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Decine di migliaia di ungheresi rifiutano di sottomettersi alla slave law. Le manifestazioni di massa in Serbia contro la violenza del governo. La più grande rivolta degli studenti in Albania dal crollo del socialismo. L’insurrezione dei gilets jaunes in Francia e la resistenza di massa contro la Brexit in Inghilterra. La lotta delle donne, che ovunque fa vacillare l’ordinata riproduzione della società globale. I movimenti dei migranti che continuano a scavalcare i confini che vorrebbero fermarli. Gli scioperi e la repressione delle lotte nella logistica in Italia. Gli scioperi nei magazzini di Amazon in giro per l’Europa. Duecento milioni di operai e operaie che bloccano la produzione in India. L’insubordinazione in centinaia di fabbriche invisibili, che tutti i giorni scuote le certezze delle catene produttive.
Solo partendo da questi rifiuti distanti, separati e ancora incapaci di comunicare possiamo ragionare sulla nostra evidente difficoltà a connetterli e quindi sulla sfida che abbiamo di fronte nella grande mutazione che stiamo ancora attraversando. Populisti, sovranisti e neoliberali sono attori di uno stesso dramma, il cui scopo è ottenere donne e uomini ubbidienti e disponibili. Per farlo si stanno sforzando parecchio, ma non ci riescono come vorrebbero. C’è sempre la percezione che i giochi non siano chiusi, che una rivolta sia dietro l’angolo. L’insurrezione dei gilets jaunes ha avuto e ha in primo luogo questo significato europeo. Al di là delle motivazioni specificamente francesi, delle tendenze che esprime, al di là della speranza di vedere quella lotta espandersi in tutta Europa e della consapevolezza che le lotte non si esportano facilmente, la rivolta in giallo dimostra che la nostra difficoltà non è la loro onnipotenza. Per questo il populismo del capitale, il sovranismo e la governance neoliberale hanno ancora il problema di affermare un comando sempre più intenso sul lavoro vivo, di governare i movimenti e i comportamenti di milioni di donne e di uomini che quotidianamente si ribellano di fronte alla promessa di essere sfruttati e impoveriti, oppressi e uccisi. Torniamo dunque a guardare dentro allo stato presente delle cose, per individuare i punti dove la rivolta produce la reazione che pretende di metterla a tacere.
Le definizioni di destra e di sinistra del populismo oggi si sprecano. Noi parliamo di populismo del capitale perché ci pare chiaro che il discorso razzista e patriarcale che sostiene la dichiarata intenzione di ristabilire vincoli identitari nazionali, culturali o religiosi è funzionale a rendere incontestabile un rapporto di capitale che può imporsi solo su scala transnazionale. La contraddizione tra la nazionalizzazione coatta della vita e il dominio del capitale globale è soltanto apparente. Tanto la prima quanto il secondo producono effetti materialmente brutali che si sommano, ma in nessun caso si contrastano. Si tratta quindi di ribaltare la prospettiva. Se mai c’è stato un populismo democratico, adesso sicuramente non c’è più. Mentre indicano il nemico interno o quello che preme alle frontiere, le pratiche politiche populiste svuotano il mercato del lavoro da ogni possibile disturbo, aumentando progressivamente il tasso di sfruttamento di un capitale che maschera il proprio carattere globale con l’uso di bandiere nazionali. Per quanto diversi negli accenti e nel grado di successo, gli esempi di Polonia, Ungheria e Italia vanno tutti in questa direzione.
