di CLEMENTE PARISI
Il 2019 continua sotto il segno dello sciopero. Questa volta oltre 40.000 lavoratori e lavoratrici della città messicana di Matamoros hanno bloccato la produzione in 45 delle 110 maquiladoras presenti in città, quasi tutte fornitrici dell’industria automobilistica statunitense. Con lo sciopero rispondono a condizioni di lavoro devastanti, ritmi estenuanti e paghe da fame in un’area in cui all’altissima intensità di capitale transnazionale si associa un altrettanto alto livello di sfruttamento. Quello di Matamoros è uno sciopero per molti versi inedito nella regione, non solo perché con la sua portata di massa arriva a colpire direttamente uno dei nodi strategici delle catene transnazionali dello sfruttamento, ma anche perché è stato indetto e portato avanti autonomamente dagli operai, tra l’indifferenza e l’ostilità del principale sindacato affiliato al Consejo de Trabajadores Mexicanos (CTM). «Sindicato y empresa “matan” la clase obrera»: questo è lo slogan che campeggia su uno degli striscioni che ha aperto i numerosi cortei che si sono tenuti nei giorni scorsi per le strade della città.
Lo sciopero è iniziato quando gli operai di alcune maquiladoras hanno saputo che le imprese si sarebbero rifiutate di pagare il bono anual, un’integrazione variabile al salario che viene contrattata annualmente. Secondo i padroni il bonus per il 2019 sarebbe stato coperto dall’aumento del salario minimo deciso dal nuovo Presidente della Repubblica Andrés Manuel López Obrador, noto come AMLO, che dal primo gennaio lo ha portato a poco più di 176 pesos messicani, circa 9 dollari al giorno. Una cifra che resta irrisoria e assolutamente inadeguata al costo della vita nella regione, di gran lunga il più alto del paese. Non a caso la misura ha finito per coinvolgere soltanto una piccola parte dei lavoratori degli stabilimenti, poiché molti erano già arrivati a ricevere più del nuovo salario minimo con gli adeguamenti contrattati negli anni precedenti. Con l’aumento salariale voluto dal governo hanno perciò continuato a percepire lo stesso, vedendosi però togliere il premio annuale di produzione che loro giustamente considerano una parte integrante del salario.
Di fronte alla richiesta operaia di uno sciopero il principale sindacato dell’industria maquiladora, nel pieno rispetto della sua lunga tradizione charrista filopadronale, ha preferito perdere l’ennesima occasione di stare dalla parte degli operai e delle operaie, puntando tutto sul contenimento delle loro richieste e su quella «pace sociale» che a gran voce invocano padroni e autorità locali e nazionali. Lavoratori e lavoratrici, invece, hanno preferito smettere di lavorare. Il 12 gennaio hanno marciato compatti verso la sede del sindacato, obbligando il segretario a firmare un documento con le loro richieste: aumento del 20% del salario per tutti, al netto dell’aumento del salario minimo, e pagamento integrale del bono anual fissato a circa 32.000 pesos. Una scelta che il sindacato ha dovuto accettare dopo la minaccia degli iscritti di non versare più nelle sue casse il 4% del salario mensile, ma senza rinunciare in ogni caso a ridimensionare il “troppo ambizioso” aumento del 100% richiesto inizialmente. Per oltre 10 giorni i lavoratori sono riusciti a bloccare 45 stabilimenti, hanno eletto i loro rappresentanti rifiutando ogni mediazione delle burocrazie sindacali e hanno tenuto numerose e partecipatissime assemblee nella piazza centrale della città e di fronte alle fabbriche. Il 21 gennaio è stato un dìa sin obreros per i padroni, mentre le strade della città si sono riempiete dei loro cortei. Gli effetti sono stati avvertiti anche oltre confine, negli Stati Uniti, dove diverse fabbriche di automobili hanno dovuto rallentare la produzione a causa della carenza di rifornimenti.
