (che alcuni sondaggi darebbero a più del 10%) e concorrere alle prossime elezioni europee. Una terza opzione consiste nella continuazione del movimento attraverso assemblee cittadine e discussioni pubbliche, in parte confrontandosi con il grande dibattito nazionale promosso da Macron. È chiaro che le ultime due ipotesi rappresenterebbero per il movimento una sostanziale sconfitta che implicherebbe una normalizzazione senza alcuna conquista immediata, mentre la prima rimette in gioco il presupposto per una crescita graduale a lungo termine e offre un elemento di interesse rilevante rispetto alle questioni sollevate dai GJ sin dal loro esordio. Se alcuni sindacati (ad esempio Solidaires) hanno dichiarato fin dal principio il loro sostegno a uno sviluppo autonomo del movimento, altri (come la CGT) sono stati infine obbligati a passare all’azione dopo mesi di esitazione e tentativi di distanziarsi da un movimento definito all’inizio come ‘violento’. Lo sciopero generale chiamato dalla CGT il 5 febbraio si è configurato così come un tatticismo del sindacato, costretto ad agire per tenere i suoi ranghi e le sue fila sotto controllo. Esso indica però allo stesso tempo un’opportunità strategica per chi tra i GJ vorrebbe estendere l’insurrezione ai luoghi di lavoro ed espandere la dinamica dello sciopero. Se, fino ad ora, le pratiche dei GJ hanno incluso forme di sciopero metropolitano e sociale, il coinvolgimento dei luoghi di lavoro può puntare al sovvertimento dell’immaginario di un’opposizione contro il governo e le élites. Tuttavia, lo sciopero generale della CGT non rappresenta un momento decisivo, almeno nella misura in cui non ci saranno singoli momenti ‘decisivi’, ma potrebbe essere un momento di accumulazione di forza e di ulteriore circolazione dello sciopero come pratica di insubordinazione di massa. Il punto della questione non è un’alleanza o addirittura una convergenza con i sindacati fine a se stessa, ma la possibilità di stabilire il carattere della lotta oltre alla semplice opposizione al governo. Invece di settorializzare le loro pratiche e le loro rivendicazioni, rispecchiando i limiti dei sindacati, i GJ possono imporre una politicizzazione delle pratiche e delle rivendicazioni sindacali, promuovendo un uso differente dello sciopero.
È all’interno di questo processo di accumulazione di forza che i GJ hanno bisogno di sfidare i limiti della loro radicale opposizione a Macron. Mettiamo in chiaro le cose: Macron deve cadere. Ma attraverso questa rivendicazione è l’intero sistema simboleggiato da Macron, costruito negli anni e parte di una condizione globale, che deve essere attaccato. Per farlo, la radicalizzazione dell’opposizione contro il governo di Macron rappresenta solo un antagonismo. Quello che deve essere evitato, è di offrire a Macron e alla sua banda l’opportunità di trovare alleati attraverso i confini, perché il mondo è nostro, non loro.
Ciò che deve essere aggiunto, perciò, è la capacità di spingere le differenti dimensioni dello sciopero, dentro e fuori i luoghi di lavoro, e trasformarlo in un’arma politica capace di estendere la rivolta contro l’impoverimento e i privilegi per produrre un’insubordinazione generale contro il comando logistico, che si impone su milioni di donne e uomini, in Francia e ovunque; per connettere il protagonismo delle donne che rifiutano l’ordine patriarcale della società, come dimostrato dallo sciopero globale delle donne; per superare il tabù del lavoro migrante, che con i suoi movimenti sciopera contro il razzismo istituzionale che colpisce i migranti e obbliga tutti quanti ad accettare le gerarchie sociali e il regime del precariato.
Oggi, il movimento dei GJ deve far fronte a una grande sfida: le difficoltà, le differenze e le fratture interne al movimento devono essere affrontate e trasformate in una fonte di potere, per contrastare i tentativi di mettere fine al movimento e continuare a raccogliere la forza necessaria a rovesciare lo stato di cose, trovando alleati nelle quotidiane insubordinazioni del nostro presente. La stessa sfida si pone a tutti quei movimenti insubordinati che stanno scioperando contro quelle manovre che vorrebbero fare dell’Europa una fabbrica di uomini e donne docili, consegnati allo sfruttamento e ai giochi di potere dei loro governanti.