In Polonia il razzismo istituzionale opera insieme a un tradizionalismo religioso che vorrebbe ridurre le donne al silenzio, impedendo loro di decidere sui loro corpi e le loro vite. Allo stesso tempo, le politiche del lavoro garantiscono ampi margini di profitto ai magazzini Amazon, alle imprese multinazionali che delocalizzano costantemente la loro produzione e, non da ultimo, alle imprese nordeuropee che sfruttano i posted workers, lavoratori in affitto che si muovono per l’Europa lavorando alle condizioni contributive dei paesi di provenienza in virtù delle direttive europee. Il razzismo del governo Orbán in Ungheria impedisce il passaggio e il soggiorno ai migranti che vogliono raggiungere i paesi dell’Europa settentrionale. Lontano dai riflettori populisti, però, decine di migliaia di migranti ucraini sono stati reclutati negli ultimi anni per colmare la carenza di manodopera dovuta al fatto che centinaia di migliaia di ungheresi hanno già deciso di emigrare alla ricerca di salari migliori. In più, per far fronte a un altissimo turnover lavorativo che esprime il rifiuto operaio di sottostare al ricatto del lavoro, a fine dicembre è stata approvata l’ormai famigerata slave law, che non solo alza fino a 400 le ore di lavoro straordinario, ma ne dilaziona il pagamento fino a tre anni per permettere alle imprese che producono in Ungheria – soprattutto tedesche – di speculare persino su quello sfruttando il momento in cui il cambio tra euro e fiorino è più favorevole. Anche in Ungheria l’altra faccia dello sfruttamento intensivo della forza lavoro è il patriarcalismo, divenuto ideologia di governo con la messa al bando degli «studi di genere» dalle università. In Italia, la legge anti-migranti sulla sicurezza, i progetti di difesa della famiglia patriarcale vanno di pari passo con un «reddito di povertà» per pochi, possibilmente bianchi, con i tagli alle pensioni e con una tassazione che attacca prima di tutto i salari e premia ancora una volta i padroni mediante la precarizzazione infinita del lavoro. Per salvaguardare i margini di profitto, cioè lo sfruttamento, il capitale diventa populista e accetta tranquillamente che il patriarcato e il razzismo divengano momenti necessari della sua riproduzione sociale. È fondamentale riconoscere questi nessi costitutivi, così come è fondamentale sapere che sfruttamento, razzismo e patriarcato agiscono congiuntamente e non possono quindi essere separati, magari per stabilire una gerarchia delle contraddizioni.
D’altra parte, è grazie al loro intreccio che il sovranismo si presenta come una necessità per salvare il popolo e il suo Stato, anche senza le urla patriarcaliste e razziste del populismo del capitale. I muri costruiti o in costruzione hanno in realtà fondamenta molto fragili. Il loro scopo manifesto dovrebbe essere bloccare i movimenti delle donne e degli uomini, promettendo che anche i capitali andranno in una direzione sola o addirittura si fermeranno per arricchire il popolo sovrano. Entrambe le cose però sono impossibili. Ne sa qualcosa la Gran Bretagna, per la quale la Brexit si sta risolvendo in una vendetta logistica del capitale globale che, di fronte all’introduzione di dazi e tariffe, prevede di delocalizzare ulteriormente la produzione e di licenziare forza lavoro locale. Nonostante la riscoperta del valore della sovranità, in Ungheria come in Gran Bretagna i salari non aumentano, il welfare viene ulteriormente tagliato e l’istruzione diviene un bene di lusso sempre meno accessibile. Con buona pace degli «italiani prima di tutto» e degli amanti della costituzione e del lavoro, la verità di per sé evidente è che si può essere sovranisti solo aggiustandosi all’interno della governance neoliberale, ovvero all’interno di un quadro più ampio che si può mettere in tensione e discutere, ma al di fuori del quale si pagano prezzi insostenibili. Come stanno scoprendo i cittadini britannici e ora anche gli stravaganti governanti italiani, non esiste la possibilità di farsi uno Stato tutto per sé semplicemente perché non può esistere un mercato tutto per sé. Per ogni frizione introdotta nel mercato mondiale, il sovranismo deve assoggettarsi alle sue regole e lo fa irrigidendo, attraverso le leggi del suo Stato, il comando sul lavoro vivo.
Questo spiega perché la governance europea, nonostante non piaccia praticamente a nessuno, sia un centro di potere capace di obbligare comportamenti e soprattutto di impedirne. Non c’è un’Europa dei diritti e neppure un’Unione che garantisce libertà di movimento e protezione sociale, ma c’è un potere con il quale bisogna fare i conti. Nonostante le dichiarazioni e i proclami in vista delle prossime elezioni, l’Europa attuale si costruisce all’incrocio di governance neoliberale, populismo del capitale e sovranismo. L’Unione li ingloba, patrocinando le loro politiche dentro e fuori i suoi confini. Il peso preponderante degli esecutivi nazionali non ha quindi cancellato la governance europea complessiva, ma l’ha riqualificata sul piano politico e finanziario. Quando in Polonia come in Ungheria il sovranismo mette a rischio le forme classiche della democrazia costituzionale, la reazione dell’Unione Europea è politicamente flebile e burocraticamente lenta. Essa deve infatti tenere conto degli interessi economici delle imprese europee e multinazionali, che non hanno la loro sede in paesi sovranisti, ma che contano sulla possibilità di trovarvi un lavoro a basso costo e senza diritti sindacali. Non a caso gli Stati più sovranisti sono anche i più strenui difensori dei vincoli europei alle politiche di bilancio, caposaldo di ogni politica neoliberale. Ciò che accade proprio in questi giorni in Andalusia dimostra che, quando non riesce a imporsi da sola, la governance neoliberale accetta volentieri l’aiuto della destra fascista. Così il Partito popolare, che ha imposto nel modo più brutale l’austerità, non esita ad accordarsi con Vox, un partito marcatamente razzista e sessista. Questo connubio sarà tanto più praticato quanto meno l’austerità neoliberale riuscirà a presentarsi come l’unica possibile politica economica e, allo stesso tempo, i muri cominceranno a mostrare le loro crepe, peraltro già evidenti.
