di MATILDE CIOLLI
Da tempo stiamo assistendo a livello globale a una torsione reazionaria dei governi neoliberali. Da Trump negli Stati Uniti a Duda in Polonia, da Duterte nelle Filippine a Erdogan in Turchia, da Bolsonaro in Brasile a Orban in Ungheria, da Netanyahu in Israele a Salvini in Italia si stanno vorticosamente imponendo legislazioni e provvedimenti sempre più razzisti, attacchi diretti alla possibilità di abortire e di divorziare, moralizzazione e disciplinamento dei «poveri», securizzazione degli spazi pubblici e impedimenti sempre più consistenti al diritto di scioperare, riaffermazione dell’etica del lavoro e legittimazione della violenza come strumento d’ordine e di subordinazione.
The Far Right in Government. Six Cases from Across Europe (Fondazione Rosa Luxemburg, 2018) si pone precisamente il problema di rendere conto di questa svolta «autoritaria» e «populista» ripercorrendo le circostanze e le cause che hanno portato alla sua affermazione in sei paesi dell’UE o che comunque gravitano nell’orbita europea: Ungheria, Polonia, Turchia, Danimarca, Norvegia e Austria. Cogliendo nel sovranismo e nel populismo conservatore una ricostituzione del politico dentro e non contro il neoliberalismo, il testo ha l’esigenza di indagare la liason dangereuse fra le politiche economiche neoliberali e quelle identitarie nazionaliste, individuandone i punti di articolazione e le contraddizioni e interrogando le sorti delle democrazie europee. Nei contributi dei diversi autori – Kristóf Szombati, Bartosz M. Rydliński, Pınar Çakıroğlu, Inger Johansen, Asbjørn Wahl e Sebastian Reinfeldt – è possibile identificare alcuni processi, verificatisi in maniera eterogenea nei diversi contesti, che hanno portato all’esplosione di questa nuova «offensiva neoliberale»: lo smantellamento del welfare State, la fine della socialdemocrazia, la sempre più sfrontata adesione della sinistra a un modello «progressista» di neoliberalismo, le politiche che hanno prodotto un impoverimento generale e la costruzione di consenso intorno alla far right mediante il reindirizzamento della rabbia sociale da un conflitto di classe a un conflitto identitario.
Di fronte a una crisi che da dieci anni non smette di produrre povertà, diseguaglianze e precarietà, la destra sta tentando scompostamente di riaffermare l’assetto economico e sociale neoliberale raccogliendo il diffuso malcontento e il senso di impotenza delle classi medio-basse e incanalandoli in un comune slancio alla difesa della nazione. Il focus è stato dunque posto su un «popolo» – artificialmente costruito sulla base di una presunta autoctonia culturale e valoriale – che deve essere protetto tanto dall’ingovernabile incursione dell’orda migrante, quanto dalle razzie compiute dai diversi agenti di un oscuro nemico, la globalizzazione, che minaccia di spossessare piccoli proprietari nient’affatto intenzionati a rinunciare al loro status. Il testo permette di vedere come l’invocazione del popolo, della nazione, dello Stato sovrano – ripresi in grande stile dall’armamentario analitico e politico di altre epoche – abbia solo parzialmente l’intento di porre argini reali all’instabilità e all’insicurezza prodotte dal capitale e dalla società globali. L’analisi dei sei paesi, infatti, fa emergere chiaramente come il nazionalismo e il sovranismo propagandati da molte destre di governo possano convivere, non senza contraddizioni, con le (spesso) osteggiate politiche della governance neoliberale in quanto, di fatto, convergenti nell’intento di preservare e rilegittimare un ordine sociale asimmetrico che garantisca profitti per pochi eletti. In questo senso, le trasformazioni autoritarie in corso sono da leggersi a nostro parere come correlato necessario di quello che, per superare falsi dilemmi fra populismi di destra e populismi di sinistra, potremmo definire «populismo del capitale», cioè un populismo interessato a rilegittimare, con le armi politiche del razzismo e del nazionalismo, il capitale come rapporto sociale.
