Lo scorso giugno il Parlamento Europeo ha approvato la nuova direttiva sui posted workers, cioè lavoratori e lavoratrici che, per un periodo limitato di tempo, lavorano in uno Stato membro UE diverso da quello in cui sono abitualmente occupati. Si tratta di circa due milioni di operaie e operai che di mese in mese si spostano sul territorio europeo, una porzione di forza lavoro da sommare agli oltre 17 milioni di migranti interni oggi presenti in Europa. La direttiva sembra magicamente mettere d’accordo tutti: Juncker, Macron, i sindacati, i governi dei principali paesi destinatari del distacco e alla fine, dopo qualche protesta, anche i paesi dell’Est – con l’eccezione di Polonia e Ungheria – sembrano aver accettato l’inevitabilità di cotanta ragionevole commistione di libertà del mercato e diritti del lavoro. La regolamentazione mostra non solo la sorprendente convergenza di governi nazionali, commissione europea, sindacati e imprese, al netto dei contrastanti nazionalismi e dei conflitti politici, ma anche il modo in cui l’integrazione logistica europea funziona attraverso un governo transnazionale del salario il cui scopo è legare la mobilità esclusivamente al lavoro e al profitto.
In primo luogo, la direttiva riduce la durata massima del distacco a 12 mesi, estendibili a 18, oltre i quali ai lavoratori deve essere garantita «una serie aggiuntiva di condizioni applicabili in via obbligatoria ai lavoratori nello Stato membro in cui il lavoro è svolto». Questa misura, giustificata con l’obiettivo di ridurre gli abusi, comporta in realtà solo un cambiamento minimo, considerato che la maggior parte dei distacchi ha in ogni caso durata inferiore a sei mesi. Ciò che però desta le più intense emozioni nel cuore comunitario degli attori in campo, che lo definiscono come un passo avanti verso un’Europa veramente sociale, è il proclama altisonante del principio dell’equal pay for equal work in the same place (paga uguale per uguale lavoro nello stesso posto), che la nuova direttiva introduce per equiparare le condizioni dei lavoratori in distacco e quelle dei lavoratori autoctoni. La precedente direttiva del 1996 prevedeva per i distaccati solo un nucleo minimo di tutele, incluso il salario minimo, che di fatto si è rivelato un tetto massimo alle possibili richieste dei distaccati. Chi pretendeva di ottenere di più era inevitabilmente rimandato alle sacre leggi della libera circolazione dei servizi, cioè al fatto che ogni diritto o conquista salariale è un insopportabile ostacolo alla libertà che le imprese hanno di stabilirsi e fornire servizi in qualsiasi paese dell’Unione. Con il nuovo testo, invece, non è più possibile in linea di principio pagare ai posted workers un salario inferiore rispetto a quello dei colleghi del posto e nemmeno decurtarlo sottraendo l’assicurazione sanitaria per il periodo del distacco, il premio per la trasferta e i costi di alloggio, come capitava il più delle volte.
Il primo dato da rilevare è che con questa misura il risparmio per i padroni nell’impiego di posted workers non viene comunque meno, perché la chiave di quel risparmio è il fatto che il costo dei contributi viene calcolato sugli standard del paese di provenienza, che sono generalmente assai più bassi rispetto a quelli del paese di destinazione. Ma c’è di più. Il principio dell’equal pay for equal work viene sbandierato come una misura capace di combattere il famigerato dumping sociale. Sembrerebbe così imporsi un criterio di uguaglianza a livello europeo. Eppure, il compito di stabilire che cosa si debba intendere per remunerazione e se i posted workers siano inclusi negli accordi collettivi nazionali in tutti i settori o meno è comunque affidato ai singoli Stati. L’apparente equalizzazione delle condizioni dei distaccati dell’Unione corrisponde quindi a una rinazionalizzazione della gestione della quota di lavoro mobile attiva sul territorio degli Stati membri. C’è poi un problema di fondo relativo al fatto che in nessun contesto lavorativo oggi – distacco o non distacco – vale il principio dell’equal pay for equal work, nemmeno tra gli «autoctoni». I salari di lavoratrici e lavoratori che fanno lo stesso lavoro nello stesso posto variano di molto, a seconda di una serie di fattori che vanno dalla (presunta) produttività al sesso e al colore della pelle, dall’anzianità alla nazionalità, dal tipo di contratto al permesso di soggiorno. Il lavoro in distacco si inserisce così in un contesto di partenza ampiamente frammentato, in cui valgono criteri e pratiche di differenziazione che non hanno bisogno di essere formalizzati giuridicamente, facendosi valere di fatto. Non c’è oggi un’autorità nazionale, né regionale, né tanto meno transnazionale che abbia la capacità o l’intenzione di far valere effettivamente l’uguaglianza di trattamento. La combinazione di gestione centralizzata a livello europeo e intervento dei singoli Stati si inserisce in questo scenario e più che a produrre uguaglianza serve a garantire le condizioni di un mercato del lavoro altamente differenziato: il primo obiettivo è contrastare, attraverso il governo del salario, l’uso autonomo della mobilità interna che Schengen in linea di principio doveva permettere, legandola a doppio filo al lavoro e al profitto.
