Il primo atto di Vitkor Orbán, dopo essere diventato primo ministro ungherese nel 2010, è stato quello di varare il cosiddetto strike act, un provvedimento volto a neutralizzare lo sciopero con la scusa di regolare i servizi minimi che devono essere garantiti: per quasi ogni settore è ora un giudice a stabilire quali siano i servizi che devono essere assicurati e se lo sciopero ha connotati politici tali da renderlo illegale. La possibilità di dichiarare lo sciopero viene quindi subordinata all’arbitrarietà di un potere giudiziario peraltro sempre più dipendente dal governo. Mentre dichiarava guerra ai migranti in transito e mentre si ergeva a campione della tradizione cristiana europea, il premier ungherese mandava un chiaro messaggio al capitale transnazionale: il mito della rinascita nazionale avrebbe assicurato una forza lavoro docile e senza diritti sindacali. L’intento di eliminare qualsiasi ostacolo al dominio del capitale sul suolo ungherese è stato perseguito con la stessa determinazione con la riforma del codice del lavoro del 2012. La riforma aveva l’obiettivo di rendere il mercato del lavoro ungherese «il più flessibile del mondo», togliendo limiti alle possibilità di licenziamento senza giusta causa, mettendo fuori gioco i già deboli sindacati e promuovendo la «contrattazione» diretta tra lavoratori e azienda. Secondo i piani del governo ciò avrebbe dovuto creare entro il 2020 ben un milione di posti di lavoro, grazie anche agli ingenti fondi pubblici stanziati per sovvenzionare il trasferimento di impianti industriali e alla tassazione per corporation più favorevole d’Europa.
Le cose però sono andate diversamente. Centinaia di migliaia di ungheresi hanno disertato il patto nazionale di Orbán nell’ultimo decennio emigrando in massa. Più di seicentomila ungheresi oggi vivono in altri paesi dell’UE. La portata della mobilità alla ricerca di un salario e di una vita migliore è evidente se si considera che oltre il 3% del PIL ungherese è costituito dalle rimesse mandate dai migranti residenti all’estero. Le promesse di Orbán non hanno dunque convinto quel popolo a cui pretende di rivolgersi: gli ungheresi hanno praticato in massa uno sciopero con i piedi contro le condizioni politiche del lavoro imposte dal governo. Le stesse promesse hanno però convinto molte imprese, in particolare tedesche e del settore automobilistico, a trasferire in Ungheria i loro impianti. Il risultato è che ci sono le fabbriche, ma mancano gli operai disposti a lavorarci. Il populismo del capitale sembra incapace di garantire l’armonico incontro tra capitale e lavoro.
Ecco allora l’ennesima trovata del capo di Stato Orbán: la famigerata slave law, ultimo atto dell’ormai decennale processo di erosione dei diritti dei lavoratori ungheresi, che ha portato a una sollevazione generale in tutto il paese. La legge aumenta da 250 a 400 le ore possibili di straordinario all’anno, ovvero in media due ore in più al giorno o un giorno in più alla settimana. Benché sulla carta ci sia la possibilità di rifiutare le ore aggiuntive, nei fatti lavoratori e lavoratrici potranno essere ricattati e messi di fronte alla «libera» scelta di accettarle o essere licenziati. In aggiunta, il pagamento degli straordinari è dilazionato fino a tre anni, per consentire alle imprese straniere, che già possono permettersi di pagare stipendi più bassi del 60% della media europea, di contabilizzare i salari nel modo più favorevole, spesso evitando proprio di pagarli. Prolungare il pagamento fino a tre anni significa infatti che, se un contratto finisce prima del decorso dei tre anni, come spesso accade vista la «flessibilità» contrattuale o l’alta mobilità, il pagamento degli straordinari non è affatto assicurato. Lo spopolamento nelle fabbriche viene così combattuto cercando di far lavorare più ore chi già è al lavoro; tentando senza successo di riportare i giovani ungheresi «a casa» attraverso una serie di miseri incentivi economici; cercando di estendere anche alla fabbrica, oltre che ai servizi di «pubblica utilità», il programma workfaristico di lavoro gratuito destinato ai disoccupati rimasti nel paese; impiegando manodopera minorile tramite programmi di «tirocini formativi»; assumendo decine di migliaia di migranti rumeni, serbi e ucraini, alla faccia del mantra della chiusura nazionale.