L’ipotesi avanzata in diversi contributi è che il ritorno di una retorica nazionalista, tesa a difendere il popolo dal disordine dell’invasione dei migranti, si riveli utile a spostare il conflitto dal piano redistributivo a quello identitario, mantenendo inalterate le politiche di classe esistenti. Così, per esempio, secondo Szombati la propaganda «nazional-populista» di Orban ha messo al centro un popolo definito dalla comune appartenenza all’Ungheria con l’intento di impedirne una soggettivazione in termini di classe. Presentandosi come difensore degli ungheresi spossessati, Orban ha potuto limitarsi a risarcirli con un surplus di riconoscimento sociale dato dal pedigree, premiando il «duro lavoro degli ungheresi» con politiche sociali workfariste negate ai non purosangue o a chi non dà completa disponibilità al comando del capitale. L’etica del lavoro e una quota inevitabile di sfruttamento diventano così un assunto indiscutibile; qualche briciola tutt’al più la si ottiene lottando per sedere al tavolo dei connazionali e ottenere qualche misero privilegio ai danni di chi la cittadinanza non ce l’ha. In modo analogo viene descritto il fenomeno in Norvegia, dove il Partito del Progresso coniuga a regola d’arte le politiche neoliberali con una retorica populista e identitaria che gli consente di presentarsi come sostenitore delle «persone comuni», del popolo, contro l’establishment, e quindi di direzionare poi il malcontento verso il basso. I veri responsabili dell’abbassamento dei salari, della disoccupazione, del furto di fondi pubblici sono i migranti, che rubano il lavoro e infangano la cultura e le tradizioni norvegesi. Insomma, la miseria c’è, bisogna farsene una ragione, e il problema non devono essere i padroni, ma chi, con i propri movimenti indisciplinati, potrebbe mettere a rischio i minuscoli privilegi di cui il popolo nazionale è costretto ad accontentarsi. Via libera dunque alle leggi razziste, che, nella pretesa di salvaguardare il benessere della popolazione autoctona, celano il fatto che il poco o nulla che spetta ai migranti è solo l’anticipazione più dura e impietosa di ciò che spetterà a tutti. Pure in Austria il venir meno di lavoro e welfare è affrontato dal partito di governo, l’FPO, con retoriche nazionaliste che reclamano our money for our people, creando anche in questo caso un «altro» più o meno immaginario come capro espiatorio di un problema strutturale lasciato intatto e anzi riprodotto attraverso politiche di austerità.
Il «matrimonio di convenienza» fra il nazional-populismo delle destre di governo e il neoliberalismo è inquadrato nel testo anche attraverso la diffusa promozione di comunità, come quelle religiose o familiari, che, mentre criticano l’atomizzazione prodotta dal neoliberalismo, danno vita a strutture societarie gerarchiche del tutto funzionali alla tenuta del neoliberalismo stesso. Così per esempio – ci raccontano gli autori –, Orban ha fatto leva sui «circoli civili», per fare strada al suo «statalismo autoritario» cementando agglomerati corporativi di individui sulla base della religione cattolica, della tradizione ungherese, ma anche dell’appartenenza all’Unione Europea, di fronte ai cui finanziamenti è bene non storcere il naso. Allo stesso modo non deve sorprendere che all’interno dello Stato neoliberale turco si sia costituito un nuovo apparato burocratico islamista, formatosi in istituzioni educative nazionaliste e religiose, che fungono da barriera contro ogni forma di disordine e sovversione della tradizione. Insomma, l’orizzonte del mercato e della concorrenza rimane il contesto inviolato dentro cui queste comunità si muovono, preservando norme e valori che finiscono per cristallizzare quegli stessi rapporti sociali asimmetrici di cui il neoliberalismo si nutre. Descritte in questi termini, le comunità offrono una prospettiva privilegiata per indagare il complesso intreccio fra sovranismo e neoliberismo. Da un lato, in quanto piccoli spazi che compattano coloro che si sentono spossessati dai processi globali del capitale e impossibilitati a cambiare la propria condizione, esse si offrono come luoghi in cui può avere l’illusione di un ritorno alla sovranità come riappropriazione di un potere sottratto. Dall’altro, producendo segmentazioni e divisioni all’interno della macro-comunità del «popolo», esse fanno da braccio destro alla ratio neoliberale che nella frammentazione sociale trova le condizioni per il suo trionfo.
La natura contraddittoria, o quanto meno problematica, del sovranismo e dell’anti-europeismo urlato da governi reazionari sempre più numerosi emerge in maniera significativa nelle politiche di welfare adottate in molti di questi paesi. In Danimarca, per esempio, il Partito popolare ha combinato una forte critica all’austerity e ai tagli al welfare con consistenti restrizioni all’immigrazione e una difesa della sovranità nazionale, fatta vacillare dall’Unione Europea. In fondo, però, tanto rumore per nulla: come sottolinea Inger Johansen, nei fatti il Partito popolare non si oppone al mercato unico delle merci e del lavoro e chiede più servizi, sì, ma senza mettere in discussione l’impianto entro cui vengono erogati, condannandosi quindi a rivendicare nient’altro che briciole. Neanche con i migranti fa poi tanto sul serio: alla forza lavoro a bassissimo costo non si può rinunciare facilmente. Infatti, nonostante i grandi proclami contro il dumping sociale provocato dall’immigrazione dall’est Europa, i popolari hanno votato contro le misure da altri proposte per contrastarlo. Altrettanto significativo è il modo in cui sono state realizzate le politiche di welfare dal partito di governo polacco e dall’FPO austriaco: una minima redistribuzione al prezzo della restaurazione, tramite incentivi, dell’istituzione familiare patriarcale (da sempre fedele alleata dell’abbattimento delle spese sociali) e di regimi workfaristi abbinati a indennità per la disoccupazione in salsa Hartz IV tedesco, quindi totalmente a carico dei lavoratori. Che dire? Un’opposizione a Bruxelles poi non così scomoda.
