di LEVFEM (BULGARIA) E TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM
L’intervista alle compagne del collettivo bulgaro LevFem mostra come il movimento globale che da tre anni ha portato lo sciopero femminista nelle piazze di tutto il mondo sia arrivato fino al cuore dell’Europa orientale e stia mettendo in discussione strutture patriarcali consolidate. L’intensificazione della violenza sessuale contro le donne ha scatenato lo scorso autunno una reazione di rabbia seguita da un’ondata di proteste che hanno ricevuto il sostegno da più parti in Europa e nel mondo. Al centro delle proteste ci sono trasformazioni di segno neoliberale e neoconservatore che puntano a imporre alle donne contemporaneamente il destino di madri della nazione e di lavoratrici instancabili incaricate di salvare il capitalismo e assicurarne la riproduzione. L’intervista, che attraversa la storia recente della Bulgaria mostrando le radici dell’intreccio attuale di politiche razziste, patriarcali e di precarizzazione, legge il transnazionale tanto come il livello su cui l’attacco alle donne è scagliato, quanto come la necessaria dimensione di un’iniziativa politica per la libertà delle donne e di tutte le soggettività che rifiutano l’oppressione. L’8 marzo, sebbene lo sciopero generale potrebbe non essere il risultato immediato della mobilitazione in corso, anche le donne bulgare scenderanno in piazza contro la violenza maschile, contro lo sfruttamento e contro il razzismo.
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Transnational Social Strike Platform: Potresti dirci della nascita del movimento #notalone in Bulgaria? Chi ha preso l’iniziativa e perché avete scelto anche l’hashtag #metooBG per identificare la vostra iniziativa?
LevFem: Benché il movimento sia stato attivo per un periodo più lungo, potremmo dire che è diventato più visibile, più radicato e operativo lo scorso autunno. Probabilmente questo cambio di passo è avvenuto grazie a una combinazione di eventi. In primo luogo, molti hanno percepito una violenza politica quando la ratifica della Convenzione di Istanbul è stata messa in discussione e, alla fine, dichiarata incostituzionale. Oltre a questo, sia l’alto numero di femminicidi nel corso dell’anno sia uno specifico caso di molestia in strada, che ha creato molto scalpore, hanno scatenato un’ondata di rabbia e un comune percezione che si fosse superato il limite: quando è troppo è troppo. L’hashtag #metoo è stato usato da molte persone come gesto di solidarietà proprio in occasione di quel caso di molestia a cui ho accennato e che ha coinvolto una di noi. LevFem è nata nel bel mezzo di questa ondata di rabbia, di sdegno, caratterizzata però, allo stesso tempo, da un forte senso di liberazione; senso di liberazione dettato dal fatto che, alla fine, in moltissimi si sono uniti, e si sono uniti per lottare insieme.
TSS: Sembra però che, se da una parte la questione della violenza sessuale e dell’abuso in senso stretto sia stata il catalizzatore del movimento (il rifiuto del governo di ratificare la convenzione di Istanbul, il numero crescente di femminicidi, lo stupro e l’omicidio della giornalista Victoria Malinova), dall’altra le richieste vanno ben oltre questo problema, dal momento che l’oppressione patriarcale viene riconosciuta come un fenomeno strutturale e come un pilastro fondamentale dell’organizzazione complessiva della società. Potresti dirci di più su questo?
LevFem: L’aumento del numero di casi di violenza di genere, che ha portato all’omicidio di 35 donne nel solo 2018, è stata la scintilla che ha acceso la protesta del 26 novembre 2018. Il modo in cui noi come gruppo abbiamo deciso di partecipare alla protesta e di contribuire alla mobilitazione era legato alla necessità di sottolineare in modo più incisivo i legami tra violenza fisica e violenza strutturale e di sottolineare la necessità di un approccio trasversale ai fini della comprensione delle varie forme di oppressione. È importante sottolineare che il movimento di protesta stesso era eterogeneo e comprendeva una molteplicità di attori diversi tra loro, tra i quali va ricordato chi ha curato l’organizzazione vera e propria, ovvero il Bulgarian Fund for Women (BFW), a cui si sono aggiunti vari gruppi di attivisti e ONG. Il BFW ha reso pubbliche le proprie rivendicazioni, che riconoscono la necessità di cambiamenti legislativi riguardo la violenza di genere, la quale colpisce in modo sproporzionato le donne, nonché la necessità di aprire centri specializzati per le vittime di tale crimine e di fornire una formazione mirata per coloro che lavorano con le vittime in questione.