La vecchia direttiva del 1996 funzionava come «agente di informalizzazione», dove il diritto del lavoro nazionale e l’iniziativa sindacale minacciavano di porre dei freni alla compiuta liberalizzazione del mercato transnazionale del lavoro. Come mostrano diversi pronunciamenti della Corte di giustizia, a partire dagli anni duemila l’UE ha promosso una strategia volta a ostacolare attivamente l’organizzazione di vertenze capaci di imporre aumenti salariali o di far valere tutele per i lavoratori in distacco. È il caso delle celebri sentenze Laval e Viking con le quali la Corte, sulla base del principio della libertà di servizio e di stabilimento delle imprese, dichiarò illegale l’azione sindacale dei posted workers che pretendevano un salario superiore a quello minimo stabilito dalla direttiva. Lasciare ai posted workers la possibilità di lottare per ottenere condizioni migliori avrebbe significato impedire alle aziende di pianificare dettagliatamente gli investimenti e calcolare i profitti. La giurisprudenza europea, dunque, si è occupata negli anni di subordinare le diverse normative nazionali di diritto del lavoro al diritto commerciale dell’UE, cioè all’inviolabile diritto delle imprese di fare utili. Indicativa è anche la sentenza del 2008 contro la Bassa Sassonia, la quale aveva interrotto un contratto di appalto pubblico con un’impresa edile tedesca che aveva subappaltato a un’impresa polacca perché questa non rispettava la legislazione del Land secondo la quale non potevano essere pagati salari più bassi rispetto a quanto previsto dal contratto nazionale del settore. La Corte Europea ha concluso che tale risoluzione non corrispondeva a quanto previsto dalla direttiva, perché l’accordo collettivo non era generalmente cogente. Sempre nel 2008 la Corte di giustizia ha multato il Lussemburgo per infrazione rispetto alla direttiva, perché aveva aggiunto ulteriori diritti al nucleo minimo di tutele previsto.
Rispetto al ’96, un nuovo metodo di integrazione logistica si è imposto per la sua maggiore efficacia. Con la crisi del 2008 le trasformazioni in senso neoliberale di ciascuno Stato membro hanno subito una decisa accelerazione. Contemporaneamente, la libertà di movimento praticata da milioni di individui ha costretto le istituzioni europee a rivedere il disegno di una libera circolazione in un libero mercato, rendendo evidente la necessità di un contenimento dei salari medi in modo da fare salvi i profitti. Oggi non serve più una direttiva che intervenga per informalizzare una situazione già ampiamente informale. Il conflitto è semmai su quale quota di potere possiedono gli attori in campo per gestire e regolare una forza lavoro altamente individualizzata e frammentata e per governarne al meglio le gerarchie interne. La priorità condivisa da europeisti e nazionalisti di ogni specie è quella di imbrigliare l’aspetto più pericoloso della mobilità operaia: la pretesa di una libertà di movimento slegata dal lavoro e da ogni vincolo. C’è poi una quota minoritaria, ma consistente di posted workers composta da tecnici e manager, soprattutto tedeschi e francesi e in misura minore belgi e olandesi, per cui il principio dell’equal pay non vale, nel senso che percepiscono salari più alti di quanto riceverebbero lavorando in loco e con alta probabilità maggiori dei loro colleghi nel paese in cui sono distaccati. Si tratta di un movimento significativo perché indica quanto siano integrate le strutture produttive a livello europeo, vale a dire quanto alcune imprese, europee e non solo, mantengano uno stretto comando sul lavoro lungo l’intera catena del valore inviando propri tecnici nelle unità produttive sparse in altri paesi. Mentre per il lavoro qualificato la mobilità è incentivata con aumenti salariali, per il lavoro operaio i salari devono essere regolati per evitare che la mobilità si trasformi in indipendenza dal lavoro.
In questo scenario la UE può ora finalmente porsi come garante di diritti sociali che sono ormai diventati niente più che principi regolativi del mercato. L’Europa dell’austerity ha cambiato il significato e il ruolo dell’Europa sociale. Campione tanto dell’una quanto dell’altra, il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, con grande spirito egualitario, sta coltivando il sogno di un mercato unico in cui il lavoro si muove, ma solo al bisogno. Nelle notti più movimentate si è spinto persino a immaginare una piattaforma patrocinata dalla UE che promuova l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro e che trasformi tendenzialmente il lavoro migrante in lavoro in distacco, facendo sì che di volta in volta il flusso di lavoro si concentri dove c’è richiesta e levi le tende quando la domanda viene meno. Si può così vedere che, anche nel suo delirio neoliberale, il capitale non riesce mai a liberarsi del sogno di un’economia se non pianificata, quanto meno regolata, ovviamente solamente per quel che riguarda i movimenti e le pretese della forza lavoro. Governo del salario e dell’insubordinazione operaia e pianificazione dei profitti. Più che una temporanea anomalia giuridica, più che la condizione particolare di un segmento peraltro numeroso di manodopera, il lavoro in distacco funziona come modello sperimentale per una mobilità regolata sulle esigenze del profitto. E da questo punto di vista esso riveste oggi un innegabile significato politico.