Bisogna perciò formulare un giudizio realistico sull’Europa: non a partire da ciò che si desidera né a partire da quanto la si odia, ma riconoscendo che cosa fa e che cosa non può fare. Bisogna pensare seriamente i modi in cui essa riesce a mettere a valore populismo del capitale e sovranismo, senza aspettarsi che l’Unione possa scomparire travolta dalle sue contraddizioni. La posta in gioco nelle prossime elezioni europee non è se e quanto ci si possa liberare dall’Unione, ma come viene ristrutturato il comando politico sul lavoro vivo in Europa. Ci sono certamente specificità e differenze politicamente rilevanti tra le forme di comando che ci troviamo di fronte oggi. È però indiscutibile che senza la connessione tra sovranismo e governance neoliberale la chiusura italiana dei porti non sarebbe stata possibile. Come hanno sperimentato i gilet gialli in Francia, non è poi così differente trovarsi di fronte il gelido sorriso neoliberale di Macron invece che il ghigno populista di Salvini e Orbán. Le promesse sociali pentastellate possono forse apparire meno feroci del comando immediato sul lavoro dei governanti polacchi e slovacchi, ma lasciano chiaramente intravedere lo stesso schema che assegna alle imprese l’unica possibile intermediazione per ottenere un reddito.
Se continuiamo a sostenere che il piano transnazionale dell’iniziativa politica è l’unico praticabile non è quindi per mera ostinazione. Esso deve essere in primo luogo europeo se non si vuole mancare completamente di realismo e di concretezza. Sul piano transnazionale la pretesa di libertà di milioni di individui incontra il comando del capitale e il suo governo politico. Il piano transnazionale dell’iniziativa deve essere sostenuto e praticato attivamente, affinché esso non ritorni come blocco contro le pretese delle donne e degli uomini che quotidianamente combattono contro un’oppressione e uno sfruttamento che non sono né locali né nazionali. Perciò continuiamo a sostenere che un reddito di cittadinanza in Italia ha tanto poco senso ed è tanto poco realistico quanto pensare di modificare la struttura del salario a livello nazionale. Il transnazionale è il terreno su cui approfondire una crisi che altrimenti rimbalza in continuazione tra il piano nazionale e quello internazionale, tra il simulacro dello Stato sovrano e l’Unione Europea.
Abbiamo due esempi di pratica politica del transnazionale, che ne mettono in luce tanto le possibilità, quanto le difficoltà: il movimento delle donne e quello dei migranti. Poiché è stato in grado di dare vita in ogni parte del mondo a mobilitazioni costanti e imponenti, il movimento delle donne è la vera novità politica degli ultimi anni. La lotta per l’aborto libero, sicuro e gratuito in Argentina non è stata soltanto orientata a conquistare una riforma della legislazione nazionale, ma ha raccolto la forza del Black Monday polacco e del referendum irlandese diventando parte di una sollevazione generale che rivendica la libertà sessuale contro le politiche patriarcali che, nella loro forma populista come in quella neoliberale, si stanno intensificando in tutto il mondo. C’è una connessione di fatto tra le proteste avvenute in Brasile prima dell’elezione di Bolsonaro e la manifestazione di Non una di Meno che lo scorso 24 novembre a Roma ha contestato le politiche della famiglia, del razzismo e della precarietà di Pillon, Salvini e Di Maio: quella connessione è la capacità di trasformare una battaglia parziale – come quella contro la violenza maschile sulle donne ‒ nel punto d’impatto per affermare un’opposizione politica al comando del capitale che non è riducibile a un’opposizione di governo. Movimenti come Non Una Di Meno in Italia o Ni Una Menos in Argentina mostrano la capacità di lottare a partire da una specifica condizione materiale, ponendosi il problema del carattere globale di quella condizione e quindi anche della lotta che pretende di contestarla. Ridurre questi movimenti ai loro obiettivi locali rivela la più completa cecità verso questa potenza, anche quando essa continua a manifestarsi quotidianamente e in ogni parte del mondo, dalla Cina al Bangladesh, dall’India alla Corea del sud. Come dimostra il recente e imprevisto sciopero organizzato dalle donne israeliane e palestinesi contro la violenza maschile, il movimento sociale delle donne è transnazionale non perché tale è la sua struttura organizzativa, ma perché lo sciopero femminista circola nel mondo con la forza di un pregiudizio popolare innescando ovunque processi di organizzazione di fatto collegati.