In parallelo a ciò, LevFem ha formulato otto richieste aggiuntive che abbiamo visto come complementari a quelle del BFW. Tali richieste affrontano questioni socio-economiche e strutturali, tra cui: l’aumento dell’assistenza parentale e delle pensioni; il ritiro della proposta dell’Associazione industriale bulgara, in virtù della quale il congedo di maternità non dovrebbe essere conteggiato per le ferie annuali; la fine delle pratiche scorrette dei datori di lavoro che non versano i contributi sociali sulla base dei salari reali; l’aumento degli aiuti sociali in relazione alla maternità; la necessità di contrastare una narrazione anti-rom assai diffusa nel paese; la possibilità per tutti di accedere agli ospedali e di ricevere sussidi statali più alti; e così via. Le nostre richieste, ovviamente, non esauriscono il problema di porre fine all’oppressione patriarcale e ai suoi nessi con altre forme di dominio come il razzismo o il modo capitalistico di organizzare la vita delle persone. Non di meno, crediamo siano un modo per gettare luce sui fronti molteplici e interconnessi su cui dobbiamo lottare per cambiare davvero questa società gerarchica.
Parlare di ‘oppressione patriarcale’ può essere ritenuto anacronistico o mistificatorio solo nella misura in cui gli aspetti sociali e materiali di tale oppressione vengono sistematicamente negati. Dare un’occhiata ai dati statistici (come quelli pubblicati di recente da Oxfam che mostrano come siano le donne francesi a subire più di tutte povertà ed esclusione sociale), fare i conti con il fatto che una donna su quattro in Bulgaria ha subito violenza domestica, leggere i report sulle condizioni inumane del lavoro nelle fabbriche, restituisce a ciò che sosteniamo una dimensione dolorosamente concreta che necessita una risposta collettiva.
TSS: Le misure neoliberali come i tagli al welfare – fortemente sostenuti dall’Associazione degli industriali bulgari, almeno per quanto concerne la riduzione dei benefit per il congedo per maternità – si combinano con un discorso neoconservatore che incoraggia le donne a essere madri. Tali politiche e discorsi appaiono contraddittori, quale pensi sia il loro legame?
LevFem: Se vivi in Bulgaria ti viene ricordato continuamente del crollo demografico in corso e in cui, ovviamente, emigrazione e tassi di natalità vanno di pari passo nel porre rimedio ai problemi della nazione e del mercato. Numerose campagne fanno leva sul senso di colpa e incoraggiano le donne a mettere a valore le proprie capacità riproduttive. Mi viene in mente una campagna promossa recentemente da una famosa emittente televisiva chiamata «Fallo per la Bulgaria». Il suo motto è: «Per battezzarlo, deve prima nascere». È evidente il modo in cui la nazione, i suoi valori cristiani e le disattese funzioni riproduttive delle donne si intrecciano per produrre un clima di panico generalizzato. Simili campagne sono sempre accompagnate da notizie riguardanti il calo degli indici di natalità e da comparazioni con anni passati che in qualche modo culminano sempre nella previsione che molto presto il numero di bulgari verrà sopravanzato da quello dei rom. Dunque la questione non riguarda tanto la nascita di bambini, quanto quella dei giusti bambini, ovvero bulgari ‘bianchi’ nati al fine di realizzare le fantasie etero-normative di purezza della nazione. È davvero uno scenario da «Figlio dell’Uomo» quello che viene riprodotto ogni anno, uno scenario in cui le donne giocano il ruolo di soggetti responsabili della costruzione della nazione.