È in questo quadro che s’inserisce, inoltre, il progetto di costituire, entro il 2019, un’Agenzia europea per il lavoro che avrà il compito di «controllare» i più di 17 milioni di lavoratori UE che lavorano in altri Stati membri: dietro al presunto obiettivo dell’armonizzazione delle legislazioni vi è l’intento non troppo coperto di intervenire per assicurarsi che la mobilità non sia espressione della quotidiana insubordinazione operaia contro le condizioni di sfruttamento, ma sia invece strettamente legata alla disponibilità al lavoro. Tutto questo è compatibile con l’altro cavallo di battaglia di Juncker, cioè l’introduzione del salario minimo in ogni paese, un altro esempio dell’uguaglianza a poco prezzo sostenuta oggi da leader europei e nostrani. Tra i 20 ambiti toccati dai Pilastri Europei per i Diritti sociali, manifesto dell’Europa sociale immaginata dal presidente della commissione, vi è il fatto che «salari minimi adeguati dovranno essere assicurati in modo da garantire la soddisfazione dei bisogni del lavoratore e della sua famiglia alla luce di condizioni nazionali economiche e sociali, salvaguardando l’accesso all’impiego e gli incentivi per cercare lavoro». Il salario minimo deve essere «adeguato» affinché lavoratori e lavoratrici abbiano lo stretto necessario, ma manchino del superfluo che può consentirgli di muoversi indipendentemente dal lavoro o di organizzarsi per ottenere di più.
A fronte di questa pressione transnazionale sul salario, la confederazione europea dei sindacati – che inizialmente aveva spinto per includere tra i diritti previsti dalla nuova direttiva il diritto di sciopero e di associazione vigente negli Stati membri – si accontenta del principio dell’equal pay for equal work e saluta la direttiva come un importante passo avanti. Quest’esultanza ha però un’eco sinistra. È vero che, mentre prima era del tutto impossibile avanzare una vertenza che coinvolgesse i posted workers, ora si apre in linea di principio la possibilità di agire laddove il principio dell’equal pay for equal work sia disatteso. Tale principio può diventare la base possibile per un’azione legale a livello aziendale, ma non certo per un’azione collettiva. Peraltro i profitti delle imprese non ne risentirebbero più di tanto: persino i costi legali possono essere facilmente rendicontati tra le spese aziendali. Resta al sindacato solo un’arma a dir poco spuntata, ovvero la possibilità di contribuire alla gestione in loco dei rapporti di lavoro e di difendere pezzi di forza lavoro dagli attacchi combinati di UE, governi nazionali e imprenditori. In questo complesso scenario sarà oltre modo difficile avanzare rivendicazioni che superino il singolo lavoratore, il singolo luogo di lavoro e il tempo breve del risarcimento in caso di abuso. Sempre che le strategie delle organizzazioni sindacali lo prevedano e non si facciano invece carico della gestione di una forza lavoro segmentata ed espropriata di ogni potere. Quali siano poi le possibilità di coinvolgere i lavoratori in distacco in queste vertenze a fronte di normative che in tutta Europa cercano di limitare in vari modi il diritto di sciopero anche per i lavoratori locali rimane nebuloso. A quale diritto di sciopero possono fare ricorso i lavoratori in distacco? Quello del loro paese di origine? Quello del paese in cui è stabilita l’azienda per cui lavorano? O quello in cui stanno prestando la loro opera? Si mostra così che lo sciopero può essere sempre meno rivendicato come un diritto garantito per legge, ma deve essere sempre più agito su scala locale e transnazionale malgrado e spesso contro tutte le leggi che lo regolano.
Non più un diritto, lo sciopero torna a essere arma essenziale del processo di costruzione di lotte collettive su scala locale e transnazionale. Una lotta europea sul salario deve farsi carico della dimensione transnazionale della mobilità e deve attaccare frontalmente il problema dei differenziali salariali, riconoscendo il rischio che ogni conquista salariale a livello nazionale può essere compensata da una riduzione in un altro paese, in un altro punto della catena del valore o attraverso gerarchie interne al singolo luogo di lavoro. La regolazione dei posted workers mostra che è attualmente in atto uno scontro transnazionale sul salario che non può ambire a utopistici ritorni alla contrattazione nazionale, ma riguarda la mobilità e la sua regolazione. In questo scontro, il salario è scomposto e ricomposto combinando elementi nazionali e standard europei, in modo tale che il risultato finale, senza essere sconveniente per il singolo lavoratore (o per gli Stati fornitori di posted workers) sia comunque sempre profittevole per le imprese. Una lotta sul salario oggi deve allora essere in grado di porsi all’altezza dello scontro in atto, combinando la pretesa di un’uguaglianza salariale a livello transnazionale con la lotta per una mobilità libera da vincoli, contro le gerarchie sociali che permettono la segmentazione del lavoro da parte dell’UE e dei suoi Stati sovrani.