Quello di Matamoros è uno sciopero che, sottraendosi alla disciplina sindacale, va molto al di là del semplice strumento di negoziazione contrattuale e assume un carattere immediatamente politico. Una presa di parola guidata dalle donne, che sono state in prima fila nei cortei e tra le principali promotrici dello sciopero in tutti gli stabilimenti contro la volontà del sindacato. Le maquiladoras impiegano molta manodopera femminile, spesso migrante. Nell’area segnata dal più alto tasso di stupri e femminicidi al mondo, la violenza patriarcale rivela il suo intimo legame con il comando capitalistico sul lavoro delle donne, che sono integrate negli stabilimenti in posizioni subordinate, con salari ancora più bassi, mansioni dequalificate e una forte condizione di ricattabilità. Diventando protagoniste di questo sciopero, le donne non soltanto rifiutano la subordinazione e lo sfruttamento imposti dal sistema di fabbrica, ma anche la vendetta della società patriarcale che risponde con la violenza alla loro pretesa e pratica di autonomia.
Lo sciopero nelle maquiladoras è anche una presa di parola di lavoratori e lavoratrici sui delicati equilibri regionali che si giocano intorno al confine tra Messico e Stati Uniti, dove le catene globali di fornitura mostrano il vero volto del governo logistico dello sfruttamento attraverso le differenze salariali, previdenziali, di genere. Le 20mila miglia di confine, con o senza muro, riproducono costantemente queste condizioni e queste tensioni. Nei decenni diverse multinazionali da tutto il mondo hanno portato i loro stabilimenti sul lato messicano per approfittare di bassi livelli salariali, esenzioni fiscali, ampia disponibilità di forza lavoro migrante, debole sindacalizzazione, alti livelli di violenza criminale e patriarcale da poter utilizzare come un ulteriore strumento di controllo sulla forza lavoro.
Che Trump vada a sbattere o meno contro il suo muro, quindi, non cambierà la sostanza di una serie di accordi fiscali e commerciali che i due paesi continuano a concludere sulla pelle degli operai degli stabilimenti di confine, che in molti casi sono anche quelli che quel confine cercano di attraversarlo. L’aumento del salario minimo previsto da AMLO, ad esempio, non è altro che la «controproposta» messicana al muro di Trump e fa parte di un piano complessivo che intende regolare gli equilibri nordamericani con un occhio di riguardo al governo della mobilità in Centroamerica. Il Messico non paga il muro, ma fa in modo che le imprese nordamericane paghino gli operai il meno possibile. Il piano punta a istituire una cortina non fisica, apparentemente immateriale, e lo fa alzando il salario minimo ma detassando allo stesso tempo le imprese che investono lungo il confine, abbassando ulteriormente IVA e imposta sul reddito, con il solo scopo di attirare capitale straniero e creare altro lavoro povero e sottopagato. Tutto questo nella speranza che migliaia di messicani o di centramericani arrivati al confine si accontentino della miseria e di un salario da fame piuttosto che correre il rischio di andare dall’altra parte. Quello che si prospetta, in ogni caso, è un confine gestito ad hoc, capace di riprodurre tutte quelle gerarchie di nazionalità, status e contratto che tanto attraggono le imprese. Con lo sciopero lavoratori e lavoratrici delle maquiladoras hanno rispedito al mittente la proposta di un misero risarcimento con cui barattare la libertà di scegliere autonomamente dove vivere, rifiutando quindi di subordinare le proprie necessità a quelle del profitto delle imprese multinazionali e dei flussi globali di merci.
Proprio perché colpisce quell’intreccio oppressivo tra regime del salario e governo della mobilità lo sciopero delle maquiladoras è uno sciopero transnazionale, e indica con chiarezza la necessità di attaccare lo sfruttamento nella sua veste di governo logistico della forza lavoro. Con la sua portata, esso va ad aggiungersi alle numerose rivolte di massa con cui lavoratori e lavoratrici hanno aperto il 2019. Dallo sciopero delle lavoratrici tessili del Bangladesh a quello dei 200 milioni in India contro la riforma del lavoro del premier Modi, da quello degli ungheresi che rifiutano le politiche del lavoro schiavistiche e neoliberali del presidente populista Orban a quello delle insegnanti di Los Angeles, la lotta di Matamoros è parte di un movimento globale che sta riempiendo lo strumento dello sciopero di nuova energia e nuovo significato.