Un altro elemento significativo è il fatto che, a dispetto di un sostanziale smantellamento del welfare o degli aggiustamenti pressoché irrisori appena descritti, le casse europee si scoprono improvvisamente munifiche solo per finanziare le politiche familistiche. In Polonia, per esempio, il partito Diritto e Giustizia andato al governo nel 2005 insieme alla Lega delle famiglie polacche dava indennità a famiglie con due o più figli offrendo così alle madri la possibilità di rifiutare lavori sottopagati. Un bello scambio: sottrazione allo sfruttamento sul posto di lavoro pagata al prezzo del sommesso adempimento del ruolo di madre. In Austria, alle famiglie che scelgono di crescere i figli a casa fino ai tre anni si danno 400 euro. Non c’è male, doppio risparmio: sugli asili e sui salari delle madri. In Ungheria alle donne che si prestano a contribuire al futuro glorioso della nazione sfornando pargoli viene concessa un’indennità familiare, applicata però a un solo salario nella famiglia e ottenuta il più delle volte dagli uomini. Si tratta, per altro, di una misura universale (minima) che non varia a seconda del reddito, e che pertanto non costituisce un incentivo per le famiglie povere (di questi tempi, la maggioranza). Insomma, non c’è nessuna finalità demografica, come vorrebbe Orban, ma piuttosto la riaffermazione di un modello sociale: quello della donna identificata con il suo destino biologico e devota alla riproduzione di un ordine patriarcale e neoliberale. Ciò che, in ultima analisi, possiamo dedurre da queste politiche sociali è che quel popolo che di fronte al pericoloso attacco dei migranti è ideologicamente presentato come unito e compatto forse poi tanto unito non è. Esso si rivela infatti materialmente frammentato da un governo che distribuisce indennità – ma anche pensioni, reddito, contratti e salari – calibrate ad personam e secondo specifiche gerarchie.
Quando si sofferma su aspetti come gli attacchi all’indipendenza del potere giudiziario, alla stampa, alla contrattazione collettiva e ai membri dissidenti di partito, lo sguardo privilegiato rivolto al carattere «autoritario» del neoliberalismo odierno rischia di deviare l’attenzione da elementi che in questa fase risultano altrettanto problematici.Esso, tuttavia, permette comunque di cogliere con chiarezza un cambio di passo. Il neoliberalismo progressista – colorato dai drappelli della rappresentanza, dei diritti, del multiculturalismo e delle pari opportunità in chiave di diversity management – non regge più il colpo di una crisi che rende i poveri sempre più poveri, i migranti e le donne sempre più sotto attacco, i diritti sempre più formali. A fronte di un mercato che ha disatteso le promesse di libertà individuale, progresso e benessere, la proliferazione globale di governi di destra qui descritta può essere letta come un tentativo del neoliberalismo di rispondere con il populismo alla sua crisi di legittimazione. Un populismo che ha nella guerra ai migranti e alle donne e nel risarcimento differenziale dei «torti» inflitti dalla crisi i suoi punti lampanti di forza, ma che, a ben vedere, va dritto dritto incontro alle esigenze dell’accumulazione. L’attuale strategia governamentale del neoliberalismo può essere allora descritta come populismo del capitale, il quale, mentre si appoggia a istituzioni che invocano l’unità di un popolo sovrano nazionale e nazionalista, riafferma e produce al suo interno rapporti gerarchici. Da un lato infatti il «popolo» viene fidelizzato con piccoli risarcimenti concessi al prezzo della disponibilità al lavoro, dall’altro viene frammentato e gerarchizzato attraverso politiche salariali, contrattuali, sociali che sanciscono schiettamente la fine dell’universalismo e rendono sempre più ardua la ricomposizione di classe. Si tratta, per concludere, di un populismo che si scontra con la sua intima natura neoliberale, inciampando continuamente nelle sue interne contraddizioni: oscilla e si inceppa nel faticoso tentativo di tenere insieme rivendicazioni sovraniste e strizzatine d’occhio all’Unione Europea; zone territoriali autonome e integrazione nelle reti transnazionali del valore; sovranità statale e da un lato governance globale, dall’altro corridoi in cui vigono forme di «Stato extra-statale»; caccia ai migranti e loro sistematico impiego nei lavori più sfruttati. Leggere quest’ondata populista-nazionalista in termini di populismo del capitale neoliberale permette di non cedere a interpretazioni che si accontentano di attestare meri revenants del passato – conservatorismo, sovranismo o fascismo che sia – senza prendere in carico le mutate condizioni strutturali in cui si danno. Entrare con questo sguardo nelle maglie dell’odierno populismo del capitale consente infine non solo di cogliervi il tentativo di rilegittimazione dei rapporti sociali di subordinazione e sfruttamento, ma anche di portare alla luce i cortocircuiti a partire dai quali è forse possibile organizzarsi per sovvertire quegli stessi rapporti.