Allo stesso tempo, le persone in Bulgaria sono molto spesso forzate in una condizione di povertà ed esclusione sociale dovute al fatto che la Bulgaria, rispetto agli altri paesi membri dell’UE, è quella che spende meno per il welfare secondo i rapporti dell’Eurostat. Anche solo pensare di fare dei figli in un simile contesto di impoverimento del lavoro e previdenza sociale ai minimi termini è un atto di eroismo. La guerra al welfare è iniziata esplicitamente a partire dai mutamenti degli anni Novanta, in un contesto in cui le precedenti forme di socializzazione dei mezzi di produzione e riproduzione sono state cancellate per imporre le riforme di mercato e la competizione come nuove forme dell’organizzazione economica. Trent’anni dopo, il «business» richiede ancora altri tagli e i dibattiti recenti sul congedo di maternità sono indicativi. Le lobbies del business e i padroni hanno paura di due cose: la mancanza della forza lavoro nel paese e che le donne perdano le loro abitudini sul lavoro a causa della lunga durata del periodo di maternità. Quindi, proprio in questo caso vediamo come la responsabilità della donna sia anche di essere una «brava» operaia: un’operaia che è sempre al passo con le ultime esigenze del mercato, disponibile a essere una sua leale produttrice, anche nel senso di produrre altra forza lavoro per i suoi bisogni.
Vediamo come «natura» ed «economia» si presentino insieme per produrre il soggetto postsocialista di donna che è sia biologicamente determinata a salvare la nazione sia economicamente responsabile di salvare il mercato. Questa è forse la classica «doppia oppressione» dalla quale i Marxisti e le femministe di sinistra cercano di disfarsi e criticano spietatamente. È comunque importante sottolineare che ciò che si sta strutturando è una configurazione postsocialista in quanto l’oppressione attuale è ancora più scioccante per molte donne nel paese. Abbiamo recentemente ricevuto una lettera da una donna che è cresciuta durante il socialismo e che ha cresciuto la propria figlia negli anni successivi alle riforme. La sua lettera è stata incredibilmente illuminate per noi dal momento che ha raccontato di quanto fosse critica del regime socialista mentre ci viveva dentro mentre oggi si rende conto di come quel cosiddetto «totalitarismo» fosse molto più progressista rispetto a quello che le donne sono costrette a sopportare oggi.
Ma la ragione per cui menzioniamo l’aggettivo «postsocialista» come attributo della donna come soggetto oggi non è casuale. Pensiamo che «postsocialista» abbia certamente il potenziale di storicizzare e quindi di dare potere alle donne come soggetti storicamente definiti che hanno lottato e ottenuto delle vittorie, ma anche di indicare nuove lotte che considerino in maniera critica e vadano oltre a quello che è stato ottenuto dai nostri predecessori. Per esempio, la doppia oppressione di dover gestire la casa e, contemporaneamente, andare al lavoro non fu completamente eliminata durante il socialismo, ma almeno c’erano alcuni tentativi seri di socializzare i mezzi di produzione. Le socialiste femministe bulgare sono state fortemente critiche della lentezza del cambiamento in questa direzione. Anche per sociologhe come Nikolina Illieva – che ha scritto verso la fine degli anni Settanta e che spesso ha naturalizzato la funzione biologica del corpo delle donne nel processo lavorativo come mezzi della loro esclusione da alcune professioni – era chiaro che il Partito dovesse lavorare più duramente per eliminare le diseguaglianze ancora esistenti nella sfera sociale tra uomini e donne, citando l’alta partecipazione delle donne all’«economia personale» come elemento estremamente problematico e inaccettabile per le economie socialiste. Possiamo dire che ci fu una lotta dentro e fuori dal Partito e che le donne non sono rimaste sedute in silenzio come molti commentatori cercano di convincerci oggi.
Oggi, la responsabilità della cura dei figli è strutturata come una responsabilità del nucleo familiare e ricade soprattutto sulle spalle delle donne. Ciò non è solo dovuto al fatto che i mezzi di produzione sono de-socializzati, ma anche il fatto che l’economia morale del neoliberalismo ci insegna che devono essere privatizzati per rendere al meglio. Come si può immaginare, la privatizzazione è galoppante e oltretutto la legge è stata recentemente cambiata per fare in modo che asili nido privati, scuole private, etc. ricevano sussidi statali. Questo è un furto evidente a danno dei poveri che avvantaggia solo i ricchi.