Se quello delle donne è il movimento transnazionale che c’è e si vede, il movimento sociale dei migranti sembra essere stato completamente oscurato dal razzismo dei governi. Non si è arrestato, non è diventato politicamente meno significativo, ma non riesce a proporsi come una forza autonoma in grado di affermarsi attraverso le frontiere e contro i consolidati rapporti di classe. Germania e Giappone scoprono di aver bisogno di forza lavoro migrante, ma pretendono di governarne i movimenti, contandola e controllandola fin dalla sua partenza. Il lavoro migrante viene così ridotto a una funzione completamente subalterna alla valorizzazione del capitale grazie al suo comando politico. Esso dovrebbe essere solo lavoro comandato oppure lavoro povero e minacciato, di cui è sempre possibile liberarsi quando le contingenze del mercato lo richiedono. Invece, il lavoro migrante è un reale e grande spettro per ogni sogno di comando complessivo sul lavoro vivo. È questa forza lavoro irriducibilmente mobile che non fa tornare i conti, sono i rifugiati e i richiedenti asilo che premono sulle frontiere meridionali dell’Europa, sono i milioni di migranti che vivono da anni in Europa sotto il giogo di legislazioni che legano sempre più strettamente il permesso di soggiorno al lavoro, sono gli operai e le operaie che si spostano sulle sue frontiere orientali cercando costantemente un salario migliore. Noi pensiamo che la composizione e la dimensione di questo movimento sociale impedisca di accontentarsi dell’antirazzismo che è assolutamente indispensabile e che, proprio per questo, non può essere esercitato solo sulle frontiere e attraverso istituzioni dalle quali i migranti sono già esclusi. Proprio perché in Europa il governo della mobilità riguarda una moltitudine di uomini e donne, è necessario riconoscere che il razzismo di governo è un elemento del populismo del capitale che mira al comando sul lavoro vivo di uomini e donne migranti, che non punta solo a respingerli, ma anche a collocarli nella posizione di una forza lavoro povera e impossibilitata a modificare la propria posizione. Visto l’accanimento con cui tutte le potenze d’Europa si coalizzano contro il lavoro migrante, non si può ignorarne la persistente centralità politica.
E questo ci riporta al punto da cui siamo partiti. In questo momento donne e migranti sono le due polarità che orientano il rifiuto di ubbidire al comando del capitale. C’è più in generale una propensione alla rivolta che non trova ancora una risposta organizzativa adeguata. Dentro la mutazione infinita dello stato presente delle cose, noi chiamiamo sciopero il momento politico in cui quella propensione diviene materiale, sottraendosi al comando del capitale. Questa sottrazione non assume forme omogenee, ma in ogni sua manifestazione locale esprime la pretesa di interromperne le dinamiche di produzione e riproduzione della società. Che sia un blocco della produzione, un movimento attraverso i confini, il rifiuto di sottostare agli imperativi patriarcali e alla loro violenza, nelle sue espressioni industriali, logistiche, metropolitane e sociali lo sciopero mostra la possibilità di trasformare la rivolta locale in un’iniziativa politica transnazionale. La Transnational Social Strike Platform sta tenacemente cercando di costruire un’infrastruttura politica che permetta di andare oltre quello che siamo, puntando ostinatamente ad approssimare la scala reale su cui la reazione neoliberale tenta affannosamente di inseguire le nostre rivolte quotidiane.