Martedì 18 settembre le lavoratrici di McDonald’s hanno dato vita al primo sciopero contro la violenza maschile e le molestie sul posto di lavoro organizzato contro una corporation multinazionale negli Stati Uniti. Moltissime donne ‒ e tra loro in prima fila nere, asiatiche e latine, migranti e non – hanno partecipato ai picchetti e ai cortei a Chicago, Durham, Kansas City, Los Angeles, Miami, Milwaukee, New Orleans, Orlando, San Francisco e St. Louis e urlato lo slogan: «non sono nel menu, stai alla larga dalle mie cosce»! Dopo decine di denunce cadute nel vuoto e respinte dai responsabili dei locali della catena nei modi più squallidi e noti ‒ «eri consenziente», «non frignare come una ragazzina», «non riuscirai mai ad averla vinta» ‒ queste donne hanno spezzato l’impotenza del loro isolamento e preso parola insieme. Facendo eco al grido che negli ultimi anni ha risuonato in tutto il mondo, il rifiuto della violenza maschile è entrato nel posto di lavoro e con lo sciopero ha dato un impulso imprevisto alla lotta quotidiana delle lavoratrici contro lo sfruttamento, mentre l’ha trasformata in un attacco diretto alla violenza patriarcale.
La parola d’ordine dello sciopero femminista ha attraversato gli Stati Uniti il 20 gennaio del 2017, subito prima della grande Women’s March che ha contestato l’insediamento di Donald Trump alla presidenza del paese, e in occasione dell’8 marzo 2017 e 2018, quando un «femminismo del 99%» si è mobilitato rispondendo all’appello per uno sciopero globale delle donne. L’esperienza delle lavoratrici di McDonald’s non può essere separata da questo processo, né dalla imponente circolazione dell’hashtag #metoo, che ha conferito alla lotta delle donne contro la violenza maschile e le molestie sul lavoro una visibilità senza precedenti. #Metoomcdonalds è infatti l’hashtag scelto dalle lavoratrici in sciopero per mostrare la connessione della loro lotta con un movimento globale. È chiaro, però, che tra i tappeti rossi di Hollywood – dove il #metoo ha preso piede conquistando risonanza planetaria ‒ e i tavoli di McDonald’s c’è un abisso. Eppure, la forza del rifiuto patriarcale è riuscita a colmarlo. Per quanto eroica, la lotta quotidiana per conquistarsi un salario non dà accesso alla fama, e le denunce delle violenze subite nella catena globale di fast-food non hanno raggiunto, prima dello sciopero, le pagine dei grandi media. Al contrario, ciò che hanno ottenuto le decine di donne che hanno protestato contro gli abusi sessuali ‒ in molti casi apertamente razzisti ‒ subiti sul posto di lavoro da colleghi e superiori sono state ritorsioni di ogni tipo, dagli insulti verbali alla diminuzione dei turni fino al licenziamento vero e proprio. Rispetto a questa situazione, la dichiarazione dello sciopero ha segnato uno scarto e ha permesso di rovesciare i rapporti di forza. Agli abusi non è stata opposta una denuncia solitaria, ma una risposta collettiva fatta di migliaia di voci che hanno potuto gridare «rompiamo il silenzio, facciamo la storia»! Le lavoratrici in sciopero hanno potuto contare sul supporto del movimento Fightfor15 e della fondazione Time’s Up, nata in seguito alla campagna #metoo per sostenere le donne in condizioni di precarietà tali da non poter denunciare le violenze subite senza rischiare di essere ulteriormente colpite e impoverite. Scioperando, le lavoratrici di McDonald’s hanno chiaramente mostrato di non voler più essere povere, deboli e vulnerabili, ma di avere la capacità di esercitare una forza collettiva contro la violenza sessuale e sociale che le opprime.