A questo proposito, neoconservatorismo e neoliberalismo lavorano insieme in modo perfetto. Le donne sono ridotte a soggetti responsabili per la produzione della forza lavoro (facendo quindi affidamento sulle loro capacità riproduttive) mentre simultaneamente devono essere lavoratrici affidabili, che recuperano, o magari migliorano, le loro capacità lavorative velocemente e senza lamentarsi troppo.
TSS: Sembrerebbe inoltre che i tagli al welfare siano giustificati attraverso un discorso razzista, che ad esempio colpevolizza le donne rom per la loro «eccessiva procreazione», vista come una sorta di parassitismo del welfare. Potresti dirci qualcosa di più su questo intreccio tra discorso razzista e patriarcale e le politiche in atto?
LevFem: Questo intreccio non è affatto casuale. Quando nel 1990 la Bulgaria trasformò la propria organizzazione economica, questo ebbe l’effetto di riconfigurare le altre riforme sociali. Il cambio nel regime della proprietà, per esempio, ha avuto un impatto terribile sui processi di razzializzazione e le forme di oppressione delle donne. Se vogliamo guardare al contesto più ampio, dobbiamo tornare alla cosiddetta transizione, che, com’è ben noto, ha portato alla liquidazione delle imprese statali, alla privatizzazione di massa, e di conseguenza a un altissimo numero di disoccupati.
C’è stato un aumento di quasi 100 volte del numero di disoccupati in solo tre anni: dai 65.079 registrati ufficialmente nel dicembre del 1990 a 626.141 nel dicembre del 1993. Come ci si può aspettare, i primi a rimanere senza lavoro nelle nuove realtà capitaliste erano i rom. Ma ciò non significò soltanto la perdita del salario, ma anche delle proprie case. Tra le politiche socialiste a favore dei rom, c’era la fornitura di alloggi. Dopo il 1990, tuttavia, quando cominciò la restituzione, un alto numero di famiglie rom persero le loro case, considerate ormai come fossero di proprietà privata. Inoltre, un processo che è ancora in atto e porta spesso a scontri violenti, è quello per cui le case delle famiglie rom vengono considerate frutto di accordi «illegali», proprio a causa dei cambi del regime di proprietà e la conseguente deregolamentazione di questi accordi abitativi. Un altro accordo che è stato ridimensionato dopo l’era socialista è quello per cui le imprese statali spesso davano l’abitazione alle famiglie rom che erano destinatarie di ingenti aiuti. Con il passaggio dalla proprietà pubblica a quella privata, queste abitazioni divennero di proprietà privata delle aziende, che, ovviamente, preferirono usare le case per profitti privati anziché per scopi sociali.
Con tutto ciò non si vuole romanticizzare il socialismo. Come spiegano le sociologhe e antropologhe bulgare Maya Grekova e Mativa Ivancheva, ci sono state numerose contraddizioni in questi processi. Quel che conta per noi adesso è il fatto che oggi assistiamo alla totale oscillazione di questi processi. I rom vengono sfrattati dalle loro case illegali, lasciati senza niente in cambio e razzializzati esattamente attraverso il «parassitismo del welfare» che menzionavi. L’immagine della «giovane donna rom che fa troppi figli e approfitta dei servizi sociali» è solo una tra le tante immagini del genere, che evidenzia gli effetti degli ultimi trent’anni e che tormenta maggiormente i rom. Simili immagini e cliché razzializzati sono sovente utilizzati per giustificare ulteriori tagli alla previdenza sociale, in particolar modo negli ambiti dei servizi per l’infanzia, della sanità e dell’educazione. Tali processi peggiorano la segregazione razziale nel paese, assicurano il «via libera» per ulteriori e più estreme politiche neoliberali, perlopiù a favore del capitale, e rendono ancora più profonda la diffidenza tra gruppi sociali che in realtà condividono interessi molto simili. Il meccanismo della «guerra tra poveri», come dice la sindacalista Vanya Grigorova, non è affatto un’invenzione bulgara. Vediamo gli stessi schemi in tutta Europa, dal Regno Unito, passando per la Germania e l’Italia, fino all’Ungheria e alla Romania, tanto per nominarne alcuni, ma anche in molti contesti nazionali fuori dall’Europa (come negli Stati Uniti o l’Australia). La frammentazione che ne risulta è uno dei più potenti ostacoli sulla via della solidarietà intersezionale e la progressiva mobilitazione politica.