Anche stavolta, però, le cose non stanno andando secondo i piani di Orbán. Un’ondata di proteste sta investendo da più di due mesi il paese. Si tratta di un dissenso ampio e trasversale, che ha invaso le strade e le piazze. Un rifiuto delle condizioni politiche della messa al lavoro di cui il populismo del capitale si fa strumento, che avviene nonostante la legge sugli straordinari sia stata venduta come una misura vicina agli operai, i quali, nella società del lavoro propagandata da Orbán, sarebbero finalmente liberi di lavorare quanto più possibile, cosa che ha fatto affermare a molti che «evidentemente Orbán non ha mai avuto un padrone». Negli ultimi cinquanta giorni primo ministro ha scoperto di avere i piedi di argilla, e la rete di potere costruita attorno a lui non è bastata a contenere la rivolta. Se infatti, in passato, le proteste erano confinate alla capitale, stavolta hanno coinvolto tutto il paese, comprese le zone periferiche, e si sono estese anche oltre i confini nazionali: da Bruxelles a Toronto, da New York a Oslo, fino a Berna e Dublino, Londra, Amsterdam e Berlino, sono state tante le proteste organizzate da migranti ungheresi in giro per il mondo. L’acronimo O1G, che nasce dalla frase Orbán egy gecy (letteralmente «Orbán è uno spermatozoo») e che ha ormai dato il nome al movimento di resistenza nel suo complesso, appare ovunque, sui muri e sulle banconote, sulla neve e sulle auto in sosta. In diverse occasioni in Ungheria è stata ripresa la simbologia dei gilets jaunes, così come la modalità di lotta dei blocchi stradali. Una tra le tante nottate di protesta degli ultimi due mesi, in cui decine di migliaia di ungheresi hanno sfidato le temperature sottozero e la repressione della polizia, si è conclusa davanti agli uffici centrali della televisione di Stato per denunciare l’assenza di libertà di informazione. Il 90% delle fonti di informazione si trova infatti sotto controllo diretto o indiretto del governo, mentre quelle che non hanno voluto subire la medesima sorte sono state costrette a chiudere. In aggiunta, solo negli ultimi otto anni il governo ungherese ha speso direttamente 216 milioni di euro per la propaganda, una cifra che continua a crescere di anno in anno.
Altro luogo centrale delle proteste dello scorso dicembre è stato la residenza del Presidente della Repubblica János Áder, per spingerlo a non firmare la «legge schiavista», cosa che invece ha fatto addirittura in anticipo, sperando così di indebolire la manifestazione programmata per il giorno successivo. Chi ha parlato davanti a Palazzo Sándor ha però messo in chiaro che le proteste non si sarebbero concluse con la fine dell’anno, e così è stato. La «legge schiavista» è diventata il punto di precipitazione di un movimento di protesta che si alimenta delle lotte degli anni scorsi contro il trasferimento a Vienna della Central European University, contro la chiusura dell’Accademia delle scienze e contro i tagli ai fondi per le università pubbliche, contro la repressione subita dai movimenti, contro la progressiva limitazione della libertà del potere giudiziario dovuta a una Corte costituzionale fortemente lealista e di un’altra norma approvata a dicembre, volta a rafforzare ulteriormente il comando politico sul lavoro attraverso la magistratura. Obiettivo del movimento non è solo abrogare una singola norma, ma rifiutare un intero modello di società, che ha il suo centro nella combinazione di razzismo, patriarcalismo e comando logistico sul lavoro. Non a caso, in piazza c’era anche la comunità Rom, vittima da anni di un ceto politico che la riconosce come corpo estraneo alla nazione. Non a caso, nel paese che rifiuta la convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, in cui muore una donna alla settimana per mano di familiari, che ha introdotto la violenza domestica come reato solo dopo lo scandalo del 2013 – che ha avuto come protagonista un parlamentare di Fidesz colpevole di aver rotto il naso alla sua compagna – in prima linea nelle proteste ci sono le donne.
Proprio le donne sono uno dei pilastri del patto nazionale proposto da Orbán. L’affermazione ideologica della maternità come lavoro per il futuro del paese minacciato da un grave calo demografico serve a imporre loro un presente di sfruttamento intensificato, sui posti di lavoro e nelle case: le donne servono sia nelle fabbriche, sia tra le mura domestiche. Gli incentivi per chi fa figli che sorreggono questo patto patriarcale sono destinati esclusivamente ai nuclei familiari, con esenzioni fiscali sul salario più alto tra i due genitori che rinsaldano il potere dei mariti sulle mogli. In Ungheria come altrove la politica di precarizzazione del lavoro e di tagli ai servizi pubblici non sarebbe sostenibile se le donne non colmassero le falle del welfare e non garantissero la riproduzione di una forza lavoro sempre più impoverita. D’altra parte, la costante riproduzione di questa subalternità serve a fare delle donne un segmento di forza lavoro sempre più ricattabile e obbligato ad accettare i salari più bassi. A questo serve affermare che le donne sono le madri della nazione e legittimare istituzionalmente la violenza maschile. Per questo le donne alzano la testa e sono protagoniste delle proteste.