I vertici di McDonald’s hanno risposto a questa lotta in modo scomposto. Dopo avere giurato su quanto hanno di più caro che regolamenti e corsi di formazione contro le molestie sono parte integrante delle loro politiche aziendali, si sono scrollati di dosso ogni responsabilità affermando che il problema non sono loro, ma i titolari dei franchising, ovvero chi dirige i singoli ristoranti che portano il loro marchio. Una giustificazione ridicola, trattandosi di una delle aziende leader mondiali nel controllo minuzioso di ogni movimento della forza lavoro, nel calcolo infinitesimale di ogni pausa, nella valutazione ossessiva di ogni mansione, nel monitoraggio costante di ogni operazione al fine di imporre ritmi di lavoro sempre più intensi. Questa giustificazione, tuttavia, non può stupire, poiché ormai da decenni le catene di appalto permettono di intensificare lo sfruttamento e la precarizzazione del lavoro cancellando ogni residuo della responsabilità d’impresa nei confronti di chi quel lavoro lo svolge. Al di là delle responsabilità formali, tuttavia, lo sciopero delle lavoratrici di McDonald’s mostra che ‒ accanto ai salari da fame, ai cronometri, alle telecamere a circuito chiuso e ai badge ‒ molestie e abusi sessuali sono uno strumento ordinario per imporre alle donne subordinazione e disciplina sul posto di lavoro. Urlare «non siamo sul menù», perciò, non significa soltanto rifiutare di essere oggetti pienamente disponibili al desiderio sessuale maschile. Significa, allo stesso tempo, rifiutare la piena disponibilità allo sfruttamento che viene imposta anche attraverso le molestie e la violenza. Non è un caso che, tra le rivendicazioni delle lavoratrici in sciopero, oltre alla richiesta di istituire procedure trasparenti ed efficaci di ricezione e risposta alle denunce di molestie sessuali e di programmare corsi di formazione anti-violenza per manager e dipendenti, ci sia stata quella di un salario minimo di 15 dollari all’ora per tutti i dipendenti dei fast-food. Organizzato autonomamente e senza ricorrere al sindacato – poiché McDonald’s vieta espressamente il tesseramento ai suoi dipendenti e i salari nei fast-food sono troppo bassi per pagare le quote di iscrizione ‒ questo sciopero è stato un atto di coraggio in un ambiente ostile tanto alle donne quanto all’iniziativa collettiva di lavoratrici e lavoratori. Per questa ragione, come già aveva fatto il movimento Fightfor15, esso ha mostrato tutti i limiti del sindacato, indisponibile o incapace di recepire iniziative che non siano già comprese nel quadro della sua mediazione istituzionale. Da parte loro, le lavoratrici di McDonald’s hanno dichiarato che non si fermeranno finché le loro rivendicazioni non avranno risposta.
Facendo dello sciopero una pratica politica femminista, le lavoratrici di McDonald’s hanno compiuto un’acrobazia (to hot dog, per l’appunto) e reso evidente che la lotta contro lo sfruttamento non può prescindere da quella contro la violenza maschile e contro il razzismo che l’accompagna. In questo modo, esse hanno dato vita a uno sciopero politico anche in un paese che ne vieta espressamente l’organizzazione per legge. E non sono state sole in questo. Il 7 settembre hanno scioperato le lavoratrici di più di 25 hotel a Chicago: oltre a rivendicare assistenza sanitaria in caso di licenziamento e aumenti salariali, queste lavoratrici hanno denunciato la colpevole indifferenza della direzione degli hotel di fronte agli attacchi razzisti e alle molestie sessuali che esse denunciano quotidianamente. Il 10 settembre, in California, una marcia di lavoratrici delle pulizie è partita da San Francisco alla volta di Sacramento al grido: «chi possiede il mio corpo? Io»! Obiettivo della marcia è stato quello di opporsi alla pratica sistematica della violenza sessuale durante i turni di notte, spesso perpetrata dagli stessi superiori che approfittano della condizione di isolamento in cui vengono svolti i lavori di pulizia. Non è la prima volta che le inservienti si mobilitano: dal 2016 le denunce singole sono diventate un movimento collettivo di lotta che ha dovuto innanzitutto combattere contro l’opposizione interna al sindacato dei servizi che supporta la mobilitazione, restia a coniugare la lotta sindacale e la lotta contro la violenza. Di fronte alle proteste, l’amministrazione californiana ha saputo solo approvare dei corsi per la prevenzione della violenza sessuale, che sarebbero le inservienti stesse a dover frequentare. Ora le inservienti californiane chiedono a gran voce misure più incisive e la fine del silenzio: corsi anti-violenza per manager e dipendenti e, soprattutto, la costruzione di un’autonoma rete di supporto composta dalle stesse lavoratrici che rompa l’isolamento e renda la sottrazione e la denuncia possibile anche nelle condizioni di più alta ricattabilità. La situazione sta del resto rapidamente peggiorando: la composizione in gran parte migrante del settore, infatti, fa sì che le minacce di espulsione avanzate dall’amministrazione di Trump abbiano fatto calare drasticamente il numero già limitato di denunce per molestie e stupri sul luogo di lavoro. Il razzismo di governo significa immediatamente impunità per gli stupratori e il potere di disporre interamente del tempo e del corpo delle donne migranti. Il messaggio delle inservienti in lotta è chiaro: per combattere la violenza non bastano misure di facciata come corsi e procedure, ma bisogna conquistare un senso collettivo di potere.
Mentre le amministrazioni sono più preoccupate di responsabilizzare le donne che di perseguire i colpevoli, mentre il sindacato non sempre è pronto a cogliere la dirompente carica politica contenuta nella lotta contro la violenza e a riconoscerla come lotta fondamentale contro lo sfruttamento, le lavoratrici di McDonald’s, le inservienti californiane e le donne impiegate negli hotel di Chicago hanno mostrato che la lotta contro la violenza maschile può entrare nei luoghi di lavoro, diventando una leva per rompere l’isolamento imposto dalla precarietà e creare le condizioni per una comunicazione politica capace di superare i confini di categoria e quelli nazionali. Finché permette di alzare la testa contro violenze e molestie quotidiane, finché vive nelle lotte contro lo sfruttamento e contro il razzismo, finché contesta una violenza che è sociale, lo sciopero femminista non è un rito né un evento di sensibilizzazione, ma resta l’occasione che tutti, non solo le donne, dobbiamo ancora avere la capacità di cogliere e fomentare.