TSS: Sin dal principio della vostra lotta, avete cercato un appoggio transnazionale, ed effettivamente lo avete ottenuto, dal momento che avete ricevuto dall’estero molte dichiarazioni di solidarietà e in diverse città si sono svolte manifestazioni per sostenervi. Puoi spiegare perché questa visione transnazionale è così importante per voi e il modo in cui siete state ispirate dalla sollevazione globale delle donne?
LevFem: Questa domanda è molto importante e tocca aspetti diversi. Da una parte, cercando un appoggio transnazionale, volevamo dimostrare che una lotta per mettere fine alla violenza di genere in Bulgaria e per sollevarsi contro il patriarcato non è semplicemente «un problema nostro». È un esplicito atto anti-identitario e può essere utile sottolinearlo qui, in particolare nel momento in cui le lotte femministe o anti-razziste tendono ad essere frequentemente marginalizzate (ahimè anche dai «compagni» delle nostre stesse fila) perché ascrivibili alla politica delle identità. Piuttosto che stabilire l’«identità Bulgara» o il «sesso femminile assegnato alla nascita» come precondizioni della solidarietà, affermiamo che è sulla base di preoccupazioni, rivendicazioni, affinità e interessi di classe politici e parzialmente condivisi che abbiamo la necessità di organizzare la nostra azione. Cerchiamo di imparare delle proteste delle donne a Madrid, ci meravigliamo alla vista della catena umana in Kerala, inviamo il nostro supporto alle insegnanti della Lituania e scriviamo delle assemblee a Buenos Aires. Manifestiamo in solidarietà alle lotte così come riconosciamo non solo le cause comuni della nostra agitazione ma anche la possibilità di costruire un terreno comune contro le forme di oppressione che le hanno provocate. Se il tardo capitalismo tende alla frammentazione e all’isolamento dei soggetti mentre colonizza le menti, le emozioni, lo spazio e il tempo, è allora più che mai necessario costruire alleanze per contrastare questa frammentazione. Chiedere solidarietà – e riceverne in modo così travolgente – ci ha dimostrato che esistono altri soggetti politici che condividono questa consapevolezza.
D’altra parte, c’è un ulteriore aspetto relativo alla specificità delle mobilitazioni nella Bulgaria post-socialista. Per esempio, alcune frange liberali delle proteste anti-governative Bulgare del 2013 provarono a legittimare il loro impegno cercando supporto da figure estere: i manifestanti organizzarono flash-mobs e azioni artistiche di fronte alle ambasciate dei paesi dell’Europa Occidentale e celebrarono le apparizioni pubbliche degli ambasciatori di stati come la Germania e la Francia durante le dimostrazioni – tutto ciò nel tentativo di articolare una critica ai partiti di governo, accusandoli di non essere sufficientemente «europei». Si tratta di uno strumento inutile poiché infantilizza fortemente i soggetti della protesta collettiva attraverso un atto di auto-colonizzazione, in cui l’«Europa» è vista come il solo metro della democrazia e del progresso. Così, per noi che cerchiamo di spostare a sinistra la protesta contro la violenza di genere, era un problema utilizzare strategicamente uno strumento già familiare «a casa» – ossia ottenere «supporto internazionale». Ma allo stesso tempo la natura dei messaggi che ricevevamo destabilizzava il senso comune secondo cui «internazionale» è inequivocabilmente sinonimo di un discorso neoliberale, acriticamente pro-europeo o umanitario.