Anche la posizione di Orbán in Europa è espressione delle vorticose traiettorie politiche del populismo del capitale. A settembre il Parlamento europeo ha votato una serie di sanzioni ai danni dell’Ungheria per la deriva autoritaria del suo governo. L’afflato democratico dei parlamentari europei ha deciso di punire in maniera esemplare il barbaro autoritario. Lo stesso che ha «costretto» tutti gli Stati della Balkan Route e dell’Europa centrale a chiudere i loro confini dopo la tempesta dei migranti e che ha «costretto» l’Europa a esternalizzare la gestione delle migrazioni, accettando di fatto lo stupro, la tortura e la morte di migliaia di migranti. Mentre i rappresentanti nostrani dell’inesistente fronte sovranista cercano di farne un baluardo dell’opposizione tra l’Europa dei popoli e quella dei burocrati, Orbán si erge invece a campione dell’Europa dei vincoli di bilancio e a garante della tenuta politica del Partito popolare europeo. Se infatti, da una parte, egli può imporsi nel continente come contrappeso ideologico di Angela Merkel, dall’altra, a Bruxelles e a Strasburgo, i suoi sodali di Fidesz siedono insieme alla CDU nei ranghi di un Partito popolare europeo certo non insensibile alle esigenze del populismo del capitale. Al congresso del PPE tenutosi a Helsinki lo scorso autunno è stato Orbán a chiamare tutti ad assumersi «la responsabilità di non essere riusciti a tenere la Gran Bretagna in Europa e i migranti fuori dall’Europa» e a invitare al rilancio di un’idea etica e cristiana d’Europa, in cui la cultura nazionale funge da garanzia della continuazione dell’austerity e del dominio del capitale transnazionale con altri mezzi. Qualche mese fa, inoltre, il governo ungherese ha dichiarato di volersi rivolgere alla Corte di Giustizia europea in merito alla direttiva sul lavoro in distacco, che assicurerebbe ai migranti ungheresi «prestati» ad altri paesi un salario uguale ai loro colleghi. Questa direttiva, per quanto molto difficile da attuare, andrebbe a minare il capitale umano che Orbán crede di possedere a sua disposizione: lavoro a basso costo solo «prestato» e non «regalato» ad altri paesi. Il nazionalista Orbán si fa così tutore della cosiddetta «libertà di prestare servizio» – uno dei pilastri della costituzione dell’Unione – che a sua detta sarebbe messa a rischio dalla direttiva che propone delle timide tutele salariali per i lavoratori in distacco. Anche dentro al regime transnazionale del salario, Orbán è alla testa di una crociata europeista, a favore di un’Europa che garantisca che il salario sia una variabile del tutto dipendente dal capitale. Questo è, infatti, il vero senso dell’Europa dei popoli così come la intendono Orbán e gli altri sovranisti, un’Europa che in fondo non dispiace nemmeno a chi ha lanciato la sua crociata contro il populismo in Europa.
Sul fronte interno, Orbán è consapevole della crisi e della particolare gravità della situazione in Ungheria, ma non sa come rispondere, e continua ad attaccare affannosamente i manifestanti accusandoli di essere a libro paga di George Soros. Una campagna antisemita contro un’oscura finanza dietro le quinte, volta a nascondere il ruolo di Orbán nell’assicurare al paese un posto saldo nelle catene transnazionali della produzione e dello sfruttamento. In Ungheria, però, la protesta non si ferma. La prossima settimana saranno probabilmente i quattromila operai dell’Audi della città di Gyor a incrociare le braccia per rivendicare migliori condizioni salariali; mentre il 19 gennaio ha già avuto luogo una nuova, imponente giornata di mobilitazione che, insieme ai sindacati, ha visto per le strade moltissimi studenti, in larga parte sotto l’ala dell’unione studentesca Hallgatói Szakszervezet, già sulle prime pagine dei giornali una settimana prima per avere pesantemente contestato Zita Horváth, membro del governo. Manifestazioni e blocchi stradali hanno avuto luogo in tutto il paese, e a livello numerico hanno addirittura superato la manifestazione di Budapest. I sindacati che hanno indetto quest’ultima giornata di mobilitazione minacciano uno sciopero generale nel caso in cui le loro richieste – che vanno dal ritiro delle leggi sul lavoro a quelle sul diritto di sciopero, dall’introduzione di una retribuzione salariale minima alla riforma del sistema pensionistico, oggi per metà privato – non dovessero essere accolte dal governo. Dalle fabbriche alle scuole, dalle piazze alle case, in Ungheria la lotta è permanente: in molteplici punti cruciali della produzione e della riproduzione si manifesta un rifiuto e una sottrazione di massa dalle condizioni politiche dello sfruttamento. Un rifiuto che non ha solo trovato nel contrasto alla slave law il punto di precipitazione di fronte ampio di lotta, ma che sta trovando il modo di affrontare la dimensione transnazionale in cui queste condizioni sono inserite. L’accusa alle imprese tedesche di essere complici del progetto di legge è un segnale in questo senso. La battaglia contro il populismo del capitale di Orbán sta avvenendo in concomitanza con una ripresa delle lotte operaie nella regione e di sollevazioni di massa, dalla Polonia alla Romania, dalla Slovacchia alla Serbia. Scioperi del lavoro industriale e della riproduzione sociale, scioperi delle donne, scioperi metropolitani e logistici: sotto il segno dello sciopero, il populismo del capitale sta incontrando diffusamente e insistentemente la sua crisi.