È una questione importante che deve essere rilevata nella configurazione post-socialista (e anticomunista) dal momento in cui l’esistenza di organizzazioni e soggetti politici di sinistra, le loro pratiche passate e presenti, sono raramente considerate «europee» o «globali» quando narrate dal punto di vista della Bulgaria – un paese costantemente impegnato nell’eradicazione della sua stessa storia di dissenso di sinistra, nello sforzo di diventare «più europea». Perciò nella raccolta di messaggi critici e manifestamente di sinistra in solidarietà alla nostra lotta, abbiamo provato a liberarci da questo pericoloso consenso.
TSS: L’8 marzo 2019 si terrà il terzo sciopero globale delle donne che coinvolgerà moltissimi paesi. Appropriandosi di uno strumento nato nell’alveo dei movimenti operai e reinventandolo, le donne sono riuscite a denunciare la connessione esistente tra la violenza patriarcale e le trasformazioni neoliberali della società, facendo saltare anche il discorso portato avanti dal femminismo neoliberale. Inoltre, si presenta oggi il problema di rispondere agli imponenti attacchi di natura reazionaria sferrati alle donne dai governi di destra di tutto il mondo. Avete in mente di lanciare uno sciopero e credete possa essere un’opportunità per dare forza al vostro movimento?
LevFem: I movimenti bulgari e le ONG saranno in piazza l’8 marzo e alcune organizzazioni politiche, inclusa LevFem, stanno pianificando una giornata di mobilitazione. Tuttavia, lo sciopero, per diverse ragioni, non è detto sia il risultato dei nostri sforzi. Innanzitutto, bisogna ricordare che durante il socialismo l’8 marzo, una festa marcatamente socialista e femminista, è stato in qualche modo cooptato e reso superfluo: è diventato una festa simbolica in cui gli uomini regalano alle proprie colleghe un mazzo di fiori, più come un gesto di galanteria che come segno di solidarietà e sostegno alle nostre lotte. In questo senso è molto importante fare appello al significato più radicale di questa festa per i diritti di genere, ma anche estenderla ai diritti sociali, del lavoro ed economici, ovvero varcare i limiti del ‘femminile’ – focalizzandosi sulle intersezioni con le lotte per i diritti delle minoranze etniche e sessuali. Si tratta però di un processo che richiede tempo e noi siamo solo all’inizio, la maggioranza considera ancora questa festa o ‘comunista’ (ovvero, negativa), o come giornata di vuota galanteria.
In secondo luogo, noi siamo un piccolo gruppo appena nato e con capacità molto limitate di contribuire a una grande mobilitazione – non solo ci siamo formati un paio di mesi fa, ma siamo anche donne e attiviste queer che spesso vivono fuori dalla Bulgaria e/o in condizioni lavorative molto precarie. Questa situazione così complicata non riguarda solo LevFem, ma tutto il campo della sinistra in Bulgaria e in Est-Europa in generale. Questo non per dire che non possiamo o non faremo di tutto per dar vita a qualche mobilitazione volantinando e facendo campagna prima dell’8 marzo e promuovendo iniziative durante la giornata, ma l’idea di uno sciopero generale delle donne va oltre le nostre possibilità al momento. Abbiamo appena lanciato il nostro secondo appello affinché donne e queer vittime di condizioni lavorative precarie, discriminazione sui luoghi di lavoro o nelle istituzioni pubbliche, che sanno che cosa significhi migrare e avere a che fare con il sistema d’accoglienza bulgaro, imprigionate o in condizioni di salute problematiche, ci mandino delle lettere di denuncia in tal senso. Vogliamo dare spazio a queste voci così che possano condividere le loro esperienze al fine di evidenziare la compenetrazione di sistemi gerarchici di oppressione come il patriarcato, il capitalismo e il razzismo. Inoltre, consideriamo questa mobilitazione un’opportunità per stabilire delle connessioni con i rom progressisti, i migranti, organizzazioni queer e operaie del paese, per tessere insieme una rete più estesa e pianificare in futuro azioni e iniziative. Infine, stiamo cercando opportunità di cooperare con altri gruppi dei paesi dell’Est Europa in quanto i femminismi e le donne dei nostri paesi si trovano di fronte difficoltà simili nel contesto di una crisi generale della riproduzione sociale che si sta verificando in tutto il mondo.